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La tentazione inconfessabile di far sparire i debiti
Prima o poi, una volta che l’emergenza pandemia finirà – perché finirà – e dopo aver notato l’enorme quantità di obbligazioni che siamo stati costretti ad accollarci per pagarne il conto, ci troveremo a dover fare i conti e decidere che farci con tutti questi debiti.
Già oggi qualche voce isolata ci ricorda che a furia di spese di emergenza l’emergenza sarà questa quantità di spese, che originano non solo obblighi, ma anche diverse aspettative che finiscono inevitabilmente col condizionare il comportamento degli agenti economici. Ne abbiamo parlato più volte ed è inutile tornarci sopra.
Più interessante, perché seducente per molti (a cominciare dai politici) l’idea che questo debito possa semplicemente sparire in virtù di una qualche magia per evocare la quale si scomoda, in maniera più o meno fumosa per non dire confusa, la cassetta degli attrezzi del central banking, per la semplice ragione che oggi molta parte di questa straordinaria crescita di debiti risieda nei bilanci della banche centrali.
Peraltro, questo gonfiarsi dei bilanci delle banche centrali, avvenuto nel corso dell’ultimo decennio, è previsto non solo proseguire, ma anche aumentare di intensità.
In queste condizioni è del tutto fisiologico che ci si interroghi non solo sulle conseguenze economiche di queste obbligazioni, ma anche sugli esiti che possono produrre anche sulle banche centrali.
Questo interrogarsi è molto istruttivo e consente di spaziare fra punti di vista che oscillano fra quelli più naiv – del tipo questi debiti non esistono e basta cancellarli dal bilancio della banca centrale – a quelli più sofisticati che individuano in una combinazione di repressione finanziaria e inflazione – classicamente la ricetta degli ultimi due dopoguerra – la soluzione per farli sparire senza troppi dolori.
Prima di dare una rapida occhiata a queste congetture, vale la pena sottolineare ciò che l’ultimo decennio di crescita compulsiva di debito ci ha insegnato: le società tendono a sviluppare una tolleranza crescente – per non dire resilienza – all’aumento dell’indebitamento pure se al costo di un crescente irrigidirsi del sistema economico. La crisi del 2008 ci ha regalato economie più regolamentate, dove la presenza dello stato è cresciuta significativamente. Non c’è ragione perché la crisi Covid non prosegua lungo questo cammino, come conferma l’uso retorico della metafora guerresca.
Ciò per dire che per semplice effetto di trascinamento si proverà a rinnovarli, questi debiti, finché il mercato lo consentirà. Una eventuale Fase 2 nella gestione del debito inizierà solo se il mercato dovesse iniziare a dare segnali di non essere più in grado di sostenere le emissioni crescenti di debito, con le banche centrali – si pensi alle ultime dichiarazioni della BoJ – di fatto compratrici di ultima istanza.
Sarà a questo punto che la tentazione di far sparire questi debiti con la bacchetta magica diverrà irresistibile. Si parla già di monetizzazione, ma bisogna capire bene di cosa si parla quando ne parliamo.
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I tassi bassi? Dipendono anche dal fisco
Un paper molto interessante pubblicato dal NBER, (“Are interest rates really low?”) solleva una questione usualmente poco considerata nei ragionamenti degli esperti sul livello dei tassi di interesse, ossia l’influenza che la politica fiscale ha sul rendimento delle obbligazioni, a cominciare dai titoli di stato. Usualmente siamo abituati a calcolare i rendimenti (yield) depurando il tasso di inflazione dal tasso nominale. O almeno questa è la congettura alla base di gran parte della modellistica che sussume le decisioni di politica monetaria e le analisi dei policy maker. Non si tiene conto, vale a dire, dell’influenza che la tassazione ha sui rendimenti effettivi che vanno in tasca ai creditori.
La questione non è di poco conto. Trascurare gli effetti del fisco sui rendimenti rischia di falsare l’analisi dell’efficacia delle decisioni di politica monetaria. Se la banca centrale tiene i tassi a un certo livello, tentando di “indovinare” il tasso naturale di interesse, che come sappiamo è una congettura utile a stimare il livello di attività dell’economia, ma i suoi modelli non tengono conto dell’effetto della tassazione sui rendimenti, si possono fraintendere i segnali che arrivano dal mercato, che al contrario tiene conto dei rendimenti più che del livello dei tassi, e quindi fare scelte di policy errate. E soprattutto si rischia di avere una percezione falsata del livello effettivo dei tassi.
Gli autori insistono proprio su questo punto. “Contrariamente alla comune percezione – scrivono – gli investitori obbligazionari non hanno subito tassi di interesse inusualmente bassi durante e dopo la grande recessione del 2008. Ciò in quanto gli investitori tassabili (non tutti lo sono, ndr) devono pagare le tasse sui rendimenti nominali, prima che l’inflazione riduca i loro guadagni reali sul tasso di interesse”. I calcoli degli autori mostrano che i Treasury Usa a lungo termine “non sono stati meno attrattivi per gli investitori tassabili nel 2016 rispetto al 2006”. Tutt’altro. Nel 2016, infatti, il rendimento reale dopo le tasse è stato dell’1% a fronte dello 0,5% del 2006. Quindi non è neanche vero, come siamo portati a credere, che i rendimenti siano inusualmente bassi. Nel 1976 erano addirittura negativi per l’1,7%, erano allo 0,6% nel 1966 e addirittura allo 0,8% nel 1956. I rendimenti del 2016 sono bassi rispetto al 2,4% del 1996 e al 2,9% del 1986. Ma come si vede l’idea corrente che oggi i tassi siano a livello inusualmente basso “sembra esagerata”.
Questa esagerazione, che appartiene sicuramente al sentire comune di tanti di noi, certo non incanta gli investitori più sofisticati, osservano gli autori, e questo scardina un altro luogo comune assai diffuso nel nostro discorrere, ossia che il livello basso dei tassi generi quella “fame di rendimento” che spinge gli investitori a rischiare di più. Il “search for yield”, come si chiama, esiste di sicuro. Ma non è più pressante di quanto sia stato in passato. Dovremo trovare altrove i segnali dell’eccezionalità del nostro tempo. Uno ce lo suggerisce il governatore della banca di Spagna, che qualche giorno fa ha parlato delle sfide di fronte alle quali si trovano le banche centrali. Le BC hanno moltiplicato per quattro, nel caso del Giappone addirittura per cinque il proprio bilancio, che ormai pesa il 40% del pil dell’eurozona per la Bce (4,4 trilioni di euro), il 24% del pil per la Fed (4,4 trilioni di dollari) e quasi il 100% del pil per il Giappone (5,2 trilioni di yen). Questo, a differenza dei tassi bassi, è una novità assoluta.


