La globalizzazione invisibile: le banche ombra non Usa che prestano dollari

Poiché si arricchisce di capitoli il grande libro sul futuro del sistema monetario, che volenterosi scrittori immaginano sempre più popolato da monete nazionali non convertibili – una per tutte lo yuan cinese – vale la pena correre il rischio di essere noiosi e raccontare una di quelle storielle da ragionieri che però illustrano ciò che accade fuori dagli esercizi di stile dei commentatori più o meno occasionali. Tale esercizio ha l’unico fine di ricordare a tutti noi che è mondo è assai più complicato di quello che può contenere lo spazio di una pagina. Quindi consideratelo una pratica di umiltà applicata alla realtà.

Il pretesto ce lo offre l’ultima rassegna trimestrale della Bis, che fra le varie cose ci ricorda un caratteristica della nostra attuale globalizzazione finanziaria – ossia uno dei tanti modi possibili di vedere la globalizzazione – che solo gli addetti ai lavori (e i lettori di questo blog) conoscono: la prassi diffusissima di alcune entità finanziarie non statunitensi, che non sono banche, di prestare dollari alle banche non americane.

Diciamolo in un altro modo più comprensibile. Alcune banche, che non sono statunitensi ma hanno bisogno di dollari, si fanno prestare questa valuta da soggetti finanziari che non sono banche ma che dispongono di ampie risorse in dollari da investire. Chi sono questi soggetti? Possono essere diversi, ad esempio un fondo pensione. In comune hanno la circostanza che dispongono di risorse in dollari da investire e magari vorrebbero persino guadagnarci qualcosa. Questi soggetti, nella nomenclatura internazionale, vengono chiamati Non bank financial institutions (NBFIs).

Quel che sta succedendo, spiega la Bis, è che l’aumento dei tassi Usa da inizio 2022 si è trasmesso molto debolmente ai tassi di interesse dei depositi bancari tradizionali. Quindi i depositanti in dollari hanno avuto convenienza a ricercare rendimenti più elevati fuori delle banche, trovando le NBFIs, i cui rendimenti sono di solito più vicini ai tassi ufficiali, ben disposti ad accoglierli. A loro volta questi soggetti si sono riempiti di dollari e hanno pensato bene di prestarli alle banche che non solo potevano averne bisogno, quindi quelle fuori dal territorio Usa, ma anche disposte a garantire loro un rendimento capace di remunerare i loro tassi passivi e spuntare un margine.

Il risultato è che nel primo trimestre del 2023 i prestiti globali delle NBFIs sono aumentati di 326 miliardi, il 3 per cento, 119 miliardi da non-banche residenti fuori dagli Usa e 123 miliardi da non-banche collegate ad affiliati negli Usa. In dettaglio, circa i due terzi di questi prestiti sono andati a banche giapponesi e britanniche. Il resto è andato in Francia. Interessante anche osservare come la fuga dai depositi bancari abbia alimentato i flussi dei fondi monetari, che sono diventati grandi fornitori di valuta Usa per le banche non Usa. Si calcola che nei primi sei mesi del 2023 abbiano prestato circa 550 miliardi di dollari.

Queste specifiche tecniche, che magari interesseranno pochi, dovrebbero ricordarci quello che invece dovrebbe (e mai condizionale fu più d’obbligo) interessare tutti: non bastano un articolo di giornale, un convegno o un discorso in televisione a cambiare le cose. Servono tempo, fiducia e, soprattutto, infrastrutture funzionanti.

E adesso che avete scoperto un piccolo rivolo della globalizzazione finanziaria, fatevi solo una semplice domanda: questo flusso di liquidità sarebbe stato possibile denominarlo in yuan? Dopodiché rileggete gli articoli di quelli che dicono che il dollaro è al tramonto e pensateci su.

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