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L’incognita inattivi sul reddito di cittadinanza

In attesa di capire la forma definitiva del cosiddetto reddito di cittadinanza, del quale molto si è parlato ma poco si è concretamente visto, vale la pena ricordare gli strumenti che la nostra legislazione prevede per il sostegno del reddito di chi è rimasto senza lavoro, che dovrebbe essere una delle ragioni costituenti del provvedimento. Giova allo scopo una recente pubblicazione di Bankitalia che fa il punto sull’evoluzione dell’indennità di disoccupazione in Italia, che è un ottimo riepilogo del quadro normativo e finanziario che dal 2012 in poi ha cambiato sostanzialmente il sistema di assistenza sociale per i disoccupati. Per farla semplice, la legge Fornero del 2012, che ha istituito l’Aspi (Assicurazione sociale per l’impiego), e il Jobs act del 2015, che ha istituito la Naspi (nuova assicurazione sociale per l’impiego), miravano a rendere il sussidio più universale anche agganciandolo a una precisa condizionalità, ossia all’accettazione di offerte di lavoro e alla partecipazione a corsi di riqualificazione professionale. Tutti ingredienti che ricorrono nelle varie anticipazioni del reddito di cittadinanza, che di conseguenza in qualche modo a tale normativa si ispira. E’ interessante perciò capire quali siano stati gli esiti delle riforme degli anni scorsi per provare a immaginare quali potrebbero essere le conseguenze dell’applicazione di una nuova normativa che ad esse implicitamente si ispira.

La prima osservazione è che mentre il take up rate, ossia la percentuale fra coloro che fanno domanda rispetto a quelli che ne hanno diritto non ha subito grandi cambiamenti, collocandosi intorno al 50% nel passaggio fra la vecchia Indennità di disoccupazione all’Aspi, “un valore basso rispetto al confronto internazionale”, osservano gli economisti di Bankitalia. La seconda è ancora più interessante. “In media circa una persona su sette, fra quanti ricevono un sussidio di disoccupazione o mobilità, non risulta attivo sul mercato del lavoro”, spiegano. E questo “nonostante la crescente attenzione che nel tempo le norme hanno posto sul fatto che chi riceva un sussidio debba ricercare un lavoro ed essere pronto ad accettare lavori congrui”. Un’altra continuità con il passato che dovrebbe preoccupare chi oggi collega il futuro reddito di cittadinanza alla ricerca attiva di un lavoro dando per scontato che ciò servirà a motivare gli inattivi.

Facciamo un passo indietro. Fino al 2012 i disoccupati del settore privato non agricolo potevano contare su tre istituti per il sostegno del reddito: l’indennità ordinaria di disoccupazione, l’indennità di disoccupazione a requisiti ridotti e la mobilità. Ognuno di questi istituti aveva le sue regole ma complessivamente il sistema “si caratterizzava per un’elevata frammentazione e un grado di copertura basso nel confronto internazionale, riflettendo sia l’esclusione dal diritto di numerose frange di lavoratori sia un trattamento poco generoso”. Per giunta i numerosi provvedimenti adottai “in deroga” delle discipline hanno generato una notevole complessità al punto che la “sovrapposizione tra diversi tipi di sussidio aveva mutato la natura del sistema, che, originato per tutelare il lavoratore e la sua capacità reddituale sempre più spesso si trasformava in uno strumento di politica industriale, utilizzato a salvaguardia delle imprese che non avevano più la capacità di rimanere sul mercato”. In sostanza si è andato via via sfumando il confine fra misure di sostegno al reddito e sostegno all’inefficienza del sistema.

Le riforme iniziate nel 2012 si proponevano di superare questo stato di cose. L’obiettivo era “accrescere le opportunità di accesso e il grado di universalità, con un innalzamento dei livelli di generosità dei trattamenti di base”. L’Aspi perciò ha sostituito tutti gli strumenti in vigore allargando la platea dei beneficiari a tutti i lavoratori con rapporto di lavoro subordinato, con l’esclusione dei dipendenti a tempo indeterminato della PA e gli operai agricoli, allungando anche la durata del sussidio che per i lavoratori con più di 55 anni veniva fissata in 16 mesi. Inoltre è stata istituita, sempre allo scopo di allargare la platea degli aventi diritto potenziali, la mini Aspi che imponeva requisiti minori per accedere al contributo (13 settimane di contributi negli ultimi 12 mesi).

Nel 2015 il Jobs act ha aggiunto ulteriori elementi al sistema degli ammortizzatori sociali per la disoccupazione involontaria con la Naspi, che ha rimosso completamente il requisito dei due anni di anzianità contributiva riducendo il requisito richiesto a 13 settimane di contribuzione nei quattro anni precedenti con almeno 30 giorni lavorativi nell’ultimo anno. La durata del sussidio è prevista per un numero di settimane pari alla metà di quelle retribuite fino a un massimo di 24 mesi, per un importo in funzione della retribuzione media mensile degli ultimi quattro anni. “Al fine di evitare comportamenti opportunistici e incentivare i disoccupati alla ricerca di un nuovo lavoro, – spiegala ricerca – la Naspi prevede inoltre che il sussidio di partenza si riduca del 3 per cento al mese, a partire dal quarto”. In coerenza con la volontà di non favorire l’inattività, la Naspi ha dato maggiore enfasi al requisito della condizionalità, ossia “alla ricerca attiva del lavoro, all’accettazione di un’offerta di lavoro congrua nonché alla partecipazione a corsi di riqualificazione professionale”. Il Jobs act aveva anche previsto l’istituzione dell’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del lavoro (ANPAL) che avrebbe dovuto migliorare la gestione del mercato del lavoro e monitorare le prestazioni erogate. Ma i risultati auspicati non sono stati raggiunti. Non si è arrivati al momento a nessun accordo fra il ministero del Lavoro e le Regioni, che “sono rimaste titolari della potestà legislativa in materia di politiche del lavoro”. “La riforma della Costituzione, approvata da entrambe le Camere nel 2016, – ricorda Bankitalia – prevedeva che la potestà legislativa in merito alle politiche attive del lavoro fosse di diretta competenza dello Stato; l’esito negativo del referendum popolare del 4 dicembre 2016, che ha bocciato le modifiche costituzionali proposte, ha avuto come risultato anche quello di lasciare tali competenze alle Regioni”. Questa situazione non è mutata. Di conseguenza lo strabismo istituzionale fra l’erogazione centralizzata del sussidio e la decentralizzazione della regolazione delle attività lavorative è una circostanza di cui si deve debitamente tener conto quando si pianificano azioni che coinvolgano il sostegno al reddito e il mercato del lavoro.

A fronte di questo contesto normativo, si può tentare un’analisi dei risultati ottenuti. “Nel 2016 il costo complessivo, al netto dei contributi figurativi, per i sussidi di disoccupazione è stato di 11,7 miliardi di euro, pari all’1,7 per cento del totale dei redditi di lavoro”. I dati di bilancio Inps mostrano che “soffermandosi sulle indennità di disoccupazione, la spesa, abbastanza stabile fino all’esplodere della crisi, sia poi velocemente aumentata raggiungendo i 17,6 miliardi nel 2016 (7,5 miliardi nel 2007); nello stesso periodo i sussidiati sono aumentati di oltre un milione, a circa 3 milioni”.

La prima cosa da capire, quindi, è se i miliardi che il governo dice di voler mettere sulla voce del reddito di cittadinanza siano in qualche modo un sostituto di questa cifra o se invece si aggiungeranno a questa cifra, visto che “tra i beneficiari dei sussidi possono esservi persone che in realtà non sono classificate come attivamente alla ricerca d’un lavoro”.

Ciò accade perché “sebbene i sussidi siano formalmente condizionati alla ricerca attiva di un impiego, la quota di percettori che non cercano o non sono disponibili a lavorare non è piccola. Nel complesso dei percettori di sussidi, indipendentemente dalla fase e dalla tipologia del trattamento, essa era pari al 14,3 per cento nel 2016”. E anche col passaggio dall’Aspi alla Naspi tale quota risulta sostanzialmente invariata. Per quale ragione un reddito di cittadinanza, che presume condizionalità analoghe a quelle previste dalle norme ancor in vigore, dovrebbe ottenere risultati differenti? “La probabilità di essere inattivo sul mercato del lavoro sia rimasta abbastanza costante nel corso degli anni e senza grandi variazioni dovute ai cambiamenti di strumento, addirittura sarebbe leggermente aumentata con il passaggio dall’Aspi alla Naspi”. Di conseguenza “la maggiore attenzione che con la Naspi il legislatore ha prestato all’esigenza che il lavoratore sussidiato sia attivamente alla ricerca d’un lavoro non sembra perciò essersi traslata in una maggiore attivazione dei soggetti sussidiati, che anzi sarebbero stati, ceteris paribus, meno attivi”.

Bankitalia ha anche stimato la quota di sussidi che vanno a persone che non si attivano per la ricerca di un lavoro e che, nel 2016, valeva circa 1,7 miliardi di euro.

Bankitalia è andata oltre e ha anche scorporato il dato su base regionale. Viene fuori che “è la Lombardia con circa 300 mln di euro a evidenziare il livello più alto di spesa per sussidi concessi a disoccupati non attivi”.

Da qui la conclusione: “Rimane significativa la quota di percettori di sussidio che non cerca lavoro e non è disponibile a lavorare. Un alto tasso di inattività tra i percettori conferma la necessità di una maggiore integrazione tra politiche passive e attive del lavoro, resa meno agevole dal fatto che, mentre le prime
sono centralizzate, le seconde sono gestite in piena autonomia – finanziaria e legislativa – dalle Regioni”. Insomma, la realtà sembra far strame di pregiudizi e facilonerie. Dovrebbe servire da insegnamento. Ma prima bisogna, umilmente, farci i conti.

I consigli del Maître: I “vecchi” lavoratori italiani e le armi cinesi

Anche questa settimana siamo stati ospiti in radio con gli amici di Spazio Economia. Ecco di cosa abbiamo parlato.

Siamo un paese per vecchi lavoratori. L’Adapt, associazione che si occupa di studi comparati sul diritto del lavoro e le relazione industriali, ha presentato un interessante paper che fa il punto sul Jobs act presentando un primo bilancio del provvedimento quanto ai posti di lavoro creati e ai costi. Uno degli esiti più interessanti da osservare è che il provvedimento voluto dal governo ha favorito la creazione di posti di lavoro fra gli over 50 assai più che fra i giovani, per i quali la disoccupazione è rimasta elevata.

Questo risultato ha incrementato una tendenza già visibile sui tassi di partecipazione al lavoro: ossia il graduale aumento di quelli della categoria più attempata rispetto ai giovani.

E’ interessante inoltre osservare che mentre il numero dei nuovi contratti a tempo indeterminato è rimasto sostanzialmente stabile fra il 2014 e il 2016, di poco superiore a 1,2 milioni di lavoratori, è notevolmente cresciuta la quota di lavoro a tempo determinato, passata da 3,3 milioni a oltre 3,7. La quota di contratti trasformati da tempo determinato a tempo indeterminato è lievemente cresciuta. Complessivamente la politica di decontribuzione, costata una ventina di miliardi, ma il dato definitivo lo vedremo solo nel 2019, ha condotto questi risultati: più anziani al lavoro, più contratti precari.

Consumatori infedeli Il McKinsey Institute ha diffuso una ricerca molto interessante che dice molto sul come le nuove tecnologia digitali abbiano cambiato il nostro modo di essere consumatori. Una volta si era condotti ad instaurare relazioni stabili con i fornitori, basate sulla consuetudine, la frequentazione del negozio, persino la conoscenza personale. E questo conduceva a una fidelizzazione notevole del consumatore che compensava col lato umano, chiamiamolo così, eventuali diseconomie che potesse soffrire. Questo mondo è entrato in crisi con l’avvento della grande distribuzione e adesso è definitivamente esploso con l’arrivo delle tecnologie digitali. In sostanza siamo diventati un popolo di consumatori infedeli.

Tolti pochi servizi – ad esempio l’assicurazione auto ancora abbastanza fidelizzante, o il gestore telefonico – ormai per la stragrande maggioranza dei nostri beni si verifica una straordinaria transumanza di consumatori a caccia di occasioni. Una mentalità che vale per l’economia, ma è facile emigri anche in altri campi.

L’età della diseguaglianza. Uno studio molto interessante diffuso dalla Fed pone una questione solitamente poco osservata nelle varie ricerche che si occupano di documentare l’aumento di diseguaglianza che sta lacerando le nostre società.

Solitamente si pensa che la diseguaglianza sia una conseguenza delle pratiche economiche invalse nell’ultimo trentennio – e segnatamente la globalizzazione – che ha finito col favorire sempre meno ricchi a svantaggio di sempre più poveri. Aldilà di quanto sia plausibile questa narrazione – esistono prove evidenti che a livello globale la diseguaglianza è diminuita, mentre è aumentata all’interno dei paesi – è interessante il punto di vista della Fed, che si domanda se tale aumento non sia in qualche modo riconducibile all’aumento dell’età media delle popolazioni nei paesi avanzati, visto che di solito le persone più attempate hanno maggiori disponibilità di ricchezza rispetto ai più giovani, per cui, aumentando il loro numero, aumenta la concentrazione di ricchezza in questa fascia di popolazione. Il dibattito è aperto.

Il mestiere cinese delle armi. Lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI) ha pubblicato un rapporto interessante sulla crescita del volume internazionale delle transazioni di armi, economia fiorentissima tornata d’attualità dopo l’annuncio del presidente Trump di voler aumentare di 54 miliardi la già elevata spesa Usa per la Difesa. Il rapporto contiene alcuni dati utili a fotografare l’andamento di questo mercato.

Ad esempio ci dice che la quota di mercato degli Usa è aumentata al 33% mentre quella della Russia è diminuita al 23%. Ma al tempo stesso che l’export cinese di armi è molto cresciuto, raggiungendo il 6% del totale, ossia il terzo posto dopo gli ex attori della guerra fredda. Al tempo stesso sempre la Cina, con il suo 5% di quota delle importazioni globali, si è guadagnata il quarto posto delle classifica degli importatori dopo l’India (13%), l’Arabia Saudita (8%) e gli  Emirati Arabi Uniti (5%). Il volume delle armi cinesi esportate è cresciuto del 74%, se si confrontano il quinquennio 2007-11 con quello 2012-16, e il primo acquirente della Cina, con circa un terzo della quota, è il Pakistan, ossia l’arcinemico dell’India, mentre un quinto va al poverissimo Bangladesh e un altro 10% al Myanmar. In rapida crescita anche le esportazioni verso l’Africa. Come importatore la Cina compra il 57% delle sue armi dalla Russia, il 16% dall’Ucraina e il 15% dalla Francia. E siccome comprare armi non è come comprare prosciutti, questo serve a capire meglio come va il mondo. Ci piaccia o no.

Cronicario: Il Jobs act è l’elisir di eterna giovinezza

Proverbio del 3 marzo Ciò che è scritto in fronte viene sempre letto

Numero del giorno: 59 % cittadini europei che usa l’on line banking

Scopro così, in un pigro pomeriggio venerino che già odora di primavera, l’autentico segreto dell’eterna giovinezza che noi italiani stiamo imparando a conoscere: il lavoro. Chi lavora non invecchia mai, anzi, a dirla tutta, ringiovanisce. Diventa persino stagista, come i diciottenni, e poco manca, se è un maschietto, che gli ricrescano i capelli.

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Il lavoro nobilita e ringiovanisce, altroché. E questa prodigiosa scoperta la dobbiamo al nostro meraviglioso governo, che, avendolo appreso, ha fatto in modo che aumentasse l’offerta di lavoro per gli over 50, ossia quelli che più si avvicinano alla pensione e che, siccome non la raggiungeranno mai, devono essere tenuti in forma: ringiovaniti appunto.

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E i risultati, una volta tanto, sono confortanti, come leggo soddisfatto nell’ultimo bollettino Adapt diffuso di recente. Scopro, compulsandolo, che “il capitale umano favorito da Jobs act è quello rappresentato dai lavoratori con esperienza, mentre sono scarsi i segnali positivi per la fascia più giovani”. Perché sorprendersi: sono giovani, mica hanno bisogno di ringiovanire. E poi leggo che “l’aumento degli occupati nella fascia over 50 è comunque plausibilmente legato alla riforma Fornero”, che per fortuna ha costretto i lavoratori over 50 a vivere la loro ultima giovinezza. E infatti molti hanno aderito entusiasti.

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E non pensate che sia avvenuto per caso. E’ dal 2007 che si studia come far ringiovanire gli italiani.

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E come vedete finalmente ci siamo riusciti. E’ costata una cosetta, una ventina di miliardi, fare questo miracolo. Ma la giovinezza non ha prezzo. E comunque ci sono le tasse dei cittadini per questo.

Per non intristirvi troppo, in questo venerdì di mezza primavera, vi darò un’altra informazione che sono certo vi sorprenderà: siamo diventati un popolo di infedeli. No, non sono un fondamentalista islamico. E neanche un censore delle scappatelle. Mi riferisco alle nostre abitudini di consumo, che da quando si è diffusa la tecnologia digitale sono state stravolte dalla mania del click. Andiamo a caccia di occasioni come i maniaci a caccia di gonnelle. E qual è il risultato? Che al massimo siamo rimasti fedeli a chi ci fornisce la connessione.

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V’è piaciuto l’amore (per lo shopping) libero? Ecco il risultato.

A lunedì.