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Evoluzioni del QE: La monetizzazione del Giappone
Ora che l’esperimento monetario potrebbe essere condotto alle sue conseguenze più estreme dove potrebbe accadere questa evoluzione, se non in Giappone? Qui, dove l’estremo Oriente incontra l’Occidente più estremo, sarebbe facilissimo trasformare il QE in pura monetizzazione dei debiti, e anzi qualcuno già lo considera un esito “inevitabile”.
Il Giappone, d’altronde, è già il paese dove l’esperimento ha visto la sua evoluzione più radicale, conosciuta come Quantitative and Qualitative easing (QQE), che vede già una sostanziale crescita della base monetaria. E poiché i risultati non sono certo entusiasmanti, il paese è di nuovo in recessione e l’inflazione rimane a zero o sotto, e nel frattempo i debiti giapponesi sono cresciuti, non stupisce che nel suo paper (“The Case for Monetary Finance – An Essentially Political Issue”) Adair Turner prenda proprio il caso giapponese come esempio di scuola per saggiare la fattibilità della sua analisi sulla monetary finance.
“Ci troviamo di fronte alla situazione – scrive – nella quale i livelli globali di debito sono talmente alti che possono essere ridotti solo con un mix di diverse politiche: grandi svalutazioni palesi, significativi tassi negativi mantenuti per parecchi anni, monetizzazione dichiarata dei debiti pubblici esistenti”. Inoltre, aggiunge, “dobbiamo fare fronte alla sfida che proviene dal rischio di una stagnazione secolare che anche prima della crisi del 2007-08 aveva già prodotto una drammatica caduta nei tassi di interessi di lungo termine”.
Questi due fattori spiegano perché “l’applicazione dei normali tool non ha avuto successo nel condurre la domanda a livelli adeguati e creano circostanze per cui escludere la monetizzazione può seriamente limitare la nostra abilità di ottenere una crescita corrispondente al nostro potenziale”.
Quindi l’espediente monetario per sostenere il mito della produzione, come nella migliore tradizione del bad equilibrium nel quale viviamo e che si vuole pervicacemente difendere.
Ed è proprio questa difesa ostinata che conduce l’autore alla convinzione dell'”inevitabile monetizzazione in Giappone”. Qui sette anni di politiche monetarie straordinarie non hanno impedito di avere una crescita negativa media negativa per lo 0.1% l’anno. Ma soprattutto il Giappone sta vivendo fin dal 1990 la situazione in cui si agita disperatamente l’economia dei paesi avanzati. Fu nei primi ’90 che il paese conobbe la sua devastante recessione patrimoniale e intraprese la via degli stimoli fiscali e monetari senza peraltro riuscire ad uscirne. “L’esperienza giapponese dal 1990 al 2015 è stata un esempio estremo del pattern che ha interessato le altre economie avanzate sin dal 2008”, nota Adair. Estremo come il Giappone, paese avanguardia, sin dagli anni ’90, del futuro che sarebbe toccato in sorte al resto del mondo sviluppato venti anni dopo.
In Giappone il debito privato corporate è stato diminuito dal 140% al 100% del Pil, ma solo al costo di far salire il debito pubblico dal 50% al 246% “e ancora cresce”. Di fronte a questa spaventosa accumulazione il governo ha più volte promesso di voler ridurre i propri deficit fiscali e anzi di voler generare un avanzo primario, mentre una politica monetaria ultra espansiva avrebbe dovuto generare una crescita nominale della domanda sufficiente a portare l’inflazione al target del 2%. “Ma non c’è nessuna evidenza che suggerisca che tale politica sia credibile”, osserva Adair.
Sul versante fiscale, gli scenari elaborati dal Fmi mostrano che il paese dovrebbe cumulare inverosimili avanzi primari, nell’ordine del 5-6% fino al 2030, partendo da un deficit fiscale del 6,5% nel 2010, per avere un debito netto intorno all’80% del Pil e uno lordo del 200%. Ma poiché le previsioni del Fmi parlano di un deficit aggiustato per il ciclo ancora del 5,5% nel 2015, “ogni scenario che preveda di arrivare al 2020 con un surplus primario del 6% è chiaramente non credibile”, sottolinea. Anzi, il Fmi stima che si arrivi al massimo a contenere il deficit al 4,1%. Tale situazione, in cui incombe la minaccia di un consolidamento fiscale, non è proprio l’ideale nel momento in cui si cerca di stimolare la domanda privata.
Dal lato monetario, il QQE giapponese ha portato la BoJ ad avere titoli di stato (JGBs) per un importo pari al 44% del Pil, e poiché la Banca centrale ha accelerato tali acquisti, si prevede che arriverà al 95% entro il 2017. “In teoria (la teoria del QE, ndr) questi bond saranno a un certo momento rivenduti al settore privato, ma non è credibile pensare che possa succedere nei prossimi cinque anni”, tanto più in tempi in cui si parla di estendere ancora il QQE giapponese, visto che l’inflazione è ancora bassa, la crescita stenta e l’unica cosa che si prevede in aumento sono i debiti.
“Potrebbe sembrare che la BoJ abbia finito le munizioni – scrive Adair – ma non è così visto che la banca può raccomandare al governo che parte o tutti i bond detenuti possano essere convertiti in nonredeemable non-interest-bearing”. In pratica in moneta.
Tale decisione, secondo Adair, non avrebbe conseguenze negative sulla solvency della BoJ, né sulla base monetaria, che comunque la BoJ sta già aumentando, e avrebbe effetti positivi di stimolo sulla domanda. Con la ciliegina sulla torta che il debito pubblico diminuirebbe anziché aumentare.
Ciò spiega le conclusioni dell’autore. La monetizzazione “è una politica senza dubbio tecnicamente fattibile e ci sono forti ragioni per credere che sarebbe desiderabile, e alcune variabili la rendono inevitabile: non ci sono strade credibili grazie ai quali il Giappone possa generare surplus fiscali sufficienti per ridurre i suoi debiti a un livello sostenibile. E se questo è inevitabile, sarebbe di sicuro meglio riconoscere questo fatto adesso e mettere in campo regole per arrivarci in maniera responsabile e non indisciplinata”.
Insomma, l’estremo giapponese e quello monetario potrebbero finire col coincidere. A tal proposito è utile ricordare ciò che J.K.Galbraith scrisse nella sua Storia dell’economia, ricordando la banca di emissione immaginata per sostenere la produzione da Proudhon “uno dei molti padri della grande e perdurante fede nella magia monetaria, ossia nella credenza che sia possibile compiere grandi riforme mediante interventi di manipolazione finanziaria o monetaria”. “Ci sono alcune lezioni economiche che non si imparano mai, fra cui quella che si possano risolvere grandi problemi sociali senza sacrifici (..) Gli ingegnosi progetti monetari e finanziari si rivelano infallibilmente inefficaci, quando non si tratti di frodi ai danni del pubblico che non di rado si ritorcono sugli stessi che li hanno concepiti”.
Ma non è fuori luogo ricordare anche ciò che scrisse J.M.Keynes nel suo A tract on monetary reform del 1923. Dopo aver discettato a lungo della tassa occulta che il governo può incassare manipolando l’emissione di moneta, l’economista inglese concluse che “non esiste un deficit fiscale che non sia coperto. Ciò che il governo spende, il pubblico paga”. Sicché, a ben vedere, la monetizzazione non è altro che un modo del governo di drenare risorse dalla collettività, senza che la collettività ne abbia contezza. O almeno non subito.
Il problema è che la saggezza dell’esperienza serve poco di fronte alle seduzioni della magia.
(2/fine)
L’evoluzione del QE: monetizzare i debiti
Poiché l’inimmaginabile è già accaduto – i vari QE e i tassi negativi – nessuno dovrebbe stupirsi che finisca con l’accadere ciò che molti hanno già immaginato. Ossia che per liquidare la montagna di debiti che abbiamo accumulato dal 2008, e che ormai sfiora il 270% del Pil mondiale, si decida di renderli palesemente eterni, trasformandoli in moneta, quest’ultima essendo il debito “perfetto”, che non genera interessi e non è redimibile.
E poiché gran parte di questa montagna di debiti è ormai nella pancia delle banche centrali, che cubano circa 22 trilioni di asset, sarebbe anche fin troppo facile riuscirci. Basta dirlo, e il gioco è fatto.
Penserete che come al solito divago, ma per una volta mi fate torto. Non ci avrei mai pensato se non mi fosse capitato un paper molto interessante di Adair Turner, dell’Institute for New Economic Thinking (“The Case for Monetary Finance – An Essentially Political Issue”) presentato nel corso della sedicesima Jacques Polak Annual Research Conference, che si è tenuta al Fmi il 5 e 6 novembre. Vale la pena sottolineare che l’appuntamento, dove si sono visti tutti i grossi calibri dell’economia internazionale, aveva per tema “Unconventional Monetary and Exchange Rate Policies”. Con ciò mostrandosi come i tempi straordinari che stiamo vivendo turbano i nostri policy maker almeno quanto turbano noi.
Che l’idea di monetizzare i debiti amorevolmente custoditi dalle banche centrali non sia un’ipotesi di scuola si evince già dall’epigrafe del paper, che riporta una citazione di Bernanke del 2003: “Considerate ad esempio un taglio di tasse per le famiglie e le imprese che sia esplicitamente accoppiato con un aumento degli acquisti di debito governativo da parte della Banca del Giappone. Questo taglio di tasse è in effetti finanziato dalla creazione di credito”.
La creazione di credito è quella roba misterica, ma in sostanza assai prosaica, che fa somigliare i nostri banchieri centrali a moderni Creso che tengono fra le mani la cornucopia dalla quale può sgorgare denaro a volontà e quindi la chiave della ricchezza senza sforzo. Che tale rappresentazione giovi a celare la sostanziale responsabilità del governo, visto che le banche centrali non vivono sulla Luna, nelle decisioni finali sul credito è un’utile finzione che giova ai banchieri centrali, che ne trovano di che alimentare il loro rispettabilissimo ego, e dei governi, che così annacquano i loro debiti e si liberano dalla responsabilità che ne consegue. E purtroppo l’esperienza non ci ha ancora insegnato, malgrado numerosi e diversi esempi, che alla fine il conto toccherà pagarlo comunque.
Detto ciò, poiché c’è sempre molto da imparare, è bene leggere questa cinquantina di pagine che hanno il grande vantaggio di spiegare bene cosa significhi monetizzazione del debito, come ci si possa arrivare, e quale siano i rischi che tale operazione porta con sé.
La “monetary finance”, che ho tradotto con monetizzazione del debito, viene definita come la creazione di un deficit fiscale che non è finanziata con l’emissione di debito che deve essere servito – segnatamente un bond – ma con l’aumento della base monetaria, “ossia con debiti monetari non redimibili e senza interessi del governo/central bank (nb: l’associazione governo/central bank non è mia)”.
Questa sostituzione di debito con moneta, che è debito anch’essa ma di natura peculiare, è perfettamente coerente con lo spirito del tempo, ormai uso a scambiare debito con altri debiti. In più ha il vantaggio che può far contenta un sacco di gente oggi infelice. “Può riguardare sia un taglio di tasse che un aumento di spese che senza (monetizzazione, ndr) non sarebbero possibili – spiega – e può essere fatta una volta sola o più volte con la creazione di depositi anziché moneta cartacea”.
Turner ci spiega che “ci sono vari modi attraverso i quali la moneta può essere creata”. Ad esempio creando credito nel conto corrente del governo che quest’ultimo ha presso la banca centrale o presso banche commerciali, oppure il governo emette debito che la banca centrale compra e converte in asset senza interessi non redimibili. Oppure il governo emette debito che la banca centrale compra e che diventa oggetto di un roll over permamente, restituendo al governo come suo profitto gli interessi che quest’ultimo le paga sui debiti”. Cosa che peraltro già avviene nei vari QE. “In questo caso la banca centrale deve credibilmente assicurare che continuerà con questa politica”. Ma aldilà delle diversa tecnicalità, le conseguenze sono le stesse: il bilancio della banca centrale e quello del governo finiscono col corrispondere, aumenta la base monetaria e, soprattutto, il governo sarà in grado di diminuire le tasse o aumentare le spese senza doversi caricare debiti sui quali sarà chiamato a pagare interessi o dovrà redimere il valore capitale della moneta creata.
Di fronte a questo Bengondi non si capisce cosa stiamo aspettando. O meglio, perchè, visto che la differenza sostanziale fra il QE e la monetizzazione del debito è che il primo è reversibile (i bond pubblici possono essere rivenduti ai privati) e il secondo no. Il primo aumenta temporaneamente la base monetaria, e a volte anche il deficit e il debito, il secondo permanentemente. Ho il sospetto che tali pudori verranno facilmente dimenticati una volta che i decisori penseranno di non aver più scelta. “non ci sono ragioni tecniche per escludere la monetary finance”, spiega il paper. E chissà perché mi fischiano le orecchie.
E se non ci sono motivi tecnici ostativi, come argomenta il nostro autore, allora risulta chiaro che le uniche possibile ragioni contrarie sono di natura politica. Il problema infatti è che “la monetary finance rilassi i vincoli di bilancio finendo col creare rischi politici”, insomma: si rischia di esagerare. Una volta scoperta la cornucopia, cosa impedirebbe ai governi di farne l’uso che ne ritengono appropriato?
Il paper ricorda che proprio per evitare tali esagerazioni alcune banche centrali, a cominciare dalla Bce, hanno negli statuti in divieto di finanziare i governi mentre per le altre “è stato considerato come un tabù”. “Il problema centrale quindi – argomenta – è se siamo capaci di di disegnare un set di regole che ci consentano di ottenere i vantaggi tecnici derivanti dalla monetary finance evitando i rischi di misure eccessive”.
Ed è in questa ricerca, che mi sembra disperata, del metodo per avere la botte piena e la moglie ubriaca che intravedo l’incipiente declino della finanza occidentale.
(1/segue)