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Le conseguenze economiche della Brexit dieci anni dopo

Sembra ieri, ma sono passati quasi dieci da quel 2016 che segnò il divorzio fra UE e UK all’apice dell’ondata populista che stava investendo il nostro vecchio sub-continente. Sembra ieri, ma cosa è successo nel frattempo?
Le cronache politiche e finanziarie che arrivano dal Regno Unito raccontano di una crisi strisciante che ormai è comune a tutti i grandi paesi europei. Guardate la Francia, o magari la Germania. La crisi esistenziale non risparmia nessuno, e noi ancora meno. Se dedichiamo qualche riga al caso britannico non è per maramaldeggiare. Ma per vedere se il presupposto che condusse a quel referendum disgraziato, ossia che da soli si prosperi e in compagnia si appassisca, oggi, che sono passati quasi dieci anni anche se sembra ieri, risultano sensati oppure no.
I dati li abbiamo estratti da un bel lavoro pubblicato di recente dal Nber, cui rimandiamo per ogni approfondimento. Qui ci limitiamo a proporre alcuni punti che speriamo diano un’idea precisa di cosa è accaduto in questo lungo arco di tempo. Non tanto perché crediamo che i populisti si faranno convincere dalla ragione dei numeri, che già da allora gli dava torto, ma come testimonianza a futura memoria di come non ci sia ragione che tenga, quando prevalgono gli istinti belluini.
Vediamo qualche cifra. Il paper ha svolto sia valutazioni micro che macro economiche per paragonare l’andamento dell’economia britannica con alcuni paesi comparabili, tentando anche un esperimento controfattuale per stimare l’andamento dell’economia britannica senza Brexit.
“Stimiamo – scrivono gli autori – che all’inizio del 2025 l’economia del Regno Unito fosse circa l’8% più piccola di quanto sarebbe stata senza Brexit, sulla base dei dati macro, e del 6% più piccola utilizzando i dati micro a livello aziendale”. Investimenti e occupazione sono andati anche peggio. “Si stima che gli investimenti siano stati inferiori del 12-18%, l’occupazione del 3-4% e la produttività del 3-4% rispetto a quanto sarebbe stato se il Regno Unito non avesse votato per l’uscita dall’UE”.
Come se non bastasse, “la Brexit ha generato un aumento significativo, generalizzato e duraturo dell’incertezza” e questo ha avuto un effetto depressivo sugli investimenti e si ipotizza abbia pesato anche sulla produttività “limitando l’innovazione e la spesa in forme di investimento potenzialmente in grado di migliorare la produttività”.
Ciò in ragione del fatto che “il tempo e le risorse che le aziende hanno dedicato alla preparazione alla Brexit sono stati fortemente correlati a una minore produttività”. Problema ancor più grave degli effetti della riduzione degli scambi commerciali con l’UE.
“L’esperienza del Regno Unito con la Brexit – concludono – presenta anche alcuni parallelismi con la recente introduzione di nuovi dazi sulle merci in ingresso negli Stati Uniti nel 2025. Esistono pochi altri esempi di aumento delle barriere commerciali tra i principali paesi sviluppati e, come la Brexit, gli annunci sui dazi hanno creato incertezza su quali potrebbero essere i futuri accordi commerciali e su come potrebbe essere il processo verso una soluzione a lungo termine. Nel caso della Brexit, l’impatto economico sul Regno Unito è stato sostanziale”. Chi ha orecchi intenda. Sempre che voglia usarli.
Cartolina. Debito emergente

Le imprese dei paesi emergenti, al netto della Cina, si indebitano assai meno dei loro governi a quanto pare. Addirittura c’è stato un calo significativo delle emissioni corporate, fra il 2024 e il 2023. Ma in compenso usano sempre più la valuta locale anziché quelle internazionali – sostanzialmente il dollaro – per le loro emissioni. Ormai quasi la metà dei bond corporate usano la moneta di casa, specialmente in Asia. Queste obbligazioni trovano volenterosi acquirenti fra i residenti, che evidentemente apprezzano. E questa una buona notizia per le imprese locali, che si trovano meno esposti ai capricci della congiuntura valutaria internazionale. Il debito emergente piace assai più in casa che all’estero. Chissà se questa preferenza, in tempi di crescente tentazioni autarchiche, non diventerà una tendenza. Magari gli emergenti sono un’avanguardia.
Cartolina. Dal Warfare al Welfare

Se la storia si ripetesse davvero dovremmo inquietarci nello scoprire che negli anni Sessanta del secolo scorso gli Usa spendevano più del 10 per cento del pil per la difesa e quasi niente per la Sanità. Oggi la spesa sanitaria si è mangiata buona parte di quella per la Difesa, che rimane elevata, ma assai meno rilevante di prima. Dal warfare al welfare dovrebbe essere un progresso virtuoso, ma chissà. Le sirene del conflitto echeggiano sempre più rumorosamente nelle nostre orecchie. E il progresso potrebbe rivelarsi un circolo. Neanche virtuoso: solo vizioso.
Rallenta la spesa in ricerca e sviluppo dei paesi Ocse

Qualunque testo di economia non si stanca mai di sottolineare l’importanza degli investimenti in ricerca e sviluppo come attivatori della crescita di un’economia. E tuttavia, secondo quanto riporta Ocse nel suo ultimo Science, technology and innovation outlook, “ci sono stati recenti rallentamenti nella spesa in ricerca a sviluppo nell’Ocse”.
Questa nuova tendenza ne interrompe un’altra contraria che durava da almeno un ventennio. L’istituto parigino ipotizza che il debito crescente e le pressioni inflazionistiche abbiano pesato in questo rallentamento. Qualunque sia la ragione, rimane il fatto. Nel 2023, ultimo anno di dati disponibili, la crescita della spesa in R&D, aggiustata per l’inflazione, è stata del 2,4%, in calo rispetto al 3,6% del 2022. Il principale driver di questa crescita è stato il settore business, cresciuto del 2,7%, a fronte del 2,5% del settore governativo e dell’1,7% di quello dell’istruzione.

Complessivamente il settore business ha pesato il 73,6% della spesa R&D, sempre nel 2023. Un anno prima pesava il 66%. Ciò significa che le imprese sono i soggetti più impegnati in questi processi, mentre il settore pubblico, sia a livello di interventi diretti, sia tramite l’istruzione pubblica, rimane fanalino di coda.
E’ interessante sottolineare che “tra i paesi con la spesa maggiore, la quota di R&D svolta dalle imprese è aumentata in Cina dal 60% nel 2000 al 77,7% nel 2023, una percentuale vicina a quella degli Stati Uniti (78,4%) e superiore a quella dell’UE27 (66,0%)”. Un segnale che i nostri decisori farebbero bene a non sottovalutare.
All’interno dell’area si osserva il primato di Israele, seguita dalla Corea del Sud. Per l’intera Ocse la spesa complessiva è aumentata, su base decennale, dal 2,3 del pil del 2013 al 2,7% del 2023. Ma il dato aggregato nasconde molte diversità. Gli Usa superano di poco l’Ue (1,7% vs 1,6%).
Altri paesi, fra i quali il nostro sono sostanzialmente stagnanti. Fanno molto meglio Spagna e Polonia, con tassi di crescita superiori all’8% della spesa nel 2023. Proprio come accade, fuori dall’Ocse, alla solita Cina, con la sua crescita 2023 dell’8.7% in R&D. La Cina, forse, è più vicina di quanto pensiamo.
Quattro trilioni di opportunità per l’Africa

L’ultimo rapporto dell’AFC, Africa finance corporation, sullo stato delle infrastrutture africane ci comunica un’informazione rilevate su quella che è la madre di ogni sviluppo infrastrutturale: la dotazione di capitale finanziario. Perché la prima cosa che bisogna sottolineare una volta per tutte è che l’Africa non diventerà mai una realtà economica con un peso specifico equivalente alla massa delle sue potenzialità se non riuscirà a far crescere il capitale interno, ossia la quantità di risparmio casalingo. E’ impensabile che un paese enorme possa vivere di prestiti e investimenti esteri senza esprimere una propria capacità di accumulazione.
Il senso del lavoro fatto dall’AFC è proprio questo: vedere su quante risorse finanziarie proprie può contare il continente. E capire come funzioni la sua infrastruttura finanziaria, ossia in sostanza il mercato bancario e del debito, che dovrebbe trasformare queste risorse in strumenti per la crescita. L’osservazione di altre regioni, dove lo sviluppo si è sempre accompagnato con l’aumento del risparmio interno, conferma che questa è la priorità fondamentale per il continente.

Nelle regioni asiatiche che sono riuscite a uscire dalla zona della crescita insufficiente a generare prosperità si osserva con chiarezza l’aumento, nel tempo del risparmio interno. La domanda, quindi, è: a che punto è arrivata l’Africa?
La risposta è composita. Lo stock complessivo di capitale che l’AFC ha contabilizzato vale 4 trilioni di dollari, che non è tanto, considerando l’estensione dell’Africa, ma non è nemmeno poco. Il problema semmai è che questo stock si distribuisce in maniera molto diseguale. Come per altri tipi di infrastrutture, l’Africa si divide fra chi ha qualcosa, o anche più di qualcosa, e chi non ha nulla. Se guardiamo ai fondi pensione e alle assicurazioni, il discorso risulta chiarissimo.

Se andiamo a guardare il sistema bancario, osserviamo che malgrado detenga complessivamente 2,5 trilioni di attivi, non riesce ad esprimere quella dimensione e quella profondità che servirebbero per finanziare lo sviluppo africano. Gli investitori istituzionali, che gestiscono 777 miliardi di dollari di asset, investono queste risorse in asset a basso rischio. Solo alcuni paesi, come la Nigeria e la Namibia, stanno cercando di modernizzare questo settore per venire incontro alle necessità d investimento infrastrutturale. Rimangono le banche pubbliche e i fondi sovrani, che gestiscono circa 400 miliardi di risorse, che però rimangono ampiamente sottoutilizzate.
Fra le voci che alimentano lo stock di capitale rimangono protagoniste le rimesse degli emigrati, che pesano circa 80-90 miliardi l’anno. Una quota di risorse importante, ma non certo sufficiente a far crescere adeguatamente lo stock di risparmio.

Di buono c’è che questi flussi sono più stabili degli investimenti diretti esteri (FDI) che oltre ad esprimere importi meno elevati sono più sensibili ai capricci della congiuntura internazionale.
Rimane ampiamente irrisolto un altro grande problema per il futuro dello sviluppo africano: quello dell’economia informale, che in alcune zone del continente è molto elevata.

Le stime parlano di un 40% di pil africano sommerso e addirittura l’80% dell’occupazione. Questo significa meno risorse fiscali, e quindi meno possibilità di promuovere politiche pubbliche di sviluppo. E questo ci conduce all’altra infrastruttura fondamentale per qualunque territorio che voglia crescere: quella statale. Anche qui il panorama è molto composito, con grandi differenze fra i vari territori. Rimane il fatto: se vuole crescere l’Africa dovrà imparare a camminare con le sue gambe. Quindi dovrà farsi anche i muscoli. Quattro trilioni sono un buon inizio. Adesso bisogna usarli.
L’irresistibile ascesa del private debt delle non banche

Un bel paper pubblicato dal NBER ci aggiorna su una delle tante novità fiorite nel mondo della finanza internazionale dopo la Grande Crisi del 2008, esplosa proprio grazie ai prodotti esotici della finanza internazionale. Strano ma vero: si rimedia ai guasti dell’innovazione finanziaria innovando la finanza. E questo genera nuovi rischi.
La trovata in questo caso è stata spostare il debito rischioso fuori dalle banche, creando un rapporto morganatico di queste ultime con altri soggetti, chiamati genericamente non banche (Non bank financial institutions, NBFIs), che abbiamo incontrato più volte nel nostro blog.
Questa tendenza generale si è manifestata in modi molto diversi fra loro. Quello di cui ci occupiamo oggi è il private debt. Si tratta di prestiti concessi dalle non banche — in questo caso fondi di credito privato e Business Development Companies (BDCs) — e detenuti fuori dai circuiti tradizionali. Questi strumenti sono spesso impiegati in operazioni ad alto rischio, come i leveraged buyout (LBO), dove un fondo di private equity acquisisce un’azienda combinando capitale proprio e debito.
Il private debt, quindi, non deve essere confuso col private equity. Nel primo l’investitore agisce come creditore, riceve interessi fissi e ha priorità di rimborso. Non ha controllo sull’azienda, ma beneficia di flussi di cassa stabili. Nel secondo l’investitore diventa proprietario o co-proprietario dell’azienda, punta alla crescita del valore dell’impresa e al ritorno economico. Il rischio è maggiore e quindi anche il potenziale rendimento. In pratica, il private debt è più difensivo e orientato alla protezione del capitale, mentre il private equity è più aggressivo e orientato alla valorizzazione.
Il paper ci racconta che negli ultimi quindici anni il private debt, un tempo strategia di nicchia, è diventato uno dei pilastri dell’ecosistema finanziario globale. Dopo la Grande Crisi Finanziaria (GFC), il settore bancario ha subito una stretta regolamentare che ha ridotto la sua esposizione al credito ad alto rischio, soprattutto verso le imprese medio-piccole. Questo vuoto è stato colmato dai fondi privati, che hanno attratto capitali da investitori istituzionali alla ricerca di rendimenti più elevati in un contesto di tassi bassi. In sostanza il ruolo di intermediazione delle banche in questo segmento è stato completamente occupato dalle non banche.

Il risultato è stato che nel 2025, il mercato globale del debito privato ha raggiunto 1,7 trilioni di dollari in capitale impegnato, triplicando rispetto al decennio precedente. Circa un terzo di questo capitale non è ancora stato investito, segno di una forte capacità residua.
Il paper distingue fra due strumenti di private debt: i BDCs: società regolamentate dalla SEC, che raccolgono capitale da investitori retail tramite azioni e obbligazioni. Operano con leve moderate e sono più trasparenti. E i Credit Funds, fondi chiusi, simili a quelli di private equity, finanziati da investitori istituzionali con capitale bloccato per 10 anni. Sono meno regolamentati ma più stabili nei periodi di crisi.
I BDCs sono più vulnerabili alle fluttuazioni di mercato, mentre i credit funds godono di maggiore resilienza. Tuttavia, entrambi dipendono in parte da linee di credito bancarie, creando potenziali canali di contagio.
Circa il 60–85% del private debt sostiene operazioni di buyout. Questo legame è evidente anche nella distribuzione settoriale: il 46% dei fondi di credito è concentrato nel settore tecnologico, in particolare cloud computing, intelligenza artificiale e applicazioni mobili.
Storicamente, le banche non hanno avuto un ruolo significativo nel finanziamento di buyout, soprattutto nel segmento mid-cap. Il private debt ha colmato questo vuoto, offrendo soluzioni flessibili e rapide, spesso con un singolo prestito senior garantito. Ma non è tutto oro quello che brilla. Il paper evidenzia diversi rischi sistemici, che vanno dal contagio bancario, visto che i BDCs dipendono in parte da linee di credito bancarie, creando interconnessioni potenzialmente pericolose, fino a rischio di liquidità, visto che i BDCs possono trovarsi in difficoltà nei momenti di crisi di mercato. Inoltre, la mancanza di trasparenza nei credit funds rende difficile monitorare il rischio aggregato, nonostante la loro stabilità apparente.
In sostanza, il private debt ha trasformato il modo in cui le imprese si finanziano, offrendo flessibilità e accesso al credito per i soggetti fuori dal perimetro delle banche tradizionali. Quelli che una volta si chiamavano subprime. Ma questa evoluzione comporta anche nuove vulnerabilità. Proprio perché non sono scomparsi i subprime. Hanno semplicemente trovato altri creditori che le banche finanziano al loro posto. E così la giostra continua.
Cartolina. La crescita italiana

Chi l’ha detto che siamo in stagnazione? O addirittura in declino. L’Italia cresce, eccome. Addirittura di oltre il 130 per cento in poco più di 15 anni. Un autentico record, che racconta molto del nostro paese, del nostro stile di vita, delle nostra priorità. Una crescita del genere è da manuale di economia. O almeno di demografia, visto che parliamo di centenari. L’Italia cresce ma non si riproduce. Quindi invecchia. E’ la cosa che le riesce meglio.
Cartolina. La banca non banca

Nel mondo che cambia le banche fanno meno le banche di prima, ma in compensano aumentano i soggetti che fanno le banche senza esserlo. Questi soggetti finanziano chi faticherebbe ad avere credito dalle banche, ma per trovare le risorse le chiedono alle banche, che quindi diventano creditrici delle non banche. Le non banche, che prestano ai debitori più rischiosi, si fanno pagare bene il disturbo. Quindi possono, a loro volta, ripagare bene le banche vere. Queste ultime, perciò, prestano indirettamente senza troppe seccature regolatorie a soggetti rischiosi, che nei loro interessi incorporano il costo della banca e della non banca, guadagnandoci pure. Il fatto che questo cambiamento sia cominciato nel 2008, quando i debitori rischiosi che non pagavano i mutui hanno fatto crollare i mercati internazionali è la morale di questa bellissima storia.
I tassi in declino mettono sotto stress le banche cinesi

Piano piano anche le banche cinesi stanno iniziando a sperimentare il tormenti di chi viva in un contesto di tassi di interesse declinanti, che finisce sempre per rosicchiare i margini operativi. Noi occidentali conosciamo bene il problema, visto che abbiamo vissuto per anni coi tassi rasoterra. Ma per i cinesi è una novità che arriva in conseguenza degli allentamenti monetari che la banca centrale sta gestendo per provare a rilanciare una crescita che rimane lenta, almeno per gli standard cinesi ai quali si era abituati.
Il tema non è sfuggito al Fmi, che ne ha fatto oggetto di un approfondimento nel suo ultimo Global financial stability report, dove si ricorda che la banca centrale cinese ha portato i tassi dal 2,2% di tre anni fa all’1,4% di oggi, quasi dimezzandoli. Ciò ha contribuito a far crollare i rendimenti dei titoli di stato ai minimi storici e al contempo ha messo sotto pressione la redditività degli istituti di credito, già alle prese con diverse difficoltà generate da un contesto economico che fatica.
Il risultato è stato che il margine netto della banche è arrivato al minimo storico dell’1,42%. E quando si scomoda troppe volte la storia, l’esperienza insegna che si sta covando un problema. La circostanza che lo spread fra bond a un anno e depositi a termini a un anno sia diminuito bruscamente alla fine del 2024, a causa del brusco declino dei rendimenti obbligazionari, diminuiti più velocemente dei depositi, mostra con chiarezza questa tensione, alla quale le banche hanno provato a porre rimedio tenendo elevato il costo dei prestiti. Lo spread sui prestiti, misurato dalla differenza fra il tasso primario sui prestiti a un anno e il rendimento del titolo a un anno, è arrivato a quota 150 punti base. Un livello non certo modesto, che spiega come le banche stiano cercando di difendere la redditività spostando il peso su chi chiede credito bancario.
Sono segnali che lasciano ipotizzare il rischio di un indebolimento della base patrimoniale delle banche. Che peraltro sembra in corso. “Considerati i margini di interesse netti, sia il rendimento del capitale proprio che il rendimento delle attività per il settore bancario sono diminuiti, scendendo all’8,2% e allo 0,63% nel secondo trimestre del 2025, prossimi ai minimi degli ultimi dieci anni, rispetto
all’8,9% e allo 0,69% dell’anno precedente”, scrive il Fmi.
Bisognerà vedere se il calo dei tassi di interesse finirà col limitare i prestiti all’economia. Cosa che già, in qualche modo, si intravede. Al momento le riserve della banche sono adeguate, scrive il Fmi. Ma riserve adeguate e tassi bassi non hanno impedito il rallentamento dei prestiti, scesi sotto la media quinquennale.
La debolezza dell’economia, ovviamente, ha delle conseguenza sulla domanda di credito. Le autorità cinesi all’inizio del 2024 hanno iniettato 500 miliardi di yuan, circa 69 miliardi di dollari, nel capitale delle grandi banche statali, proprio per potenziare la loro offerta di credito. Ma come noi occidentali sappiamo bene, non c’è acqua che basti, se il cavallo non vuole bere. La Cina si trova di fronte allo scenario che noi abbiamo vissuto per anni: tassi bassi per stimolare l’economia, che però nicchia, e banche (e assicurazioni) sotto pressione. Qui da noi la storia è finita con un’ondata inflazionistica senza precedenti recenti, per le più svariate ragioni. Per la Cina chissà.
L’Africa fa il pieno di investimenti cinesi nei primi sei mesi del 2025

Mentre il mondo litiga sui dazi, la Cina sta silenziosamente accelerando i suoi investimenti nell’ambizioso progetto della Belt and Road iniziative. Nei primi sei mesi di quest’anno, secondo quanto riportato dagli osservatori del Green Finance&Development center, istituto legato all’università Fudan di Shanghai, in collaborazione con a Griffith University di Brisbane, la Cina ha impiegato 66,2 miliardi per contratti di costruzione e 57,1 miliardi in investimenti di altra natura diffusi lungo tutti i paesi interessati dal progetto.
Si tratta, spiegano i ricercatori, del dato più elevato di risorse dedicate alla Bri in sei mesi dal 2013, ossia da quando Pechino ha lanciato il suo ambizioso progetto di internazionalizzazione del capitale cinese. Gran parte di queste risorse è stata impegnata nel settore dell’energia, alla quale sono stati destinati 42 miliardi, un aumento del 100% rispetto al primo semestre del 2024. In particolare, il settore petrolio&gas ha ricevuto risorse per circa 30 miliardi, un valore superiore all’interno 2024. A fruire dei due terzi di questa somma è stata la Nigeria, dove sono stati firmati contratti per 20 miliardi di dollari per la costruzione di impianti di lavorazione di petrolio e gas.
Pechino sta portando avanti sia investimenti nelle energie tradizioni, quindi, compreso il carbone, ma al tempo stesso ha investito 9,7 miliardi i progetti eolici, solari e di conversione di di rifiuti in energia, per una capacità installata di circa 11,9 GW di energia verde.
Ben 24,9 miliardi di dollari sono stati investiti nella lavorazione dei minerali, 10 dei quali sono stati destinati all’estrazione. altri 23,2 miliardi sono stati dedicati al settori hi tech. Ancora una volta la Nigeria è stata destinataria di investimenti per la realizzazione di batterie per veicoli elettrici e dell’idrogeno.

Se guardiamo alla distribuzione geografica di questo flusso di risorse, osserviamo che l’Africa primeggia nella classifica degli investimenti del semestre con 39 miliardi, seguita dall’Asia centrale, che in questo periodo ha superato il Medio Oriente, con 25 miliardi. Degna di nota la circostanza che gran parte di queste risorse siano arrivate dal settore privato cinese. Fra le aziende spiccano la East Hope Group, Xinfa Group e Longi Green Energy.
Complessivamente, dal 2013, quando il progetto Bri è stato lanciato, le risorse impegnate sono arrivate a 1.308 miliardi di dollari, 775 in contratti di costruzione, 533 in investimenti non finanziari. La Cina, in sostanza, sta proseguendo il suo percorso di internazionalizzazione. E il fatto che l’Africa sia una presenza costante nei progetti cinesi non è certo una sorpresa. A sorprendere semmai è che noi ci siamo poco.
