Il fallimento (demografico) della Germania
Il miglior argomento da opporre a coloro che reputano il calo della fertilità europea come conseguenza dell’incertezza economica è il caso tedesco. La Germania espone ovunque numeri da record: i suoi attivi esteri, che le provocano continui rampogni più o meno rancorosi, la sua disciplina fiscale che si estrinseca dell’attivo del bilancio pubblico, il suo mercato del lavoro, che migliora ogni anno i numeri. Questi successi, tuttavia, non servono a risolvere il problema principale dell’economia tedesca. Che non ha a che vedere col il settore tradable, le banche o qualche incipiente boom immobiliare, che pure si sospetta. Il problema dell’economia tedesca sono i tedeschi. O meglio: le donne tedesche che sembrano aver perduto la voglia di far figli.
In confronto ai vicini francesi, i tedeschi esibiscono un clamoroso fallimento. E persino rispetto a noi italiani che, scassati come siamo, manteniamo comunque un tasso di fertilità vicino a quello tedesco, sempre a dimostrazione del fatto che non è tutto economico ciò che conduce alla decisione di procreare.
Provare a comprendere le ragioni di questo fallimento è esercizio difficile, perché a fronte di teorie economiche incerte e statistiche opinabili, emergono pensieri che a rigore non dovrebbero entrare in un discorrere economico: la storia, lo spirito, la cultura di un popolo. E tuttavia è giocoforza rivolgervisi, visto che l’enigma del fallimento demografico tedesco risulta troppo complesso da decifrare affidandosi alle equazioni degli economisti.
Sicché, per provare a contornare il ragionamento, può essere utile fornire alcuni numeri d’insieme tratti dal sito di statistica tedesco. L’informazione più recente ricorda che nel II trimestre 2016 in Germania ci sono stati quasi 25 mila aborti, l’1,9% in più rispetto allo stesso periodo di un anno prima. Se allunghiamo la serie storica scopriamo alcune cose: la prima è che il fenomeno delle interruzioni di gravidanza è in calo dal 1996, quando ha raggiunto i 130.899 casi nell’anno e da lì è costantemente decresciuto fino a scendere sotto i 100 mila nel 2014 arrivando ai 99.237 del 2015. E tuttavia, pure se questa nascite fossero state portate a termine, ciò non sarebbe bastato a compensare il saldo negativo fra nascite e decessi, che nel 2014 è arrivato a 153.429 persone. Quell’anno sono nati 714.927 bambini, e le previsioni giudicano questo tasso di natalità sostanzialmente stabile fino al 2020. Dopodiché si prevede scenda fra le 500-550mila per il 2060.
Altrettanto interessante è osservare come sia cambiata la struttura della popolazione dal 1950 in poi. All’epoca gli under 20 erano il 30,4%, un altro 55% aveva fra i 20 e i 60 anni, la classe 60-80 pesava il 13,6% e gli ultraottantenni appena l’1%. La popolazione complessiva era di poco inferiore ai 70 milioni di abitanti. Il boom economico dei ’50-60, durante il quale il paese godette di poderosi tassi di crescita, cambiò relativamente il quadro. Nel 1970 gli under 20 erano ancora il 30% della popolazione, che aveva superato i 78 milioni, la classe più attiva dei 20-60enni pesava il 50%, il calo era dovuto alla diminuzione della coorte 40-60, ormai anziana, scesa di 6,2 punti. La classe 60-80, infatti, era aumentata quasi di cinque punti, arrivando già al 18%, mentre gli ultraottantenni erano raddoppiati: merito delle migliori condizioni di vita.
E’ proprio il 1970, tuttavia, a segnare uno spartiacque. La grande crescita della popolazione registrato nel ventennio del boom, si inceppò. All’apice del successo economico, la Germania smise di crescere demograficamente. Nel 1980 la popolazione era cresciuta di appena 300mila unità rispetto al 1970, e nel 1990 di appena un milione e mezzo. Ciò ha avuto effetti rilevanti sulla composizione della popolazione. Gli under 20, ancora al 30% nel 1970, divennero il 26,6 nel 1980 e il 21,7% nel 1990. La classe dei 20-60enni superò di nuovo il 50%, portandosi al 57 nel 1990, gli ultra60enni arrivarono al 16,6% nel 1990, con gli over 80 quasi di nuovo raddoppiati rispetto al 1970 con il 3,8% della popolazione.
Gli anni ’90 segnono una relativa inversione di tendenza. Alla fine del decennio la popolazione aveva superato gli 82 milioni abitanti, in crescita di circa 2,5 milioni dal 1990, gli under 20 diminuiscono ancora, i 20-60 rimangono stabili come insieme ma aumenta il peso relativo dei 40-60enni; i 60-80enni arrivano al 19,8% della popolazione, che sommato al 3,8% degli over 80 implica l’inversione generazionale tedesca: gli anziani sono più numerosi dei giovani.
La situazione si aggrava nel primo decennio del XXI secolo. La popolazione diminuisce di circa 500mila unità. Gli under 20 arrivano al 18,4%, i 60-80enni al 21% e gli ovvero 80 al 5,3%: in pratica più di un cittadino su quattro è ultra60enne. A fine 2015 la situazione è cambiata poco. Si registra un aumento della popolazione di circa 400mila unità, ma gli under 20 perdono un altro 0,1%, i 60-80enni guadagnano lo 0,6 e gli over 80 un altro 0,5: il 27,4% dei tedeschi ha più di 60 anni. I giovani sotto i 20 sono appena il 18,3%.
L’aumento del tasso di fertilità del quinquennio 2010-15, passato da 1,39 a 1,47, in sostanza, è servito a poco e si spiega in parte con l’aumento del numero delle donne dovuto all’immigrazione, visto che il tasso di fertilità è il rapporto del totale delle donne in età fertile, solitamente considerate nell’intervallo 15-50anni, sul numero dei nati. Al 31 dicembre 2015, infatti, in Germania c’erano 8,56 milioni di immigrati, quattro milioni dei quali di sesso femminile, che porta a 41 milioni il numero totale delle residenti. E’ ragionevole che immigrino donne in età fertile, piuttosto che il contrario, che finiscono col più che compensare l’uscita dall’età fertile di parte della popolazione femminile.
Una riflessione che può farsi osservando questi dati è che il pattern somiglia molto a quello di altri paesi, Giappone e Italia in testa. La Germania, in particolare, visse dai ’50 in poi, un periodo di grande effervescenza industriale che portò rapidamente il paese sulla soglie della piena occupazione, circostanza anche questa comune ad altri, che spinse le autorità a incoraggiare il ricorso sempre più massiccio al lavoro femminile. Questa piccola rivoluzione sociale, che la ricerca del benessere finì col favorire, era destinata a cambiare i costumi. Il dovere di produrre divenne l’imperativo categorico della ricca Germania occidentale. Probabilmente è qui la radice del problema.
L’idea che sia stato proprio il successo economico a provocare il fallimento demografico della Germania, e sostanzialmente dell’intera Europa e anche del Giappone, risulterà irritante a molti, ma merita di essere ponderata. Chi pensa che non si facciano figli perché i giovani sono precari e senza soldi, dovrebbe notare innanzitutto che i giovani sono pochi e poi interrogarsi sulle loro autentiche priorità. L’economia, se proprio a questo vogliamo ridurre il problema, può agire sulla demografia lungo due canali, quello dell’eccesso di ricchezza e quello della sua carenza. E’ poco saggio considerare l’influenza delle condizioni materiali sulla volontà di fare figli solo quando si giudichino insufficienti. Al contrario, un sostanziale benessere, e il dare a questo la priorità, può svolgere un effetto dissuasivo altrettanto potente. Ma a quanto pare facciamo fatica ad accettarlo.
(5/segue)