La Nazione Globale. La fine del lunghissimo XIX secolo dei tassi d’interesse
Il tasso di interesse della BoE rimase fra il 2 e il 3%, salvo sporadici rialzi di pochi mesi, fino al maggio del 1873, quando avviene il crollo della borsa di Vienna che convenzionalmente viene indicato come l’inizio della Grande Depressione del XIX secolo, durata fino al 1896. Un mito secondo alcuni economisti del XX secolo, un incubo per chi la visse, con i prezzi a deflazionarsi a livelli senza precedenti.
A questa memoria attinse la Grande Depressione del ‘29, nel secolo successivo. Ma quel che qui interessa osservare è l’andamento dei tassi e dei rendimenti.
Tassi depressi
I Consol intrapresero un rendimento declinante che durò per tutto il ventennio della crisi. Nel 1898 rendeva poco più del 2,2%. Nel frattempo i tassi ufficiali oscillarono a lungo fra alti e bassi fino all’aprile del 1876 quando furono fissati al 2% – il floor dell’epoca evidentemente – fino all’aprile del 1877.
Ancora saliscendi fino ad arrivare al febbraio del 1894, quando furono riportati al 2% e lì lasciati fino all’agosto del 1896, mentre lo yield si deprimeva lentamente malgrado il mondo ormai fosse in procinto di uscire dalla depressione o forse proprio per questo. Il declino dei rendimenti sembrava ormai irrefrenabile, proprio come sembra anche oggi, anche se ancora una teoria della stagnazione secolare non era stata scritta.
Abbasso il tasso
“Anche il saggio di interesse diminuì, al punto che i teorici dell’economia cominciarono a evocare la possibilità di un capitale così abbondante da essere quasi un bene gratuito”, scrive David S. Landes raccontando proprio di quegli anni della Grande Depressione.
Fra le teorie di quel tempo vale la pena ripescare un testo scritto nel bel centro di questa depressione – era il 1886 – quando un ormai dimenticato economista francese, Paul Leroy Beaulieu, pubblicava un saggio che sembra scritto oggi, dal titolo più che eloquente: “Le cause che influiscono sul tasso di interesse e le conseguenze del ribasso del tasso di interesse”.
“E’ un’opinione abbastanza generale che il tasso di interesse abbia una tendenza ad abbassarsi costantemente. Alcuni economisti ne concludono che noi ci stiamo avviando verso lo stato stazionario”. “E’ un’opinione che trova molti concordi, dalla quale alcuni, e fra gli altri Proudhon, ne traggono la conclusione che finirà (il tasso di interesse, ndr) per arrivare a zero”.
Nella sua dissertazione l’economista francese concludeva che il calo del tasso di interesse, “che è incontestabile”, dipendesse in gran parte dalla minore produttività del capitale al diminuire delle opportunità di investimento. Quindi una visione legata all’economia reale che di fatto ignorava il contributo della politica monetaria nella fissazione del livello dei tassi di interesse. Il che è comprensibile: ci vorrà ancora qualche decennio di pratica perché la politica monetaria diventi una teoria. In quel tempo solo la Banca d’Inghilterra aveva sviluppato una certa consapevolezza degli strumenti di una banca centrale.
Una visione, tuttavia, che evoca in qualche modo la stagnazione secolare che, a ben vedere, è un pensiero che cova nella testa degli economisti da quando è nata l’economia politica. Così come l’idea che un tasso di interesse elevato sia d’intralcio agli affari, che sarà centrale nella Teoria generale di Keynes, che non a caso auspicava una “collettività quasi stazionaria” e “l’eutanasia del redditiere”. Ossia quei rentier che Beaulieu chiamava, chissà quanto ironicamente, robur nationum.
Chi fa il tasso/fine
Ieri la Banca d’Inghilterra, oggi la Fed. La domanda su chi faccia il tasso riguarda innanzitutto queste due entità che, ieri la prima e oggi la seconda, hanno notevoli poteri di indirizzo globale nella determinazione dei tassi di mercato. Della Banca d’Inghilterra abbiamo detto quanto basta per comprendere come si sviluppò il potere e la consapevolezza della manovra dei tassi di interesse.
La Fed arrivò più tardi, quando ormai il central banking aveva sufficiente esperienza, e fece tesoro di questo ritardo. Ciò non vuol dire che abbia imparato una volta per tutte: al contrario. Nei decenni nei quali la Banca centrale americana ha studiato da primum inter pares, per l’ovvio ruolo giocato dal dollaro nell’economia internazionale, le strategie e le teorie sono cambiate significativamente.
Sorvolando sul passato, proviamo a rispondere una volta per tutte alla domanda su chi faccia il tasso osservando come lavora oggi la Fed. E visto che parliamo di tassi, non si può che cominciare dal target federal funds rate, che abbiamo già incontrato.
Questo target viene definito dal Federal Open Market Committee, ossia l’organo di governo della Fed e viene raggiunto tramite le cosiddette operazioni di mercato aperto, temporanee o definitive, ossia compravendite di titoli fra banca centrale e banche commerciali. Si tratta in sostanza del tasso obiettivo, definito tramite una forchetta di oscillazione, a cui deve tendere il federal funds rate, ossia il tasso overnight sulle riserve bancarie.
Fra le operazioni temporanee ci sono anche i repo, che si usano quando si concedono prestiti al fine di abbassare il tasso di mercato – teoricamente è il mercato che crea il prezzo finale del denaro – offrendo prestiti a un tasso più basso di quello corrente. Il contrario (reverse repo) avviene quando si vuole far salire i tassi: la Fed prende a prestito a un tasso più elevato di quello di mercato dalle banche.
Di solito queste operazioni vengono collateralizzate da titoli di stato, in grandissima parte Treasury, ossia bond offerti a garanzia. Il fatto che il tasso venga definito in una forchetta implica una certa libertà delle forze di mercato, ma nell’ambito della forchetta. Il tasso perciò lo fa il mercato. O, per meglio dire, il federal fund rate viene fatto dal mercato delle riserve, ma con notevoli suggerimenti, per non dire vincoli, da parte dei poteri pubblici.
Se la Fed fissa un fund rate è difficile che i tassi superino questo livello. E quindi tutta l’intera curva dei tassi, fino alla scadenze lunghe, subisce un condizionamento.
Questa osservazione si può ricavare confrontando l’andamento del target fund rate con quello dei titoli di stato a cinque (G5) e 10 anni (G10) degli Usa (grafico sotto). L’entità di questa influenza è indefinita, e probabilmente cambia nel tempo. Però esiste. Questo le banche centrali lo sanno. E i mercati pure.
Ieri come oggi
Chi frequenta le cronache economiche del nostro tempo avrà già notato quanto i discorsi di ieri somiglino a quelli di oggi. E soprattutto come i timori – e gli auspici – di allora abbiano finito col trasformarsi nella nostra realtà. Nell’ultimo quarto del 2016, il Consol britannico era al suo minimo storico secolare insieme al tasso bancario. I tassi fissati dalla banca centrale influiscono, seguendo vie misteriose, anche i rendimenti. Un esito che non ha riguardato solo la Gran Bretagna.
Senza bisogno di andare troppo lontano nel tempo, ecco cos’è successo ai rendimenti di lungo termine governativi francesi.
E cosa è successo a quelli della Germania.
E dulcis in fundo quello che è successo in Italia.
Come si può osservare, le curve si somigliano tutte. E soprattutto il trend che ha condotto i rendimenti alla loro sparizione – sotto lo zero – è comune alle economie avanzate.
Chi fa il tasso/considerazioni finali
Sarebbe errato, a questo punto, trarre la conclusione che le banche centrali sappiano esattamente quello che fanno. Peggio ancora, peccherebbe di mitologia pianificatoria chi pensasse che queste entità hanno il pieno controllo delle alchimie monetarie e che perciò basta schiacciare un bottone e tutto va come previsto.
Nel praticare le loro magie, al contrario, le banche centrali assomigliano più agli apprendisti stregoni. Il central banking è una teoria squisitamente empirica, non solo nel senso che si sviluppa nella pratica, come ci ricorda la nostra breve ricostruzione, ma nel senso che la cassetta degli attrezzi si modifica col tempo perché i tempi cambiano. Alcuni strumenti funzionavano una volta e oggi, semplicemente, non più. I fatti, cambiando, cambiano la teoria che influenza i fatti.
Questa rappresentazione escheriana del lavoro delle banche centrali stupirà solo chi non le conosce, o chi ama pensare che queste entità posseggano i super poteri. In realtà sono umane, persino troppo.
Per averne conferma basta leggere cosa diceva un grande banchiere centrale nel (neanche) lontano luglio 1997: Alan Greenspan, per anni capo della Fed: “Siamo giunti nella situazione in cui l’offerta di moneta, le riserve non in prestito, e le altre misure non legate al tasso di interesse, su cui la Commissione si era focalizzata, ci hanno abbandonato. Siamo rimasti con il tasso di interesse perché non avevamo più altre alternative. Io credo che in un certo senso se la nostra politica ufficiale potesse trovare una via per tornare indietro a quando eravamo in grado di fissare come obiettivo target l’offerta di moneta o le riserve non a prestito o qualche altra misura non legata al tasso di interesse al posto del federal funds rate, noi lo faremmo. Io non sono sicuro che saremo in grado di tornare ad un regime di tal genere… ma la ragione è che non siamo molto entusiasti di sfruttare il target federal funds rate. Lo abbiamo fatto a causa di uno sfortunato ripiego quando non avevamo altre opzioni”.
La banca centrale “abbandonata” dagli strumenti che usava di solito e “costretta” ad accontentarsi della manovra del tasso, attraverso il quale prova ad influenzare l’economia partendo dall’inflazione, è un’immagine quasi commovente.
Non si può che voler bene alle banche centrali. Sono il miglior esempio dell’applicazione del principio della razionalità alla realtà economica. Naturalmente destinate al fallimento in ragione diretta dell’irrazionalità della realtà.
L’economia nel lunghissimo XIX secolo
Esiste perciò un trend secolare. Almeno se ci si riferisce al “pacchetto” che i poteri pubblici, fra i quali si iscrive ormai a grandissimo titolo anche il central banking, hanno iniziato a confezionare durante la globalizzazione del lunghissimo XIX secolo.
Questo pacchetto, che si alimenta di crisi private e interventismo pubblico, nella forma di politiche fiscali e monetarie, in un crescendo di interazioni anche distruttive – si pensi al disastro degli anni Trenta del XX secolo – ha trovato come punto di caduta il consenso su un modello economico e sociale che evoca lo stato stazionario di Mill pur affermando di aspirare alla crescita duratura. Quindi produce società con redditi non grandi – salvo alcune concentrazioni di ricchezza al picco della distribuzione statistica – ma diffusi, che hanno la tendenza a produrre una crescita stagnante e stanno completando l’eutanasia dei redditieri.
E adesso?
Nessuno, tranne forse i poeti, conosce il futuro, e meno degli altri chi ne discorre. Possiamo notare però che la pandemia ha esacerbato questo trend, aumentando in ragione diretta della sua gravità il tasso di intervento pubblico, sia a livello fiscale che monetario.
I governi hanno speso decine di trilioni di dollari per sostenere le proprie economie. E le banche centrali hanno lavorato per garantire ulteriori allentamenti monetari. Ormai lo yield control è un strumento di uso comune fra le banche centrali, a significare dal grande cammino che abbiamo fatto da quando la Banca d’Inghilterra aveva il tasso di sconto al 5%, ormai due secoli fa.
Una cosa, tuttavia, è certa: al calo dei tassi nominali e alla scomparsa dei rendimenti, storicamente rimarchevole, si è affiancato un enorme debito cumulato a livello globale, che di questa scomparsa è l’ovvia contropartita. Così come è contropartita di questa straordinaria montagna di debiti un’altrettanto quantità storicamente rimarchevole di crediti, che corrispondono a ricchezza di qualcuno.
Se i tassi fossero anche solo al 5%, come erano vent’anni, fa fallirebbero molti stati, oltre che un numero imprecisato di aziende. La somma di due fatti storici ci lascia pensare che siamo all’inizio di una storia nuova.
La storia del secolo XXI
Se immaginiamo la storia economica come la costante diatriba fra creditori e debitori, potremmo dire che il lunghissimo XIX secolo ha visto una graduale transizione fra una politica decisamente orientata alla tutela dei creditori – da cui derivavano una congerie di consuetudini che vanno dal gold standard alla galera per i debitori insolventi – a una politica sempre più orientata alla tutela dei debitori. Che oggi sono in gran parte gli stessi stati chiamati a gestire questi debiti.
Questi ultimi si sono attrezzati egregiamente alla bisogna lavorando fianco a fianco con le loro banche centrali, delle quali viene ogni giorno ribadita l’indipendenza. E non a caso. L’esito più notevole di questi duecento anni è che il denaro non è più scarso. Se ne può emettere senza limiti, purché il mercato sia disposto ad accettarlo. A tal fine, l’indipendenza di una banca centrale e l’esistenza di un governo dotato di ampia credibilità sono requisiti fondamentali.
Ma non serve parlare qui di questo. Meglio concludere riportando quanto sottolineato da illustri economisti, secondo i quali non bisogna preoccuparsi dei debiti, perché li pagheranno i creditori.
Che tutto questo prepari un nuovo ordine sociale, dai contorni ancora poco chiari, non solo è possibile. E’ anche probabile.
Post scriptum: tasso di interesse e natura del denaro
E se la scomparsa dei rendimenti fosse il sottotitolo di una storia diversa? La lunga galoppata secolare che abbiamo fatto attorno ai tassi europei e statunitensi ha molto a che fare con la natura di ciò che motiva l’interesse: il denaro.
Il cambiamento della natura del denaro, divenuto da merce puro pensiero, influenza la sorte del tasso di interesse. La svaluta, o forse la rivaluta. In ogni caso, così facendo la trasforma. Ma questa è decisamente un’altra storia.
(4/fine)
Puntata precedente: La scoperta della manovra del tasso di interesse
Questo post fa parte di un capitolo del nuovo libro che sto scrivendo – La Nazione Globale – che di tanto in tanto fa capolino sul nostro blog. L’intero capitolo verrà pubblicato a puntate durante le vacanze di fine anno. Il testo integrale, compreso di note, è disponibile su Academia, a questo link.