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Più offerta e meno domanda: così l’inflazione rallenta

Fra le molte circostanza che influenzano l’andamento dei prezzi, l’andamento dell’offerta e della domanda in qualche modo le sommano tutte, anche se ovviamente non le esauriscono. Nel senso che la quantità di beni e servizi richiesti e la loro disponibilità sui mercati impattano sui prezzi notevolmente, specie quando hanno andamenti molto diversi dai loro trend storici.
La qualcosa si è verificata durante la pandemia, quando alla crisi dell’offerta, determinata dal blocco delle produzioni, si è associato una forte domanda seguita all’allentamento delle restrizioni. Una domanda ben fornita di risorse, peraltro, visto che ai risparmi forzosi accumulati da molti durante le chiusure si sono associati gli stimoli fiscali e monetari concessi dai governi.
Questa tempesta perfetta ha iniziato visibilmente a schiarirsi l’anno scorso, quando la disinflazione è divenuta più robusta, sommandosi stavolta al ritiro degli stimoli l’aumentata produzione e una domanda mitigata dagli eccessi del 2022.
Il grafico sopra ci consente di apprezzare le differenze fra paesi molto diversi fra loro, che però hanno in comune una cosa: il contributo dell’offerta è stato per tutti negativo. Nel senso che ha diminuito la pressione sui prezzi. Notate che in molti dei paesi osservati – il caso americano è importante – anche la domanda ha contributo alla disinflazione. Nel senso che la gente ha chiesto meno beni e servizi, a fronte di una maggiore disponibilità di beni e servizi.
I due movimenti si sono quindi sommati e hanno contribuito al forte rallentamento dei prezzi che si osservato in corso d’anno, e questa è sicuramente una buona notizia.
Quella meno buona è che la disinflazione non è stata uniforme. Nei paesi Ocse si osserva una persistente inflazione dei servizi, tanto per cominciare.

In secondo luogo, proprio l’entità di questa disinflazione l’anno scorso solleva interrogativi sulla sua solidità. Andiamo verso un mondo in cui ci saranno meno beni e servizi del 2023, visto che la crescita (ossia la produzione) ha rallentato, mentre la domanda su alcuni settori rimane molto tirata. Esiste la probabilità che i due effetti combinandosi esprimano una tendenza diversa da quella osservata, specie se i governi vorranno provare a raffreddare l’economia senza troppi traumi. Fra quello che è successo e quello che succederà c’è sempre un legame. E solo il tempo, purtroppo o per fortuna, ci può dire come si sciolga.
Le priorità di policy secondo Ocse

Dunque, secondo Ocse “in questo contesto, le principali priorità politiche consistono nel garantire una riduzione duratura dell’inflazione, nell’affrontare le crescenti pressioni fiscali e migliorare le prospettive di crescita sostenibile e inclusiva nel medio termine”. Laddove il contesto è quello che conosciamo di crescita poco dinamica, seppure con varie sfumature (Emergenti più veloci di Avanzati, Stati Uniti, fra gli avanzati, più veloci dell’Europa), inflazione ancora persistente e soprattutto appesa al filo sempre più sottile dei rischi geopolitici crescenti, che con molta facilità potrebbero far saltare quel fragile equilibrio di fattori che sta lentamente riportando i prezzi verso i target delle banche centrali.
Le priorità di Ocse, a ben vedere, suonano come un accorato appello ai policy maker. I tre punti messi in evidenza dall’istituto, si potrebbero facilmente ridurre a uno solo: governare con fermezza e spirito collaborativo. Serve fermezza per tenere la politica monetaria restrittiva ancora a lungo, e ne serve ancor di più per riportare la politica fiscale a livelli assai più prudenti a quelli ai quali ci hanno abituato le varie emergenze che ormai ritmano la nostra quotidianità. Anzi bisognerebbe dire con voce quanto più possibile ferma che è ora di finirla con l’idea che il bilancio dello stato sia la soluzione a qualsiasi problema.
Non meno importante, anzi probabilmente la cosa più importante, è che i governi si adoperino per rilanciare la cooperazione ” per far rivivere il commercio globale”, come auspica Ocse. Piaccia o meno, il commercio internazionale, ben regolato, rimane la principale fonte di prosperità per tutti.
Soprattutto serve fermezza per guardare lo scenario che si presenta davanti ai nostri occhi, quello che Ocse chiama “long-term decline”, riferendosi alla sua manifestazione economica, che l’invecchiamento crescente della popolazione e le sfide della transizione ecologica e digitale portano con sé. Anche qui, l’appello è sempre lo stesso: fare riforme strutturali per rinvigorire la crescita e migliorare la sua qualità.
Le priorità di policy fissate da Ocse intervengono in un contesto di crescita che rimane resiliente ma che perde sempre più colpi. L’Europa guida questa poco fortunata classifica, vuoi perché nella sua economia il peso della finanza bancaria è rilevante, e questo è una zavorra quando i tassi crescono, vuoi perché l’Europa ha subito uno shock energetico più forte e quindi maggiori tensioni sui redditi. Nel terzo quarto 2023 l’Area è cresciuta solo dello 0,1%, perciò, ma sarebbe quantomeno miope affidarsi a un dato congiunturale evitando di osservare che l’Europa si trova all’ennesimo crocevia della sua vocazione esistenziale.

E il fatto che l’Eurozona sia il fanalino di coda delle varie regioni economica più importanti non dovrebbe perciò stupirci più di tanto.

La survey (grafico sopra) non fa altro che rappresentare uno stato d’animo diffuso, che racconta di un certo raffreddamento dell’ottimismo. Ossia l’unica risorsa che può tirarci fuori dalle secche di un’economia vocazionalmente stagnante perché incapace di alzare lo sguardo dal presente.
Questo è il frutto peggiore dell’invecchiamento. Del nostro invecchiamento. Il credere che il futuro sarà uguale al presente, e comunque peggiore del passato. Purtroppo l’Ocse non ha policy da suggerire, a tal proposito.
