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Inps, ovvero l’Istituto nazionale pensione sociale

Ci siamo armati di pazienza e ci siamo letti il monumentale referto della Corte dei Conti sul bilancio 2011 dell’Inps. Una robetta di oltre duemilacinquecento pagine, fra referto e allegati, che illustra con dovizia di particolari lo stato di salute dell’Istituto dopo l’incorporazione dell’Inpdap. Un boccone indigesto che rischia di far saltare i conti già traballanti del colosso della previdenza italiana, alle prese con problemi sistemici rilevanti.

La Corte individua in apertura di referto i profili critici della previdenza italiana. Innanzitutto la longevità della popolazione, che se può far piacere da un lato, dall’altro apre inquietanti interrogativi sulla sostenibilità di lungo termine delle politiche previdenziali (per non parlare di quelle generali del welfare, sanità in testa). Tanto è vero che l’incidenza della spesa pensionista sul Pil rimane sopra il 14%, il doppio della media Ocse.

L’altro fattore critico è lo sviluppo delle varie forme di precarietà “che hanno riflessi sull’adeguatezza delle prestazioni e sulla sostenibilità sociale dell’intero sistema”. Il perché è facilmente intuibile: il lavoro precario genera contribuzione precaria, e di conseguenza rende difficoltoso cumulare la quota di contributi richiesta dalla legge per la pensione, oltre ad assottigliare le risorse generali del sistema.

Poi c’è l’andamento dell’economia. Crescite negative del Pil hanno effetti diretti sui livelli occupazionali e quindi, indirettamente, sulla provvista contributiva necessaria a garantire il flusso delle prestazioni. Il bilancio 2011 si è confrontato con una crescita negativa nel 2012 che si ripeterà anche quest’anno. Se la crescita non riparte i conti dell’Inps cominceranno a scricchiolare pericolosamente.

Last but not the least, l’andamento dei fondi pensione. “Il sistema della previdenza obbligatoria – scrive la Corte – è stato disegnato con il corollario del secondo pilastro, che però ha una modesta quota di adesioni, intorno al 27%”. In pratica, è chiaro a tutti che la previdenza obbligatoria garantirà rendite pensionistiche sempre più basse, più o meno la metà dell’ultima retribuzione. Se fallisce la riforma dei fondi pensione, perché pochi aderiscono, per i futuri pensionati italiani si apre uno scenario se non di povertà quantomeno di ristrettezze.

Aldilà delle questioni sistemiche, il referto analizza anche o stato di salute dell’Istituto. E anche qui non c’è granché da stare allegri: “L’incorporazione dell’Inpdap – scrive la Corte – è destinata a incidere significativamente sui conti generali dell’Inps, che nelle stime previsionali evidenziano pesanti disavanzi e una marcata flessione del netto patrimoniale”.

A tal proposito la Corte rileva preoccupata che il patrimonio netto dell’Istituto è sceso dai 43,6 miliardi di euro del 2010 alla previsione assestata di +25,2 miliardi del 2012. “Le stime assestate dei disavanzi economico e finanziari appaiono suscettibili di condurre all’azzeramento dell’avanzo patrimoniale in un triennio e incidere sulla liquidità indispensabile a garantire la correttezza delle prestazioni”.

Visti nel dettaglio, i conti delle singole gestioni mostrano squilibri difficile da correggere. Dando per scontato che “conserva un ruolo decisivo il finanziamento statale”, si osserva che il saldo delle 40 gestioni amministrate registra una seconda e più pesante perdita dopo quella del 2010: da -1,4 miliardi a -2,3. A mitigare l’emorragia ci pensa il saldo attivo della gestione dei lavoratori parasubordinati (+7,1 miliardi) e quello delle prestazioni temporanee (+2 miliardi). Il netto patrimoniale di queste due gestioni, pari a un attivo di 251,2 miliardi, serve a tenere a galla i passivi patrimoniali di tutte le altre gestioni, negative per 215 miliardi.

Andando ancor più nel dettaglio, vediamo che il saldo attivo delle prestazioni temporanee ripiana, anche se di poco, il grave sbilancio del Fondo pensioni lavoratori dipendenti (deficit patrimoniale a -117,9 miliardi), ossia dove si concentra il grosso dei lavoratori italiani.

Allo stesso modo, gli attivi della gestione dei parasubordinati (i cosiddetti precari)  riempie in parte il buco della gestione dei lavoratori autonomi: commercianti, artigiani e agricoltori. In particolare, l’attivo patrimoniale dei subordinati (+71,8 miliardi) rende meno grave la voragine degli altri (-97,3 miliardi).

Per tenere in piedi queste gestioni l’Inps presta gratuitamente (per il lavoro dipendente) i soldi delle gestioni attive a quelle passive. Un po’ come fa con i soldi del Tfr dei lavoratori che non hanno aderito ai fondi pensione, che finiscono praticamente gratis allo Stato “senza idonee garanzie sulla loro destinazione”.

Nei prossimi post approfondiremo alcuni aspetti specifici del bilancio. Intanto si può delineare una prima conclusione: dopo vent’anni di riforme previdenziali siamo tornati a un’incidenza della spesa pensionistica sul Pil uguale, se non peggiore a quella dei primi anni ’90.

Il punto importante, spiegano gli esperti, è la sostenibilità. Ma che vuol dire? Vuol dire che da qui al 2050,a meno di catastrofi, il sistema garantisce il pagamento delle pensioni. Ma quando aumenta la longevità, e quindi col sistema contributivo o aumenta l’età pensionabile o diminuisce la rendita, calano i tassi di sostituzione, e una grossa parte della contabilità previdenziale si salva grazie ai precari, che tipo di pensione erogherà l’Inps a coloro che avranno la fortuna di prenderla? E’ chiaro a tutti che assomiglierà più una pensione di assistenza che di previdenza.

Ma forse la soluzione è più semplice di quanto si pensi. Basta cambiare nome all’Inps. Invece di Istituto nazionale previdenza sociale, nel 2050 si chiamerà Istituto nazionale pensioni sociali.

Nome omen.

La scommessa (persa) per una pensione “normale”

Negli ultimi undici anni i rendimenti totali dei fondi pensione negoziali sono stati di nove punti sotto quello del Tfr. Per la precisione, 30,3% per i fondi, 39,5% per il Tfr. Il dato è contenuto nell’ultima relazione annuale della Covip, la commissione che vigila sui fondi pensione, dove si legge pure che “il rendimento conseguito nello stesso temporale dai fondi pensione aperti, caratterizzati in media da una maggiore esposizione azionaria, è stato del 3,1%”.

Stando così le cose si capisce perché la previdenza integrativa, della quale la creazione dei fondi pensione negoziali è stato il momento saliente, soffra ancora in Italia. Gli iscritti sono poco meno del 25% del totale dei lavoratori e le masse gestite si collocano intorno ai 94 miliardi, e se il trend delle iscrizioni è in crescita costante, cresce anche la percentuale di sospensione della contribuzione, che nel 2011 si è collocata intorno al 20% del totale.

La montagna, insomma, ha partorito il classico topolino, mancando due dei principali obiettivi per i quali è stata costruita e realizzata la riforma dei fondi pensione: assicurare un’integrazione significativa alla previdenza obbligatoria dei lavoratori e mettere linfa vitale nei mercati finanziari, nella presunzione che costoro siano più efficienti nell’allocazione del risparmio.

A conti fatti, finora ci hanno guadagnato solo i gestori, non certo le imprese, che usavano il Tfr per finanziarsi, o i lavoratori, che subiscono un dimagrimento certo (il Tfr) a fronte di un rendimento incerto (la rendita previdenziale integrativa). A ben vedere, ci ha guadagnato il Tesoro, che preleva ogni anno dall’Inps a costo zero la quota del Tfr versato da chi ha scelto di non aderire.

Se si guardano i rendimenti dal 2005 al 2011, nel periodo in cui la riforma dei fondi pensione si è incardinata  e diffusa, il risultato cambia poco. I fondi negoziali hanno reso il 18,7% e i fondi aperti il 12,6, a fronte del 18,9 ottenuto dal Tfr. Se poi si approfondisce l’analisi, si scopre che i fondi negoziali gestiti con l’obbligazionario puro, la forma più sicura e quindi in quale modo assimilabile al Tfr, hanno spuntato un rendimento complessivo del 13,5%. E’ più che legittimo, perciò, porsi una domanda: ma se invece di versare tutto il proprio Tfr nei fondi pensione, un lavoratore se lo tiene e, una volta incassato, lo investe in un titolo di Stato, avrà una rendita maggiore o minore di quanto gli garantisce un fondo pensione?

Tentare una stima è alquanto avventuroso, anche a causa delle pluralità delle numerose situazioni previdenziali. Alcune simulazioni calcolano che l’incidenza della previdenza obbligatoria sul totale della prestazione pensionistica erogata si colloca fra il 10 e il 20% dell’ultima retribuzione, che si va a sommare quindi al circa 50% garantito dalla previdenza obbligatoria, che è più o meno quanto andrà a incassare di pensione un lavoratore interamente a regime contributivo con gli attuali tassi di sostituzione.

A rendere incerto il quadro è anche il regime dei fondi pensione, che sono a contribuzione definita e non a prestazione definita. Quindi si conosce l’entità del versamento, ma non della rendita finale, essendo quest’ultima notevolmente influenzata dall’andamento dei mercati finanziari. Ora, è pur vero, come rileva la Covip, che gli scarsi rendimenti ottenuti dai fondi pensione dal 2000 in poi sono influenzati “dalle numerose turbolenze provocate prima dalla bolla dei titoli internet e poi dalla crisi finanziaria scoppiata negli Stati Uniti fra il 2007 e il 2008”. Ma forse bisognerebbe iniziare a pensare che tali turbolenze non sono l’eccezione, nei mercati finanziari, ma la regola.

Uno studio pubblicato su Nber nell’aprile del 2008, che ha monitorato l’andamento delle crisi macroeconomiche nel mondo dal 1870 al 2008, ha individuato 87 episodi di crisi che hanno colpito gravemente i consumi e 148 crisi che hanno avuto impatti importanti sul Pil, arrivando a stimare la probabilità di una crisi macroeconomica al 3,6% l’anno. Considerando che la vita lavorativa oggi deve durare almeno 40 anni, chiunque può capire quanto siano alte le probabilità di incappare in uno scompenso previdenziale. Specie in un mondo fortemente globalizzato come il nostro.

Ce n’è abbastanza per dire che la scommessa per avere una pensione “normale”, capace cioé di garantire una vita post-lavorativa dignitosa, si rischia di perderla. Tutti.