La tensione sul lavoro spinge il governo in un vicolo cieco
Ormai è chiara a tutti la complessità del problema di fronte al quale ci troviamo. Proviamo a riepilogare prendendo a prestito alcuni dati diffusi da Ocse nel suo ultimo outlook. Primo tema: i salari. In alcuni paesi, come il nostro, già sottodimensionati da tempo, adesso vengono rapidamente impoveriti da un’inflazione molto veloce.

A peggiore la situazione l’ovvia considerazione – ogni volta sembra una scoperta ma dovrebbe essere chiaro a tutti – che i primi a pagare il conto di questa ondata inflazionistica sono i ceti più fragili.

I governi perciò, che nel frattempo hanno aumentato notevolmente la propria esposizione debitoria, si trovano di fronte a una domanda densa di dilemmi: come fare a garantire il potere d’acquisto della popolazione, unica garanzia di tenuta non solo economica, ma anche sociale?
Una prima riposta l’abbiamo letta sui giornali, quando hanno dato notizia della decisione europea di fissare un salario minimo. Ossia: agendo sui salari, quindi incrementando i redditi nominali per pareggiare l’erosione inflazionistica, o quantomeno ridurla. Ci siamo già passati, e ci passano continuamente in tanti. Molto spesso una dinamica salariale che accelera finisce col fornire carburante anche all’accelerazione dei prezzi, e quindi diventa un boomerang.
Una seconda risposta l’abbiamo intravista raccontando del dibattito Usa per diminuire i dazi alla Cina, visto che l’amministrazione si è resa conto – incredibile ma vero – che contribuiscono ad aumentare molti prezzi. E questo merita un piccolo approfondimento, giusto per ricordare che la formazione del prezzo coinvolge sia componenti di mercato – il famoso incrocio fra domanda e offerta – sia componenti fiscali: le tasse. I dazi, ma anche le imposte indirette, appartengono a questa capiente quota.
Purtroppo non dispongo di una analisi che suddivida nelle varie quote la componenti dei prezzi, ma sarebbe molto utile poterne disporre per decidere – avendoci un governo capace di farlo – dove agire per diminuire la pressione sui prezzi. Sarebbe un lavoro certosino, di tipo microeconomico più che macroeconomico, quindi non plausibile, in un tempo che vuole risposte semplici a problemi complessi. Tipo: c’è l’inflazione aumentiamo i salari.
Quindi questa analisi non la farà nessuno. Anche perché contiene una terribile controindicazione: agire sulla componente fiscale del prezzo implica una diminuzione degli incassi per il governo, e quindi un problema di spesa pubblica. E nessuno vuole tornare a sentire le sirene anti-austerità all’opera, me compreso.
Come ulteriore elemento di complessità vale la pena aggiungere che i mercati del lavoro rimangono molto tirati. La disoccupazione – e stendiamo un velo sul tipo di occupazione che cresce – tende a diminuire, e quindi aumentano le tensioni sul costo del lavoro anche da questa minore disponibilità (labour shortage).

Non serve altro per capire in che razza di vicolo cieco il governo – qualunque governo – si sia cacciato, alla fine del quale peraltro trova il sorriso per nulla rassicurante della sua banca centrale che gli dice dolcemente che la pacchia è finita. Niente più tassi a zero. Niente più acquisti di titoli a pie’ di lista.
Gli toccherà governare, insomma. E non sarà per nulla piacevole. Per fortuna esiste sempre la possibilità dell’opposizione.