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Esperimenti di presente esteso: le fonti fossili nel 2050

Prendo a prestito una bella espressione coniata un trentennio fa da Helga Nowotny – il concetto di presente esteso – per raccontarvi di questa ennesima previsione del futuro che il Fmi ci offre nel suo ultimo World economic outlook, relativa al tipo di impatto che potrebbe avere sulla macroeconomia dei paesi produttori il calo previsto dell’estrazione di fonti fossili.
La ripetizione della parola previsione è fortemente voluta. Il Fmi prevede la macroeconomia del 2050 basandosi sulla previsione dell’andamento dell’estrazione delle fonti fossili. Il problema è che due previsioni non implicano una certezza. Anzi è possibile che la rendano meno probabile.
E’ un punto importante che dobbiamo tenere presente, quando leggiamo questi vaticini. Perché in fondo non facciamo altro che trasferire nel futuro il nostro presente, che, appunto, si estende oltre la possibilità del nostro sguardo. E siccome come ha detto qualcuno l’orizzonte è il limite del nostro sguardo, ciò che otteniamo da questo continuo proiettarci verso orizzonti possibili, ma improbabili in ragione diretta delle quantità di variabili che siamo costretti ad elaborare, è che “schiacciamo” il futuro sul presente, rendendo quest’ultimo sempre più compresso. In sostanza agiamo pensando di andare in una direzione che magari è sbagliata, ma così facendo la determiniamo come se fosse già scritta. Un notevole rischio per la nostra libertà di giudizio.
Ricordatevelo, perché ormai è così che va il mondo. Siamo circondati da previsioni sul futuro e da scadenze auto-inflitte che non fanno altro che determinare ciò che succederà. Pensiamo di pianificare, ma in realtà creiamo futuri artificiali e profezie che si autoavverano.
Ne riparleremo. Intanto prendiamo di buono quello che c’è nell’analisi del Fmi, ossia i dati del presente, più che quelli futuri, altamente incerti.
Il punto di partenza è che arrivare a un politica di emissioni zero entro il 2050 richiede che quell’anno la produzione di fonti fossili sia l’80 in meno per cento di quella del 2021. Che va letta però al contrario: nel 2021 abbiamo estratto molto più di quello che sarebbe necessario per avere una politica di emissioni zero. E precisamente, come mi fa notare un cortese lettore, il 400 per cento in più.
Infatti se mettiamo per ipotesi che nel 2021 abbiamo prodotto 100, e che nel 2050 dobbiamo produrre 20 (-80 per cento), e mettiamo 20 come target ideale del 2021, vediamo che equivale a un quinto di quello che abbiamo effettivamente prodotto, e quindi che produciamo quattro quinti del totale in più: il 400 per cento. Questo è un fatto. Quell’altra è una previsione. E’ necessario comprendere bene la differenza.
Se estraiamo il 400 per cento in più di fonti fossili rispetto a ciò che sarebbe necessario per arrivare all’eden, significa che l’eden non è proprio dietro l’angolo e che richiede una sostanziale metamorfosi dei nostri comportamenti.
E’ possibile che tale miracolo arrivi in poco più di un quarto di secolo? E soprattutto, siamo davvero sicuri che sarebbe così salutare? “Si discute ancora se un calo della produzione di combustibili fossili sia dannoso o vantaggioso per la crescita economica”, scrive sempre il Fmi nelle stesse righe della sua previsione.
Quindi estendiamo il presente verso un futuro incerto, nel quale ipotizziamo una diminuzione dell’80 per cento dell’estrazione delle fonti fossili senza nemmeno essere sicuri che farebbe bene alla nostra economia. A che serve tutto questo, oltre che a dare lavoro a validi professionisti dell’economia?
Torniamo al presente, o meglio ancora al passato recente. Fra il 2010 e il 2019 l’importanza relativa dell’estrazione di fonti fossili rispetto al pil è stata molto elevata in paesi come l’Angola, l’Azerbaijan, il Congo, il Kuwait, l’Arabia Saudita.

Ed è a questo punto che parte il vaticino matematico. Per produrlo si attinge a un insieme di dati – “a new data set” – estratti fra il 1950 e il 2020, osservando gli effetti di un declino delle estrazioni su 154 casi osservati per le più svariate ragioni. Quindi si produce una cosa del genere.

Questo geroglifico, suscitando ovvia impressione da parte del pubblico illetterato, più o meno come doveva succedere ai tempi dei sumeri con le tavolette cuneiformi e le interiora dei volatili, viene immediatamente assunto come sensato e sicuramente giusto. Sicché quando arrivano le prime conclusioni – “un episodio tipico di declino delle estrazioni porta a un calo iniziale dell’1 per cento rispetto alla linea di base del PIL reale, che raggiunge il 5 per cento dopo cinque anni” – siamo già bell’e convinti.
La matematica irrobustisce quello che qualunque buon senso di padre di famiglia sapeva già: se un paese che basa la sua economia sull’estrazione di fonti fossili diminuisce la sua produzione, il pil cala. C’era bisogno degli auruspici matematici per saperlo?
Certo che si. Proiettare il presente nel futuro richiede uno strumento atemporale come la matematica per dare fondamento alle nostra deduzioni logiche, anche per la semplice ragione che riesce pure a quantificare.
Le ampie avvertenze che gli studiosi mettono circa l’incertezza delle loro previsioni e l’inevitabile approssimazioni vengono obliterate. Così il presente, costruito sui fatti del passato, diventa un futuro “noto”, e persino misurato.
Passato, presente e futuro si fondono in un unico blocco di incerta certezza che finisce con lo spaventarci. Nulla di strano che nella favola nessuno viva felice e e contento.
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