Etichettato: Global liquidity and procyclicality

Il superdollaro e i nuovi subprime globali

Scoprire che i tassi di interesse del mercato hanno smesso di essere coerenti con quelli sul mercato dei cambi può far apparire astrusa la lettura del lungo speech di Hyun Song Shin, capo della ricerca della Bis, che ne ha discusso a Washington. Ma in realtà l’analisi dei tassi serviva ad apprezzare quella che è una delle domande che si pone il nostro interlocutore, che può sembrare anch’essa esotica, ma state pur certi che in molti se la fanno e a ragion veduta: qual è il collegamento fra la violazione della CPI e il dollaro?

Un’indizio di risposta la troviamo in questa affermazione: “I mercati valutari delle economie avanzate sembrano un milione di miglia distanti dalle tensione nei mercati emergenti, ma l’elemento comune è che un dollaro più forte e condizioni di credito più tese vanno di pari passo”.

L’andamento del dollaro, infatti, e in particolare il suo rafforzarsi, ha un effetto diretto sulla CIP, incoraggiando la deviazione dalla regola della parità dei tassi. In sostanza è come se il rafforzarsi del dollaro generi squilibri fra i tassi di mercato e quelli valutari. Se allarghiamo lo sguardo agli ultimi anni, osserviamo che la divergenza si è esacerbata negli ultimi 18 mesi. In sostanza, “quando il dollaro si rafforza, il cross currency basis si allarga”. Di conseguenza è lecito dedurne che “un dollaro forte è associato a più gravi anomalie di mercato”. “La cosa stupefacente – sottolinea –  è che questo è vero non solo per i mercati emergenti, ma anche per le valute “safe haven”, come il franco svizzero o lo yen”. Per comprenderne le ragioni bisogna ricordare quale sia il ruolo del dollaro nel sistema bancario globale.

“Il dollaro – ricorda – è l’unità di conto di contratti di debito nei quali i debitori prendono a prestito i dollari e i creditori danno a prestito in dollari a prescindere dal fatto che i debitori o i creditori siano residenti negli Stati Uniti”. Questi flussi transfrontalieri di crediti/debiti sono visibili su un grafico che confronta la loro evoluzione fra il 2002 e il 2007. Qui osserviamo che nel 2002 le banche residenti Usa avevano crediti per 462 miliardi nei confronti di debitori europei, a fronte dei quali le banche residenti in Europea avevano crediti per 856 miliardi nei confronti dei debitori Usa. Nel 2007 i crediti di banche Usa nei confronti dell’Europa erano saliti a 1,54 trilioni (1.540 miliardi), mentre i crediti da Europa verso Usa avevano superato i 2.000 miliardi. Ciò mostra con chiarezza che il dollaro è molto usato anche da chi americano non è.

Le ragioni sono diverse e tutte riferiscono più o meno direttamente al ruolo internazionale di questa valuta. A tale ruolo fa riferimento anche la prassi di usare asset denominati in dollari come classi di investimento. “I grandi investitori istituzionali – spiega – possono incorrere in rischi di currency mismatch fra gli asset di cui dispongono e gli obblighi che hanno con i loro sottoscrittori”. Possono aver investito in asset denominati in dollari, ad esempio, e dover restituire prestazioni in euro. Poiché devo far fronte a questi rischi, normalmente questi soggetti fanno attività di hedging. Lo fanno quelli dei paesi emergenti e ancor di più quelli dei paesi avanzati, i cui portafogli di asset sono assai più gonfi. La controparte di queste attività di hedging è solitamente una banca e quest’ultima bilancia il suo rischio di valuta prendendo a prestito dollari. In sostanza, “i crediti in dollari sono controbilanciati da debiti in dollari”. “La conseguenza del ruolo internazionale del dollaro – osserva – è che il sistema bancario globale funziona con i dollari”.

Per avere un’idea di quanto pesi questo dare/avere denominato in dollari basta osservare quest’altro grafico che illustra il crediti denominati in dollari in giro per il mondo, che ormai stanno sui 10 mila miliardi di dollari, la gran parte dei quali, come si può vedere, non sono di residenti Usa. Dal grafico si può osservare che le banche svizzere e quelle dell’eurozona sono state molto attive in varie giurisdizioni, specialmente in UK e Usa.

Altresì interessante è notare come gli andamenti di questi crediti seguano quelli delle condizioni finanziarie. Il trend, crescente prima del 2008, si contrae vistosamente dopo la crisi e poi di nuovo fra il 2011-12 quando si verificò la crisi del debito sovrano in Europa. Di recente “l’aumentata forza del dollaro da metà 2014 ha provocato un declino nell’aggregato dei debiti transfrontalieri”, da cui si deduce che “le banche sono state meno disposte a garantire i roll over delle attività di hedge messe in campo dagli investitori internazionali durante il periodo più recente di ampia liquidità in dollari”. Andamenti simili si sono osservati anche sui derivati OTC sul mercato dei cambi. La questione, insomma, è alquanto pervasiva.

Queste osservazioni conducono a una prima considerazione che Shin riepiloga così: “Quando una moneta internazionale si deprezza, c’è la tendenza degli stranieri a prendere maggiormente a prestito in questa valuta”. Il che sembra assolutamente ovvio. “In questo senso – sottolinea – il valore del dollaro è un barometro della propensione al rischio e delle condizioni globali di credito”. Le conseguenze però dovrebbero impensierirci. Se, come dice Shin, un dollaro più debole si associa a un’espansione del credito in dollari, una minore volatilità e più prese di rischio, e il contrario accade quando il dollaro si rafforza, cosa succederà se il dollaro dovesse iniziare a rafforzarsi sul serio?

Nei primi anni ’80, lo ricorderete il super dollaro condusse a gravi crisi estere. E non certo a caso. “La politica monetaria Usa – osserva ancora – riveste un ruolo importante nella determinazione delle condizioni finanziarie globali”.

A differenza degli anni ’80, tuttavia, oggi c’è anche l’euro che “dopo un avvio lento sta mostrando segni di aggiungersi al dollaro con una moneta di funding internazionale”. E poiché l’euro di questi tempi è a prezzo di saldo, si nota una certo attivismo di prestiti in valuta europea anche da parte di non residenti. Ma parliamo di uno stock pari a circa un quarto di quello denominato un dollari. Persino le compagnie Usa hanno iniziato a prendere a prestito in euro. Le dinamiche non sono diverse da quelle osservate per il dollaro e di fatto funzionano anche per lo yen. Più una valuta internazionale diventa a buon mercato, più viene presa a prestito.

Tutto ciò ci conduce a quelle che vengono definiti “implicazioni macro” che sono direttamente collegate alle fluttuazioni dei cambi che non influenzano solo il settore reale, per il tramite dell’export netto, ma anche quello finanziario e il combinato influenza anche le politiche fiscali dei governi. Quest’ultima evidenza è stata particolarmente pregnante per i paesi emergenti, che hanno subito violenti scossoni in conseguenza delle oscillazioni del dollaro. Anche per loro, quindi, vale la regola che “la forza del dollaro è cruciale per le condizioni finanziarie”.

E questo ci porta alla conclusione. Come prima del 2008, il dollaro è diventato il carburante dell’indebitamento internazionale. Solo che allora erano le banche europee a esserne imbottite e oggi sono le corporation dei paesi emergenti. Lo stock di debito in dollari di non residenti è arrivato a 9,7 trilioni, 3,3 dei quali sono in pancia a entità non bancarie residenti nelle economie emergenti. Di fatto le nuove subprime globali. E infatti non appena il dollaro ha iniziato a rafforzarsi, queste economie hanno iniziato a scricchiolare.

Il film che sta andando in onda in questi mesi sofferti è sempre lo stesso. Chissà perché ci sembra ogni volta diverso.

(2/fine)

Puntata precedente

Il balletto misterioso dei tassi che preannuncia bufera

Mi trovo a leggere uno speech di Hyun Song Shin, economista capo della ricerca della Bis, che ha il pregio ogni volta di svelarci l’inconsistenza dei tanti luoghi comuni che affliggono il pensiero economico, indicando realtà fattuali che fanno strame dell’impostazione teorica che di fatto regge la modellistica internazionale. Potreste pensare che non è così importante, ma sareste in equivoco. Ciò che dicono i modelli influenza la politica economica, non il contrario. E ce lo ricorda Shin quando racconta di come l’argomento comune secondo il quale il saldo di conto corrente influenza il cambio – che si apprezza quando c’è un surplus e si deprezza quando c’è un deficit – è molto familiare sul tavolo del G20, ossia dove si decide il nostro destino. Salvo poi scoprire che la realtà la pensa diversamente.

Perciò vale la pena domandarsi se siamo sulla strada giusta. E il miglior modo per accompagnare questa domanda è ricordare la storia recente. “Nella metà degli anni 2000 – spiega Shin – il deficit di conto corrente degli Usa aumentò a livelli storici e molti commentatori si aspettavano un imminente deprezzamento del dollaro. Nei fatti, il dollaro andò nella direzione opposta”. Il sostanza il dollaro si apprezzò, specie al sorgere della crisi, facendo sfigurare i tanti soloni super esperti. Va ricordato che il dollaro forte finì con l’esacerbare la tensione finanziaria.

Adesso sembra che siamo tornati al punto di partenza. I mercati iniziano di nuovo a vedere un dollaro in rialzo, che si indebolisce quando la Fed nicchia sul rialzo dei tassi, accompagnandosi tale rallentamento con l’euforia delle borse, come se davvero, volendo usare la metafora del nostro economista, la coda (finanziaria) porti a spasso il cane (dell’economia reale).

E questo ci porta alla domanda vera e propria: perché le condizioni globali della finanza sono così sensibili alla forza del dollaro, e poi, perché l’economia reale è così sensibile alla finanza? Per rispondere bisogna scrutare le profondità, visto che la rassicurante tranquillità (mica tanto) della superficie nasconde tensioni. “C’è un’anomalia di mercato intrigante – dice Shin – nei mercati delle valute: il calo diffuso della covered interest parity (CIP)”. La CIP, nella formulazione comune, rappresenta l’assunto che i tassi di interesse impliciti nei mercati valutari siano coerenti con i tassi del mercato”. E in effetti, nota, prima del 2008 c’era una certa regolarità che confermava tale assunto.

La questione è per palati fini, e mi scuseranno gli specialisti se provo a tradurla in qualcosa di comprensibile. Il succo è semplice e rimanda a un’ipotesi di scuola: in un mercato perfetto non dovrebbe essere possibile svolgere attività di arbitraggio sui tassi di interesse. L’arbitraggio è quell’attività che consente a chi lo fa di guadagnare comprando in un certo luogo e vendendo in un altro per sfruttare magari diverse regole di funzionamento dei mercati.

A garantire l’ipotesi che non possa esserci arbitraggio in un mercato perfetto, e quindi assumendo implicitamente l’ipotesi che lo sia davvero, è stata elaborata l’ipotesi della parità dei tassi di interesse, che rimanda proprio alla nostra CIP, che potremmo tradurre come parità coperta dei tassi di interesse. La CIP postula che, proprio per evitare arbitraggi, ai differenziali dei tassi d’interesse sul mercato devono corrispondere differenziali tra i tassi spot e i tassi forward sul mercato dei cambi.

E questo, purtroppo, ci costringe a un altro approfondimento noiosetto, ma utile. Alla fine tutto si riduce a una semplice equazione, che non riproduco per non scoraggiarvi, ma il succo è molto semplice: se io compro un titolo in Europa, quindi denominato in euro, che abbia scadenza di un anno, e lo confronto con un titolo analogo ma in valuta americana, deve verificarsi che il livello dei tassi forward e spot sia tale da garantire una sostanziale parità di rendimento fra i due titoli. Al fine appunto di evitare gli arbitraggi. Questo nell’ulteriore ipotesi che gli asset abbiano uguale rischiosità e che i capitali siano liberi.

Questo ci costringe ad approfondire cosa siano i tassi spot  (a pronti), e forward (a termine), sempre perché aiuta a capire come gira il mondo. Il tasso spot misura il rendimento che il mercato si aspetta oggi di avere mettiamo fra un anno su una certa obbligazione. Il tasso forward è quello che si ipotizza di avere sulla base del rendimento del tasso spot alla fine del primo anno, ma al termine dell’anno successivo. Quindi è una sua derivazione, per questo si chiama tasso implicito.

I tassi forward e spot influenzano gli scambi sui mercati valutari, come gli swap. Questi ultimi consistono in transazioni dove una parte prende ad esempio a prestito dollari usando euro come collaterale. Il tasso forward è quello al quale le parti concordano di effettuare il regolamento al termine del periodo di prestito. Utilizzando questo tasso e il tasso spot corrente si può calcolare il tasso implicito sul dollaro.

E questo ci riporta alla rilevazione fatta dal nostro economista, dove vengono confrontati i tassi impliciti sul dollaro, quindi il tasso sul mercato valutario, a tre mesi col tasso a tre mesi sul mercato monetario. “Quando il tasso implicito è maggiore del tasso di mercato, ciò significa che chi prende a prestito dollari nel corso di uno swap sta pagando più del tasso di mercato nel mercato”. E questo è successo per chi ha scambiato yen, euro e franchi svizzeri col dollaro. Vuol dire che per questi soggetti è venuta meno la coerenza fra tassi e quindi la CIP. Questo è avvenuto nel 2008, quando scoppiò la crisi e fra il 2011-12, quando ci fu l’eurocrisi.

“La cosa sorprendente – osserva – è che questa deviazione è apparsa anche durante periodi di relativa calma”. Si è osservata in misura rilevante per lo yen, di recente, e poi quando il franco svizzero fu rivalutato nel 2015.

I tradizionalisti, come li chiama Shin, “saranno sorpresi nel notare che la CIP ha fallito; ma è così: in piena luce del sole”. E non solo: tali scostamenti – che di fatto si traducono in un maggior costo sopportato da chi prende a prestito dollari con altre valute – “sono diventati più pronunciati negli ultimi 18 mesi”. Il che suona come un freddo preannuncio di bufera.

Scoprire che i mercati non sono perfetti è un risveglio traumatico dal sogno dell’economia teorica. Ma la pratica è chiassosa.

E ancora non ci ha detto tutto.

(1/segue)

Puntata finale