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Abbuffata di dividendi dalle banche europee (e italiane)

Mancò il credito all’economia dalle banche europee, ma non il dividendo per gli azionisti, si potrebbe dire al termine dell’istruttiva lettura di uno speech di Hyun Song Shin, capo della ricerca della Bis che ha parlato alcuni giorni fa a Francoforte discorrendo del ruolo del settore bancario nella trasmissione della politica monetaria della banca centrale.

Il tema è rilevante, malgrado richieda qualche approfondimento tecnico per essere ben compreso. Perciò è utile cominciare da una premessa che il nostro economista chiarisce sin dall’inizio: “La macroeconomia ha ancora una relazione difficile con il settore bancario. Sono stati fatti alcuni progressi nell’incorporazione delle banche nei modelli teorici, ma quelli standard tengono ancora in poca considerazione le banche. I testi introduttivi della macroeconomia non dicono molto delle banche e per questa ragione i sofisticati modelli macroeconomici usati dalle banche centrali raramente menzionano le banche”.

Questa sorprendente affermazione ci dice una cosa molto semplice. Il Golem che alimenta la nostra rappresentazione della realtà non è soltanto stupido, ma anche mezzo cieco. In sostanza le banche centrali guardano alla realtà che pensano di modificare con il loro comportamento sapendo, o per lo meno avendone il sospetto, che quello che stanno guardando è gravemente incompleto.

E ciò spiega perché a volte falliscono nel raggiungere gli obiettivi che si propongono. E questo per una semplice ragione: la banca centrale agisce innanzitutto per il tramite di quegli intermediari – ossia le banche – che per la teoria economica quasi non esistono, essendo giudicati alla stregua di passanti occasionali del processo economico, come ricorda lo stesso studioso raccontando di una sua conversazione con un economista di qualche anno fa. Non serve approfondire più di tanto la tecnicalità. Basta semplicemente ricordare che la banca centrale custodisce le riserve obbligatorie delle banche commerciali, che fra l’altro alimentano il mercato interbancario, e che quando vuole aumentare o diminuire la base monetaria agisce anche su tali riserve. La così detta moneta di banca centrale, infatti, o base monetaria, si compone di contante e riserve delle banche commerciali.

Ciò per dire che qualunque azione di politica monetaria coinvolge in qualche maniera questi intermediari, che la macroeconomia  vede come “fantasmi” quando invece la pratica del central banking assegna loro una chiara funzione di trasmissione quantomeno indiretta degli impulsi di politica monetaria. Indiretta perché le riserve possono pure aumentare, ma non c’è un collegamento diretto con un aumento del credito erogato. Primo perché non è detto che una banca che ha più riserve sia anche disposte a moltiplicarle in offerta di credito. Poi perché il credito dipende anche dalla domanda. Non basta che te lo offrano, magari a prezzi da realizzo. Qualcuno deve anche volerlo.

E questo spiega perché Hyun Song Shin ne deduca che la teoria che guarda alle banche come soggetti passivi sia errata: “E’ importante considerare le banche come attori a pieno titolo che gestiscono attivamente i loro bilanci, perseguendo i propri obiettivi e reagendo ai vincoli che altri attori pongono su di loro”. Insomma, sono banche, non marionette della macroeconomia. Tutto questo che sembra astratto, risulta essere molto concreto quando si osserva a come le banche stiano reagendo alla politica dei tassi negativi.

La seconda osservazione di Shin non è meno pregnante e riguarda il capitale delle banche. Le banche centrali guardano al capitale bancario come a uno degli elementi della stabilità finanziaria o nell’ambito della loro attività di supervisori. “Ma avere banche ben capitalizzate è risultato importante per avere un buon meccanismo di trasmissione della politica monetaria”. In tal senso questa evidenza dovrebbe iscriversi di diritto nel patrimonio di conoscenze di una banca centrale.

Perché tale discussioni non vi risulti oziosa, è bene subito riportare alcune evidenze monitorate dal nostro esperto. I fondi propri di una banca, spiega, derivano da diverse fonti, la più importante delle quali è quella costituita dai retained earnings, che potremmo tradurre come gli utili cumulati e non redistribuiti agli azionisti. Tale grandezza non viene comunemente osservata e questa è una ragione in più per seguire il nostro relatore.

Un grafico molto interessante, con dati riferiti a 90 banche europee dal 2007 al 2014, mostra che i retained earning (RE) del 2007, quindi i profitti cumulati e non redistribuiti sino ad allora dalle banche erano 256 miliardi di euro, cifra simile a quella del 2014, quando erano 261. L’andamento di questi RE è stato altalenante negli anni della crisi. Scesi a 190 miliardi nel 2008, sono risaliti a 234 nel 2009 per raggiungere i 268 nel 2010 Da lì si è tornati sotto i 200 miliardi e via via si è risaliti verso il dato 2014.

Accanto ai RE vengono visualizzati i dividendi cumulati che sono stati distribuiti agli azionisti. Questi, a differenza dei RE sono cresciuti con notevole regolarità e anche quantità. Nel 2007 i dividendi cumulati sommavano a 37 miliardi. A fine 2014 erano arrivati a 196. Ciò significa che mentre nel 2007 i dividendi pesavano poco più del 14% sui RE, nel 2014 sono arrivati a pesare il 75%. Per dirla con le parole del nostro esperto, “ciò significa che gli utili accumulati dalle banche (e quindi questa parte di mezzi propri, ndr) sarebbero stati il 75% più elevati nel 2014 se le banche avessero scelto di reinvestire i profitti nei fondi propri, piuttosto che spenderli per pagare dividendi agli azionisti”. Ma vuol dire pure che questi 196 miliardi di euro sono stati trasferiti dal settore bancario agli azionisti invece che utilizzarli a supporto del credito alle economie. Ciò che avrebbe potuto generare un circolo virtuoso e ancora maggiori profitti per le banche.

Ma poiché con i se e con i ma non si va lontano, è utile osservare un’altra cosa. “In alcuni paesi i dividenti accumulati hanno superato i RE”. Questi ultimi sarebbero stati più del doppio di quanto fossero a fine 2014 che i profitti fossero stati reinvestiti nelle banche”. Vale la pena notare che nel gruppo di banche generose con i propri azionisti ci stanno quelle di Francia, Spagna e Italia. Per il nostro paese si osserva un RE totale, cumulato dal 2007 al 2014, di 25 miliardi, e dividendi pagati, nello stesso periodo, per 28. Ciò significa che se le banche italiane avessero capitalizzato i profitti invece di pagare gli azionisti, oggi avrebbero utili cumulati per 53 miliardi invece di 25 e forse avrebbero potuto affrontare con meno ansia – e noi di conseguenza – le loro sofferenze.

Invece hanno preferito versare dividendi gli azionisti. Che poi sono gli stessi che magari si lamentano del bail in.

L’economia ai tempi dello ZLB: La Bce fa aumentare il credito. In Svezia

Per quelli che giudicano inutile, se non addirittura dannosa, la politica monetaria vale la pena riportare un interessante speech pubblicato dalla Bis dove viene fuori un’altra evidenza circa gli esiti delle decisioni delle banche centrali: la loro costante eterogenesi dei fini. Come altro considerare l’evidenza che le scelte della Bce finiscono finalmente con l’aumentare il credito, ma non nell’eurozona bensì in Svezia?

Ancora più interessante notare, osservando il grafico, è che nei paesi dove le policy delle banche centrali hanno condotto i tassi in territorio negativo, l’andamento del credito è stato assai differente, mostrando ciò un’altra evidenza che la modellistica che alimenta le decisioni delle banche centrali tende a ignorare: i sistemi bancari non sono tutti uguali. E banche diverse fanno cose diverse. Le caratteristiche di un sistema bancario provocano che la risposta alla politica monetaria sia molto differente a seconda del luogo dove si origina.

Se non fosse così non si spiegherebbe come sia possibile che in Svizzera e in Svezia, nello stesso trimestre considerato si avessero, nell’una una crescita negativa del credito del 2% e nell’altro una crescita positiva dell’8%.

Quest’ultima impennata del credito svedese merita un approfondimento, ma prima giova sottolineare che nel frattempo la crescita del credito nell’eurozona è stata praticamente piatta. Sopra lo zero, o poco più. Altrettanto interessante osservare il dato del Giappone, impegnato in un’azione di stimolo monetario imponente ormai da diversi anni. Bene: dal primo quarto 2014, quando il tasso di crescita del credito era al 4%, si è arrivati alla fine del 2015 con un tasso dimezzato. Da questo punto di vista si puà dire che l’azione della Bce abbia funzionato, visto che la crescita era negativa nel 2014 e adesso è poco sopra lo zero.

Ma certo, l’eurozona non ha fatto faville. Vedremo nei prossimi mesi. Ma chi si aspetta che basti abbassare i tassi per stimolare il credito dovrebbe iniziare a nutrire qualche dubbio. Per dirlo con parole di Hyun Song Shin, autore della presentazione (Bank capital and monetary policy transmission), “in tempi normali il modello classico è un’accettabile astrazione di cosa accada al prestare. Il problema sorge quando si spinge il modello al di là del punto di rottura e l’astrazione non è più accettabile”. E poiché non viviamo tempi normali – il punto di rottura sono i tassi nominali azzerati o negativi che il modello non contempla – ecco che l’automobile del credito, per usare la stessa metafora scelta dal nostro economista, rischia di trovarsi il freno dove prima c’era l’acceleratore. Il che può essere molto pericoloso, quando si guida.

Le ragioni per queste divergenze fra andamenti del credito nei vari paesi a tassi negativi possono essere molteplici. Dipende ad esempio, da quanto pesino i depositi sui prestiti, o da quanto pesino sugli asset. Dipende dal modello di business. Dipende anche dal costo di finanziamento che le banche devono affrontare. E qui è interessante osservare quale possa essere stata la spiegazione di ciò che è accaduto in Svezia.

Secondo il nostro economista la spiegazione è semplice. “Le banche svedesi sono sensibili agli sviluppi nell’area euro e specialmente all’inclinazione della curva dello yield”. Per dirla semplicemente le banche svedesi hanno trovato conveniente indebitarsi in euro e prestare a lungo termine in corone. Sicché hanno emesso bond a lungo termine denominati in euro e poi li hanno usati come collaterale nel mercato monetario per prendere a prestito corone che hanno dato a loro volta a prestito al mercato domestico. In sostanza hanno sfruttato l’andamento dell’euro per avere finanziamenti a costo più contenuto. Il risultato è stata “un’abbondanza di euro in Svezia da parte di venditori (le banche, ndr) che vogliono prendere a prestito corone con euro come collaterale”. L’analisi mostra inoltre che “le banche in Svezia tendono ad attingere più fondi all’estero quando l’euro è debole” e questa è una evoluzione alquanto recente, nota ancora. “In questo senso la notevole crescita del credito in Svezia può essere collegata sia agli sviluppi monetari  dell’euro zona che a circostanze domestiche”.

Nel dubbio, non ditelo a Draghi.

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