Etichettato: convertibilità yuan
Le banche cinesi hanno (almeno) 1,3 trilioni di crediti a rischio
Le notizie che arrivano dal fronte orientale sembrano fatte apposta per spaventare i militi ignoti di questa guerra, combattuta sotto mentite spoglie, che da oltre un settennio sfianca le economie mondiali. Già provati dai saliscendi di borsa, che non hanno altra ragione a parte i mal di testa e le gastriti degli operatori, costoro – i combattenti in grisaglie – devono vedersela con il Fondo monetario che ha rilasciato il Global Financial Stability report primaverile che sembra scritto apposta per regalare a loro e a noi una sovraddose d’ansia, come se ne fossimo digiuni.
E poiché è dal fronte orientale che arrivano le notizie più preoccupanti è giocoforza puntare laggiù la nostra attenzione. Anche perché c’è un problema bello grosso che si chiama Cina, già protagonista del meraviglioso film che ci ha impegnato lungo l’estate del 2015 e che adesso ci si ripropone in salsa di maggio, quindi più fresca ma sostanzialmente stantia.
Della Cina sappiamo già tutto quello che c’è da sapere. Per non annoiarvi evito di ripeterlo, ricordando solo l’ultima release del mainstream: la Cina sta transitando da un modello di sviluppo, basato su debito e investimenti più o meno pubblici, a un altro, bastato stavolta su riforme strutturali e mercato interno. Le prime sono innanzitutto finanziarie, perché la Cina deve entrare a pieno titolo nel grande gioco della finanza, e la graziosa assistenza del Fmi è asseverata dalla recente riforma delle quote e dall’inserimento della valuta cinese nel basket degli Sdr. Ma certo non basta. Ci sono riforme profonde che la Cina deve mettere in campo per arrivare al sacro graal: la piena convertibilità dello yuan.
E poi ci sono le questioni interne. Nell’amletico interrogativo se quello cinese sarà un soft landing o un hard landing, con tutte le conseguenze del caso per l’Asia e il resto del mondo, rimangono in questione alcune specificità cinesi che nascondono enormi problemi. Prima fra tutte l’incredibile montagna di debiti che i cinesi hanno accumulato, in particolare nel settore corporate.
Quest’ultimo è quello ove la bolla del credito ha più che altrove sortito i suoi effetti, conducendo le imprese cinesi a sommare una quantità di debito privato notevolissima che adesso, per una serie di ragioni, faticano anche a servire. In sostanza è sempre più difficile riuscire a pagarci gli interessi.
Dall’approfondimento che il Fmi ha dedicato al debito corporate cinese si possono apprendere alcune cose che è utile ricordare. La ricognizione ha riguardato 2.861 imprese, 2.607 quotate e 264 no. Insieme hanno accumulato prestiti per 2.775 miliardi di dollari. Scopo dell’analisi è osservare quanta parte di questo debito sia a rischio, laddove per debito a rischio si intende un’obbligazione iscritta nei bilanci di un’azienda che abbia generato un flusso di profitti netti insufficienti a coprire la spesa del servizio di queste obbligazioni. Per dirla con i tecnici, queste imprese hanno un Interest coverage ratio (ICR) minore di 1.
L’analisi del Fmi si propone di calcolare quanto pesi l’ammontare preso a prestito dalle imprese con un ICR minore di 1 sul totale delle compagnie esaminate, in maniera tale da trarne un indicatore che misuri la quantità di debito a rischio per il campione considerato. Ciò consente anche di valutare la quantità di credito a rischio che il sistema bancario ha concesso al settore corporate.
I risultati sono alquanto ansiogeni. Un grafico mostra la notevole impennata dei debiti a rischio negli ultimi anni, mentre la comparazione di tale indice con l’universo dei prestiti totali concessi dalle banche commerciali al settore corporate cinese, pari a 8,1 trilioni, ci dice che la perdita potenziale su questi crediti, alla fine del 2015, è stimabile in 1,3 trilioni di dollari.
L’ansia rischia di degenerare se si considera che i prestiti bancari al settore corporate non sono stati l’unica fonte di indebitamento per le imprese cinesi. Quindi non vengono considerati i prestiti arrivati dal settore bancario ombra, che in Cina è fiorente. Tantomeno sono considerati i prestiti arrivati dai veicoli governativi garantiti dallo stato.
Lo scenario base che il Fondo ipotizza in caso di stress considera una perdita del 60% su questi crediti, che pesa 756 miliardi di dollari, pari al 6,9% del Pil, che possono oscillare in un intervallo di deviazione maggiore o inferiore del 15% a seconda della gravità dell’evento traumatico. In ogni caso parliamo di centinaia di miliardi di dollari che andrebbero in fumo.
Nessuna buona nuova, dal fronte orientale.
Il fiato del Drago capitalista sul collo dell’economia cinese
Se vorrà salvarsi, la Cina dovrà diventare capitalista, ma sul serio, dicono più o meno esplicitamente le varie banche centrali, ultima in ordine di apparizione la nostra Bce. Dovrà finirla col capitalismo di stato e affidarsi alla magia autoregolantesi dei mercati finanziari, liberalizzando il suo conto capitale e rendendo finalmente convertibile il renminbi. Pure a costo di qualche rischio, ché si sa quanto sia periglioso affidarsi alla turbolenza del turbocapitalismo.
E tuttavia prima o poi dovranno cedere i cinesi. Già, perché l’economia arranca, e ormai nessuno si aspetta più la crescita a doppia cifra della prima metà del XXI secolo.
Gli ultimi dati diffusi da Pechino ci dicono che il prodotto, nel 2013, è cresciuto del del 7,7%, lo 0,1% in meno rispetto al 2012. Percentuali invidiabili, per lo stanco Occidente, ma certo ben al di sotto degli standard ai quali ci aveva abituato la Cina a vecchi tempi.
Le previsioni, peraltro, dicono che tale rallentamento non è un fatto casuale. Non dipende, o almeno, non esclusivamente, dalla congiuntura. Il gigante asiatico, semplicemente, ha mostrato i suoi piedi d’argilla di una crescita prima trainata dall’export, finita nel tritacarne della crisi internazionale, e poi dagli investimenti pubblici, che tuttora sfiorano il 50% del Pil cinese, con tutte le distorsioni che ciò provoca sull’economia reale.
Per finanziare questi investimenti, infatti, le banche hanno praticamente “tassato” il risparmio privato, altissimo in Cina, remunerandolo con tassi amministrati, e spostando di fatto una quota rilevante di ricchezza dai risparmitori alle imprese. Ciò ha determinato, e determina tuttora, che i consumi privati rimangano bassi, malgrado ormai appaiano come l’unica strada percorribile per restituire alla crescita cinese un minimo di slancio.
Allo stesso tempo ha concesso alle banche di fare profitti a due cifre, negli ultimi anni, alimentando una inflazione del credito che ormai ha le preoccupanti fattezze di una bolla. Peraltro celata dalla pratica di far indebitare veicoli parapubblici per fare investimenti infrastrutturali. Ma adesso questa bonanza è terminata. Il Finacial Times ha riportato che quest’anno i profitti delle banche cinesi cresceranno meno del 10%, visto che i risparmiatori stanno iniziando a poter contare su forme alternative di investimento finanziario. E il calo di redditività delle banche, che sono pubbliche, può avere effetti preoccupanti sulla stabilità finanziaria cinese.
Non è un caso perciò se le migliori intelligenze si esercitino sul destino cinese, siano essi economisti o banchieri centrali. Già la BoE, qualche settimana fa, e adesso anche la Bce, nel suo ultimo bollettino mensile, arrivano a una conclusione simile: se la Cina vorrà superare gli squilibri strutturali di cui soffre, dovrà attrezzarsi presto e bene e liberalizzare il suo conto capitale, internazionalizzando sul serio il renminbi.
La cura del male cinese, insomma, passa per un sano bagno di capitalismo finanziario internazionale. La Cina dovrà lentamente abbattere la grande muraglia eretta a difesa del suo conto capitale (dopo aver già liberalizzato in gran parte il conto corrente) per consentire al grande Drago capitalista di svolgere la sua azione risanatrice.
Questo almeno pensano i banchieri centrali.
Per capire le ragioni di questa conclusione, però, serve illustrare il punto di partenza.
Il boom della Cina degli ultimi dieci anni, scrive la Bce, nasconde profonde squilibri che sono insieme esterni – i surplus di conto corrente – e interni. In particolare la quota crescente di investimenti pubblici sul Pil e l’espansione de credito che ha finito col creare una notevole montagna di debiti in capo agli enti locali, celata dall’uso di veicoli di investimento sussidiati dalle banche (pubbliche) cinesi.
Se guardiamo la composizione del Pil dal 1999 al 2013 notiamo che gli investimenti hanno oscurato i consumi nel ruolo di driver della crescita. Le esportazioni nette hanno fatto la loro apparizione nel 2000, ma nel 2003 sono sempre gli investimenti pubblici a giustificare circa i due terzi della crescita cinese. Negli anni del boom, quando il Pil superava il 10% (il 14,2% nel 2007), l’export netto si osserva in rapida crescita, ma già dal 2008, quando esplode la crisi finanziaria, l’export netto sparisce e, nel 2009, la contribuzione diventa addirittura negativa.
E’ in quel periodo che viene varato il maxi piano di stimolo per sussidiare la crescita, che porta gli investimenti pubblici ad essere i grandi protagonisti dello sviluppo cinese. L’avanzo corrente cinese, infatti, crolla dal 10,2% del Pil (nel 2007) al 2% dei primi due trimestri del 2013. E anche le previsioni vedono tale avanzo corrente al più intorno al 4% nel 2018. L’epoca della Cina grande esportatrice ed accumulatrice di riserve, triplicate fra il 2000 e il 2009 dal 14 al 48% del Pil, ma ormai intorno al 41% (circa 3.7000 miliardi) sembra perciò essere terminata.
Quale sarà, di conseguenza, il modello di sviluppo del futuro?
Il livello già esagerato di investimenti pubblici, al 46,1% del Pil nel 2012, rende poco praticabile per i cinesi continuare su questa strada. Anche perché questo boom di investimenti è stato nutrito con un crescente utilizzo del credito: dal 2007 al 2013 le banche (pubbliche) hanno erogato all’economia risorse passate dal 113 al 182% del Pil. “Questo grado di leva finanziaria – scrive la Bce – è molto superiore a quello di altri paesi con un livello analogo di sviluppo e trova riscontri solo in economie ad alto reddito come gli Stati Uniti e il Regno Unito”.
Il fatto che questa enorme mole di debito pubblico, in capo alle amministrazioni locali, non figuri nelle statistiche del debito governativo non vuol dire che non pesi circa il 27% del Pil (dato 2010) e che non debba in qualche modo essere ripagato.
Perciò, tolto l’export (ormai declinante) e gli investimenti (sin troppo crescenti) non rimane che il consumo interno, con tutti i problemi che ciò comporta in un paese come la Cina, dove “gli incentivi che favoriscono gli investimenti rispetto ai consumi sono al centro del modello di sviluppo cinese fin dal 1978”, come nota la Bce.
Senonché, e qui arriviamo al punto, tale modello privilegia gli investimenti interni, mentre limita notevolmente quelli transfrontalieri. I risparmiatori cinesi non possono investire all’estero, né possono contare su mercati finanziari interni sviluppati. Quindi finisce che il risparmio cinese, fra i più alti del mondo, finisce col travasarsi laddove è possibile. Ad esempio sul mercato immobiliare, che infatti è più che surriscaldato.
L’alternativa richiederebbe ciò che finora non è possibile: ossia che i cinesi possano detenere attività all’estero. Il Fmi calcola che una liberalizzazione dei movimenti di capitale condurrebbe a un aumento degli attivi cinesi esteri nell’ordine del 15-25% del Pil e di attivi esteri in Cina fra il 2 e il10% del Pil. Ciò condurrebbe a un travaso delle risorse di investimento dall’interno all’esterno, che finirebbe col diminuire il contributo degli investimenti sul Pil.
La liberalizzazione dei capitali, quindi, servirebbe a riequilibrare verso l’esterno il flusso degli investimenti cinesi per consentire un aumento del peso relativo dei consumi sul Pil, favoriti anche dai maggiori profitti che una diversa allocazione (estera) dei rispami potrebbe garantire ai cittadini cinesi. Circostanze al momento non incoraggiate dall’attuale politica seguita dal governo sui tassi di interessi. I risparmiatori cinesi, infatti, subiscono “un considerevole trasferimento forzato dalle famiglie alle imprese, stimato al 4 per cento del PIL nel 2008, che deprime i redditi e pertanto i consumi” proprio a causa dei tassi amministrati sui depositi.
Per quest’insieme di ragioni, la Bce auspica un insieme di riforme strutturali al fine di “riflettere correttamente il costo del capitale”. Detto in altre parole, alla Cina serve una sana iniezione di capitalismo finanziario che permetta “in misura crescente a individui e imprese private di prendere decisioni di natura economica”. Ciò comporta necessariamente la piena liberalizzazione del conto capitale e la piena convertibilità dello yuan.
Non che i cinesi non lo sappiano. Il governo cinese ne parla da tempo. Ma ben conosce, al tempo stesso, le “insidie”, come le chiama la Bce, celate dal miraggio dell’ingresso in grande stile nel mercato dei capitali. “In molte economia emergenti – sottolinea la Bce – questo tipo di iniziative di liberalizzazione ha provocato crisi bancari e valutarie”. E la Cina per adesso, bravissima a crearsi le sue crisi bancarie da sola, non sembra aver bisogno di altri rischi.
E tuttavia tale strada sembra ineludibile. La Cina, si potrebbe dire, è vittima del suo successo. Tanto che oggi la si invita a entrare nel Grande Gioco del capitale – che altro vuol dire liberalizzare moneta e capitali? – adducendo la promessa di una crescita più sostenibile, dopo che per anni la sua crescita è stata presa come esempio dai paesi occidentali.
Negli ultimi tempi la Cina ha fatto notevoli passi in avanti, anche se finora limitati. Ormai circa il 10% delle sue transazioni estere, per lo più con altri paesi asiatici, è regolata in yuan, e sono cresciute anche le emissioni di obbligazioni denominate in renminbi (Dim Sum) a Hong Kong, ma anche in alcune piazze come Singapore, Londra e Taiwan. Si calcola che tali emissioni abbiano raggiunto quota 60 miliardi di dollari nel primo trimestre 2013. Qualche banca centrale ha pure iniziato a usare il renminbi come valuta di riserva, ma ancora con forti limitazioni provocate dalla circostanza della sua inconvertibilità.
Alla ancora limitata “potabilità” esterna della moneta cinese corrisponde peraltro un debole sviluppo dei mercati finanziari interni. Il governo ha previsto di riformare sostanzialmente i propri mercati finanziari entro il 2015, prevedendo, ad esempio, un maggior ruolo del mercato nella fissazione dei tassi d’interesse, ma ancora siamo lontani da un’efficienza di tali mercati tale da “generare una domanda internazionale consistente di strumenti finanziari denominati in renminbi”.
Difficile capire, conclude la Bce, quale sarà il futuro di questa moneta. Avere sul collo il fiato del Drago capitalista, che spinge i cinesi a entrare nel grande gioco, (il renminbi può diventare una divisa internazionale importante”, scrive la Bce) porta con sé una strana considerazione finale: “La possibilità per la moneta cinese di acquisire lo status di importante valuta internazionale dipenderà dalla misura in cui saranno le forze di mercato più che l’intervento dello Stato a determinare lo sviluppo economico della Cina”.
Io non ce li vedo i cinesi a subire la market discipline.
Non so voi.
