Etichettato: produttività del lavoro

I boom finanziari fanno crollare la produttività (e quindi i salari)

Nella gran confusione del nostro tempo, credo si debba esser grati a chi prova a far chiarezza su alcune vicissitudini economiche che, solitamente malcomprese, alimentano dibattiti virtuali che poi sfociano in meravigliose leggende metropolitane.

Ho provato perciò una sensazione di gratitudine leggendo l’ultima relazione annuale della Bis, laddove tratta un approfondimento che ha aggiunto un tassello importante alla mia personale comprensione dello spirito del nostro tempo.

Mi riferisco in particolare a un tema che sembrerà astrusamente specialistico, ma che invece delinea con chiarezza quali siano le coordinate dell’agire politico che poi trova nell’economico la sua declinazione retorica.

Il tema in questione è il rapporto fra i boom finanziari e l’andamento della produttività, il cui declino, per opinione ormai pressoché unanime, è all’origine di sostanziose speculazioni sulla nostra più o meno inevitabile stagnazione secolare, col sottotitolo, ormai vieppiù evidente, che tale declino produttivo debba in qualche modo esser collegato all’andamento dei salari, che un’economia sana – dicono in moltissimi – dovrebbe sempre tenere agganciati alla produttività per assicurare un adeguato livello di competitività.

In questa narrazione, che tutti abbiamo sentito infinite volte, la Bis ha aggiunto un paragrafo che rivela il lato oscuro del declino della produttività: il ciclo finanziario.

Di “effetti nocivi dei boom finanziari sull’incremento della produttività” parla il direttore generale della Bis, Jaime Caruana, nella sua presentazione, riferendosi a un’analisi che mostra come “come i boom finanziari abbiano potuto contribuire al declino osservato della crescita della produttività, in particolare nelle economie avanzate in cui si sono verificati boom di questo tipo”, con tanto di grafico che illustra meglio di ogni ragionamento questa tesi.

Di questo grafico osservo solo un dato che ho trovato stupefacente: fra il 2008 e il 2013 la perdita media globale della produttività dovuta al boom creditizio è stata praticamente la metà della perdita totale.

“L’analisi di un numero di economie avanzate interessate da boom del credito negli anni precedenti la crisi finanziaria – sottolinea – indica che la crescita della produttività nel periodo del boom, fra il 2004 e il 2007, è stata inferiore in media di 0,4 punti percentuali l’anno rispetto a quella in assenza di boom, ossia se il rapporto credito/PIL fosse rimasto sui valori medi del decennio precedente. L’aspetto più sorprendente è che questo effetto persiste anche nel momento in cui il boom si trasforma in bust. Le nostre stime indicano che per il periodo fra il 2008 e il 2013 la crescita della produttività in questi paesi è stata inferiore, in media, di 0,6 punti percentuali l’anno rispetto a quanto sarebbe successo se non vi fosse stato alcun boom. Per questo secondo periodo la perdita stimata è addirittura equivalente alla stessa crescita della produttività effettiva”.

Un altro grafico mostra, per alcuni paesi europei, quanto abbiano pesato gli insensati boom finanziari degli anni passati. Per l’Italia si stima che nella fase del boom la bonanza creditizia abbia determinato una perdita di produttività dello 0,4% annuo, proprio a causa della cattiva allocazione delle risorse sul lavoro, a fronte di una crescita intorno allo 0,2%, che quindi sarebbe stata assai più alta se tale distorsione non si fosse verificata. Poi nel periodo del bust, fra il 2008 e il 2013, quando la bolla creditizia è esplosa, la produttività è crollata dell’1%, una buona parte della quale, intorno a 0,2 punti, dipesa sempre dalla cattiva allocazione delle risorse.

A questo si aggiunge un’altra considerazione, che arricchisce il quadro informativo: “L’assunzione di rischio è più evidente nei mercati finanziari che nell’economia reale, e la crescita della produttività del lavoro a livello globale ha continuato a ridursi”.

Ciò vuol dire che le politiche monetarie allentate hanno stimolato il gusto per l’investimento finanziario, seguendo la regola del maggior rischio per il maggior rendimento, ma hanno influito poco o nulla sull’economia reale, dove il deficit degli investimenti rimane preoccupante, con esiti evidenti sull’andamento della produttività, pure se “lo scorso anno, a livello globale è cresciuta a un tasso non distante dalla media di lungo periodo”.

Caruana ricorda che “i boom finanziari tendono a minare la crescita della produttività, perché spostano lavoratori e altri fattori di produzione verso settori con una crescita lenta della produttività”. Pensate solo al settore delle costruzioni, che in Europa ha guidato la crescita dei primi anni Duemila, e il conseguente crollo.

“Contrariamente a quello che accade nelle recessioni normali – aggiunge – questa distorsione nell’allocazione del lavoro ha un effetto negativo duraturo sulla traiettoria della produttività aggregata, e di conseguenza sul prodotto potenziale dopo una crisi finanziaria”. Con la conseguenza che “il danno causato alla produttività aggregata, e quindi al prodotto potenziale, può rivelarsi assai persistente dopo una crisi finanziaria”.

Nella relazione della Bis trovati tutti gli approfondimenti tecnici. Ma qui voglio solo rilevare una considerazione elementare. I boom creditizi contribuiscono a danneggiare la produttività, che poi deve essere recuperata, oltre che riallocando correttamente le risorse creditizie (quando è possibile), riagganciando i salari alla produttività. Servono quindi le tanto desiderate riforme strutturali, che in un modo o nell’altro finiscono con l’avere un impatto sulla labor share, ossia sulla quota del reddito che va ai redditi di lavoro, piuttosto che a quelli di capitale.

I redditi da capitale, in rapida ascesa ormai da un trentennio grazie alla liberazione dei flussi finanziari, sono gli stessi che finiscono con l’amplificare il ciclo finanziario, provocando i boom che danneggiano la produttività, che deve essere ripristinata riagganciandola ai salari, con le banche centrali che sono praticamente costrette ad alimentare nuovi boom finanziari, che danneggiano la produttività che deve essere riagganciata ai salari, che aumentano la quota capitale del reddito a scapito di quella del lavoro e quindi incoraggiano il movimento dei capitali, alla disperata ricerca di rendimento nell’epoca dello zero lower bound, che sono liberalizzati, e quindi finisce che provocano altri boom finanziari che danneggiano la produttività, che deve di nuovo essere riagganciata ai salari…

Ve la faccio breve: il capitale fa pagare al lavoro il conto dei suoi danni.

E così facendo, s’ingrossa.

 

 

 

 

 

Il crollo dei salari nel cavallo di Troia della competitività

Nella mia beata ignoranza mi bevo come un cavallo assetato le prediche pressoché quotidiane sulla potenza taumaturgica della competitività, l’ennesima parola magica che nel felpato mondo dell’economia e della politica viene declinata urbi et orbi quale unico rimedio per i mali del nostro tempo: dalla mancanza di lavoro che sta affamando varie generazioni, alla situazione sempre più traballante della finanza internazionale, minacciata dal paventato disimpegno delle banche centrali, e soprattutto della Fed.

Sempre perché non ne so abbastanza, di fronte alle continue esortazioni sul necessario aumento della competitività – ultima in ordine di tempo quella della Bis nel suo rapporto annuale – mi inchino, aspetto e spero. Aspetto che gli stati facciano il loro dovere. Spero che, miracolosamente, diventiamo tutti più competitivi. Aspetto e spero che di conseguenza riparta la crescita che finalmente farà diminuire i debiti fino a farli morire di morte naturale. Che, insomma, vengano ripagati.

Di solito faccio così.

Oggi no. Oggi mi sono detto che dovrei saperne di più, visto che c’è in ballo il futuro. Che almeno devo provare a capire esattamente cosa sia questa benedetta competitività, visto che ne parlano tutti.

Ho cominciato dalla definizione, servendomi del buon senso. Competitività deve essere quella qualità che permette di competere. Ossia di partecipare alla gara per qualcosa. Cosa? Elementare: la vendita di prodotti, mi son detto.

Ma poiché dubito costantemente di ciò che penso, mi sono messo a navigare e ho trovato una definizione più accettabile rilasciata dall’Ocse nel 1992: “La competitività è il grado con cui una nazione riesce, in condizioni di mercato libere ed eque, a produrre beni e servizi capaci di affrontare la concorrenza internazionale, allo stesso tempo mantenendo ed espandendo il reddito reale della propria popolazione nel lungo periodo”.

E’ stata un’illuminazione che ha fatto emerge dalla nebbia del tempo universitario un vecchio adagio di Adam Smith che dice sostanzialmente la stessa cosa: “Se un Paese estero può fornirci una merce più a buon mercato di quanto noi possiamo farlo, sarà meglio acquistarla da quel Paese con una parte del prodotto della nostra industria, impiegata in un modo nel
quale se ne tragga qualche vantaggio”. Insomma, compriamo con i profitti che facciamo grazie alla nostra economia nazionale quei beni prodotti da altre economie che non riusciamo a produrre noi più a buon mercato.

Il caro vecchio mercantilismo.

Quindi la competitività ha a che fare con gli scambi. Ergo, presuppone che qualcuno compri sempre quello che noi produciamo, sempre che io sia bravo a produrlo.

Ma come si fa ad aumentare la competitività?

Ho chiesto lumi all’enciclopedia Treccani che esibisce on line un notevole articolo leggendo il quale ho scoperto, fra le altre cose, che “la misura della produttività e il suo saggio di variazione sono determinanti per assicurare la competitività del soggetto, impresa o comunità nazionale, e conseguentemente il benessere di coloro che ne fanno parte”. Dal che ho dedotto che la competitività ha a che fare con la produttività.

Un’altra parolina magica che mi rimbalza sulle orecchie ogni giorno.

Ma cos’è la produttività?

I sacri testi dell’economia spiegano la produttività è il rapporto fra l’output (ossia il prodotto) e i l’input (ossia i fattori della produzione). Per farla semplice, si tratta di una frazione che ha al numeratore la quantità di beni ottenuta e al denominatore le risorse necessarie per ottenerla.

Mettiamo per ipotesi di avere una pizzeria. Se produco quattro pizze con due dipendenti, viene fuori che la mia produttività (in questo caso del lavoro) è di due pizze per dipendente.

Che significa aumentare la produttività? Stante la formulazione algebrica che ho detto, la produttività può aumentare solo se aumenta il numeratore (quindi ottengo più prodotto) a parità di denominatore o se diminuisce il denominatore (e quindi uso meno risorse produttive) a parità di numeratore. Nel primo caso significa che ho raggiunto una maggiore efficienza dei fattori produttivi. Nel secondo caso pure. La differenza è che nel primo caso magari ho ottenuto otto pizze anziché quattro, e quindi ogni pizzaiolo me ne ha fatte quattro. Nel secondo caso ho licenziato un pizzaiolo e quindi le mie quattro pizze me le fa il superstite.

Avrete notato una singolarità della produttività. Ossia la sua tendenza ad aumentare (o diminuire) a seconda di come si gestiscono i fattori della produzione. Nel nostro semplice esempio abbiamo parlato solo del lavoro, ma c’è anche il capitale.

Stando così le cose, è chiaro a tutti che l’obiettivo di ogni impresa dovrebbe essere quello di ottenere la massima resa con la minima spesa, come dice il proverbio.

Siccome mi sembrava semplicistico, ho continuato la mia ricerca e mi sono imbattuto in una definizione di produttività, riferita al lavoro, contenuta in una pagina della comunità europea che risale al giugno 2006, quando ancora il mondo era bello. Dice che “la produttività del lavoro corrisponde alla quantità di lavoro necessario per produrre un’unità di un bene specifico. Da un punto di vista macroeconomico, si misura la produttività del lavoro tramite il prodotto interno di un paese (PIL) per persona attiva”.

Nota bene: la produttività macroeconomica si ottiene con un’altra frazione, ossia quella fra il Pil e il numero delle persone attive. Anche stavolta, se il denominatore diminuisce e il prodotto rimane costante, la produttività aumenta (e pazienza per i disoccupati); altrettanto se il Pil aumenta e rimane costante il numero degli occupati. Ovviamente, dice l’Ue, “La crescita della produttività dipende anche dalla qualità del capitale fisico, dal miglioramento delle competenze e della manodopera, dai progressi tecnologici e dalle nuove forme di organizzazione”.

In ogni caso il prezzo lo paga il lavoro.

Tutto chiaro allora: gli stati devono aumentare la produttività per migliorare la competitività e quindi vendere più beni e diventare più ricchi. Tutto ciò a spese dei fattori della produzione. Perché “la crescita della produttività è la fonte principale della crescita economica”.

Mi sono quasi convinto finché non ho terminato di leggere quello che scriveva la Ue nel 2006. Leggete anche voi: “l’Austria, la Grecia e l’Irlanda sono riuscite a far crescere la loro produttività in modo costante dal 1990 raggiungendo quella degli Stati Uniti. Questo riflette probabilmente la capacità di questi paesi, a seguito della loro adesione all’UE, di trarre profitto dal completamento del mercato interno”.

Letta oggi fa un po’ ridere. Ma preoccupa pure. Lasciamo da parte l’Austria, ma non pare proprio che questo clamoroso aumento della produttività abbia portato fortuna alla Grecia e all’Irlanda. Anzi, a quanto pare devono aumentarla ancora per “trarre profitto dal completamento del mercato interno”, intanto che fanno i conti con la disoccupazione fra le più alte dell’eurozona.

Mi sono persuaso che qualcosa non quadri quando mi sono andato a rivedere i grafici del rapporto annuale Bis. Uno in particolare che misura proprio questa benedetta competitività dal 2001 in poi. In particolare, la Bis usa l’indice armonizzato della Bce che misura la competitività e che funziona “al contrario”: più scende, più aumenta la competitività.

Fatto 100 il livello di tale indice nel 2005, viene fuori che solo in Germania l’indice è sceso costantemente fino a quotare 90 nel 2012. In Italia e Francia l’indice viaggia sopra 100, malgrado i cali registrati da inizio crisi, mentre la media di Grecia, Irlanda e Portogallo si colloca al livello della Germania, così come anche il dato della Spagna. Quindi questi quattro paesi sono quelli che hanno migliorato più di tutti la propria competitività, al prezzo però della deflazione salariale e della disoccupazione che abbiamo visto tutti.

E infatti la quadratura del cerchio arriva se leggiamo questi dati incrociandoli con quelli sulla produttività del lavoro. In Germania, fra il 2001 e il 2007, è cresciuta in corrispondenza dell’aumento della competitività e ha continuato a crescere, anche se di meno, anche fra il 2007 e il 2012, quando la competitività ha raggiunto il suo picco.

In Spagna, tanto per citare uno dei Pigs, la produttività è scesa sotto zero fra il 2001 e il 2012, in corrispondenza del calo di competitività,  ma è esplosa dal 2007 al 2012, in corrispondenza dell’aumento di competitività, che ormai è al livello della Germania. E la Spagna ha una disoccupazione di oltre il 20%.

Insomma: come dicono i sacri testi l’aumento di produttività rima con aumento di competitività. Il prezzo, però, lo pagano il mercato del lavoro e i salari, che vedono erodersi sempre più la loro quota sul reddito nazionale.

Perciò adesso quando leggo gli economisti dire, come il caro vecchio Adam Smith, che aumentare la competitività è l’unica garanzia per accrescere la ricchezza nazionale, mi viene in mente un altro detto: timeo danaos et dona ferentes, come disse Laocoonte quando vide il cavallo di Troia. Temo i greci anche quando portano doni.

In questo caso i danai sono gli economisti, che promettono il dono di una crescita della ricchezza, e hanno depositato sulle nostre spiagge un suggestivo cavallo di Troia.

Là dentro, nascosto dietro le suggestioni della competitività, c’è un robusto calo dei salari.

Quando la notte della crisi tornerà a farsi scura ci soprenderà mentre dormiamo.

Debito francese: piace alla gente che piace

Il debito francese è molto popolare nel mondo. I nostri cugini d’Oltralpe, infatti, hanno il poco invidiabile primato del rapporto debito estero/Pil più alto del mondo. Ben più alto del nostro. E tutto questo senza che lo spread faccia una piega. Quasi un mistero macroeonomico. In passato altri paesi,anche importanti, hanno subito devastante crisi valutarie per esposizioni estere assai meno significative.

I dati parlano chiaro. A fine 2011, secondo i dati della Banca mondiale, lo stock di debito accumulato dai francesi superava i 5.000 miliardi di dollari: il 180% del Pil. E la situazione non è migliorata nel 2012. Nelle ultime rilevazioni della World Bank, il debito estero francese ha chiuso a 5.014 miliardi di dollari il 2012 dopo un picco di 5.130 nel primo quarto e un calo a 4.853 nel secondo. A guidare la salita dell’esposizione estera è stato il settore pubblico, passato dai circa 1.373 miliardi di fine 2011 ai 1.496 miliardi di fine 2012, mentre l’esposizione delle banche francesi è più o meno stabile a circa 2.178 miliardi.

Giusto per la cronaca, al secondo posto della classifica dei paesi più indebitati con l’estero c’è la Germania, che a fine 2011 aveva uno stock di debito estero pari a circa 5.338 miliardi di dollari (il 160% del Pil), poi c’è l’Italia (2.350 miliardi di dollari, 120% del Pil) e poi gli Stati Uniti (15.508 miliardi, più o meno il 110% del Pil).

Ma torniamo ai nostri amici francesi. L’aumento registrato nel corso del tempo del debito estero, in larga parte spinto dalle amministrazioni pubbliche, ha avuto un impatto sul rapporto debito pubblico/Pil che a fine 2011 aveva già superato il 96% e nel 2012 ha toccato un nuovo record a causa della crescita zero, da un parte, e dell’aumento di stock (2.613 miliardi nel terzo quarto 2012), dall’altra.

Eppure la Francia non soffre di mal di spread.

Se guardiamo gli aggregati negli ultimi anni, vediamo che il debito estero è cresciuto dai 3.817 miliardi del 2006 ai 5.014 del 2012, ossia più o meno il 30% in sette anni. Questo mentre il debito pubblico ha aumentato l’incidenza sul Pil dal 75,5% del 2008 al 96,2% di fine 2011, il 25% in quattro anni. In pratica la crisi finanziaria ha riguardato sia il bilancio dello stato che la bilancia dei pagamenti.

Eppure lo spread francese è assente dalla scena pubblica (poche decine di punti dal bund sono una non notizia).

Allora uno guarda altre variabili. Tipo il rapporto deficit/Pil. Mentre il bilancio italiano, foraggiato dai notevoli incrementi fiscali, si avvia faticosamente verso un pareggio di bilancio nel 2013, quello francese era previsto arrivasse al fatidico 3% del Pil per quest’anno (5,7% nel 2011), ma il governo ha già sussurrato che forse non ce la farà.

Ma lo spread non si è mosso.

Lasciamo da parte la contabilità pubblica e parliamo di produttività, allora. I dati della Banca Mondiale dicono che la Francia ha un indice di produttività pari a 85,3. Il nostro è 85,2. Non può essere che un decimale di produttività in più valga 200 punti di spread. Anche perché la Francia ha un costo del lavoro parecchio elevato (116,4 indice World Bank). In più i francesi si portano appresso un’armata di dipendenti pubblici e hanno un livello di spesa pubblica pari più o meno al 50% del Pil (noi siamo al 45%). Tutta roba che farebbe inorridire i commentatori italiani (che però in media non si occupano della Francia): quelli che lo spread è colpa della spesa pubblica e della produttività bassa e del costo del lavoro, ecceter eccetera.

La logica economica, di fronte a queste evidenze, non può che cedere il passo (d’altronde si chiama economia politica non a caso). C’è solo una spiegazione per motivare l’apparente robustezza della fragilissima Francia. Il debito francese, a differenza del nostro, piace.

Specie alla gente che piace.