Etichettato: cooperazione internazionale
Verso la globalizzazione 2.0
Il fenomeno ormai è talmente visibile che nessuno prova neanche più a minimizzarlo: l’idea stessa della globalizzazione, prima ancora delle pratiche che la incarnano, è definitivamente entrata in crisi nel mondo dopo il 2008. La cronaca si incarica di confermare queste evidenza praticamente ogni giorno. Da ultima l’Ocse, pochi giorni fa, ha elaborato l’ennesimo rapporto che evidenzia il sostanziale regresso del commercio internazionale, ossia una delle costituenti della globalizzazione, mentre l’altra, la libera circolazione dei capitali, viene seriamente questionata da osservatori insospettabili e blasonati.
Comprensibile che molti si stiano ponendo il problema di invertire questa tendenza verso la disgregrazione provando a immaginare una nuova evoluzione del concetto di globalizzazione che sia in qualche modo ulteriore rispetto a quella che abbiamo visto sinora. Una globalizzazione 2.0, per usare la dizione che Benoit Couré, componente del board della Bce ha recentemente utilizzato in uno speech recitato a margine di una conferenza a Parigi da titolo di per sé assai eloquente: “Rethinking Capital Controls and Capital Flows“.
Diventa perciò interessante leggere l’opinione di Couré, che in qualche modo sommarizza pensieri e preoccupazioni di tutto un mondo che la globalizzazione ha promosso e voluto e che adesso si trova a doverne gestire le conseguenze non previste. “La crescita della globalizzazione – ricorda – è un fenomeno che ha caratterizzato gli ultimi 30 anni e che all’indomani della crisi è entrata in stallo”. Non è ancora chiaro, dice, “se i recenti episodi caratterizzino una nuova era di minore integrazione, segnalando l’inizio di un trend di deglobalizzazione, o se sia semplicemente una pausa”. Ma rimane il fatto che il consenso prevalente fra gli economisti e le organizzazioni internazionali, per lungo tempo, fosse sulla circostanza che “la globalizzazione finanziaria fosse desiderabile”. A differenza di allora, adesso gli stessi sostenitori riconoscono che in presenza di mercati imperfetti e pratiche regolatorie inadeguate “gli afflussi di capitale alimentano costosi cicli di boom e bust” che finiscono col danneggiare l’economia.
La soluzione allora è tornare ai controlli di capitale? “Credo – risponde – che ridurre l’integrazione finanziaria riduce i sintomi, senza però risolvere il problema alla radice. Peggio ancora, il rimedio del protezionismo finanziario a, proprio come quello del protezionismo commerciale, genera effetti avversi che riducono la crescita potenziale. Per questa ragione non serve una deglobalizzazione, ma una globalizzazione 2.0”.
Questa nuova globalizzazioni dovrebbe declinarsi lungo tre parole d’ordine: “Efficient, enduring ed equitable”, che potremmo tradurre con efficace, resiliente ed equa. Le tre E della globalizzazione 2.0. In teoria sembra tutto molto semplice. Avere una globalizzazione finanziaria efficiente vuol dire favorire i flussi di capitale che si indirizzano verso usi produttivi, piuttosto che su strumenti che favoriscono i boom e i bust. Renderla resiliente significa monitorare questi flussi e avere la capacità di modificarli, se necessario. Infine, equità va intesa nel senso di evitare che abbiano effetti distributivi non desiderabili, che finiscano ad esempio con l’aumentare la diseguaglianza. In pratica, tutto il contrario di quanto è avvenuto finora.
Rimane da chiedersi se il fatto che i nostri massimi decisori abbiano raggiunto questa consapevolezza voglia dire pure che siano in grado di fare tutto ciò che è necessario, per citare il vecchio brocardo di Mario Draghi. E soprattutto se dispongono degli strumenti per riuscire. Couré ricorda le misure di gestione dei flussi di capitale (capital flow management measures CFMs), che includono anche un più stringente uso della regolazione finanziaria, già all’indomani della crisi utilizzati dai vari policy maker. Gli stessi che oggi guardano più benignamente all’ipotesi di restrizioni temporanee ai flussi di capitale.
L’utilizzo di queste pratiche, dice Couré, ha condotto a una diminuzione dei flussi bancari transfrontalieri, anche se è lecito domandarsi se a tale effetto non abbiano contribuito le crisi di fiducia assai più delle misura di contenimento della varie autorità. In ogni caso è apparso chiaro che la globalizzazione finanziaria somigliava poco al magnifico film che nei primi anni 2000 veniva proiettato in ogni dove. Più che un romanzo rosa a lieto fine, somigliava a un film horror a finale aperto.
E così arriviamo ad oggi. Queste autorità, se vorranno ancora avere un senso politico – e la Bce che da almeno due anni lotta con poco successo contro un’inflazione azzerata è fra queste – dovranno essere in grado, oltre a proporre una nuova narrazione, e in fondo questa è la globalizzazione 2.0 – di sviluppare una nuova azione, i cui contorni finora sono appena delineati. La retorica delle tre E (efficient, enduring ed equitable) può andar bene per i titoli dei giornali, ma rischia di rimanere lettera morta. Ciò in quanto alla base di questa nuova visione ci sta la capacità dei singoli paesi di “migliorare la loro capacità di assorbimento”. Che somiglia molto al vecchio concetto di tenere la casa in ordine. “Nell’eurozona in particolare – osserva – le riforme strutturali devono supportare la crescita e migliorarne il potenziale, e questo può succedere solo allocando il capitale nei settori più produttivi. Un ragionamento simile può essere fatto a livello globale, con la differenza che il contesto istituzionale può essere migliorato prima che i flussi finanziari siano liberalizzati”.
Il secondo passo è migliorare la qualità dei flussi di capitale, favorendo quelli a lungo termine, che si immaginano produttivi, invece di quelli a breve termine, che si sospettano speculativi. Ma questo, come sa chiunque abbia conoscenza della storia, è un tema vecchio e mai risolto. Se ne parlava già all’inizio degli anni ’30, e si replicava alla fine dei cinquanta, quando le monete europee divennero convertibili. Oggi, a differenza di allora, si immaginano soluzioni tecniche nuove. Couré, ad esempio, si domanda se non sia il caso di promuovere, tramite le istituzioni internazionali, dei bond indicizzati al tasso di crescita, di cui hanno discusso nel febbraio scorso gli economisti del PIIE. In sostanza si tratta di scambiare flussi di capitale “buoni” con flussi “cattivi”. Ciò per far comprendere che non è il flusso in sé il problema, ma il tipo di flusso che si fa circolare.
Infine, bisogna vigilare per garantire l’equità, altro grande tema che ormai getta benzina sul fuoco che sta consumando la globalizzazione. Piaccia o meno, molte opinioni pubbliche sono convinte che la globalizzazione abbia nuociuto loro, e questo alimenta la voglia di de-globalizzare. A monte del fatto ci sta la constatazione. che Couré non ha difficoltà a riconoscere, che “apertura del commercio e globalizzazione finanziaria sono interconnesse”. Quest’ultima ha reso molto facile a molte multinazionali “di spostare i propri profitti nei paesi a bassa tassazione e agli individui più ricchi di spostare fondi non dichiarati in conti bancari nei paesi off shore”. “Di conseguenza – sottolinea – i paesi hanno visto erosa la loro base di tassazione e hanno avuto meno risorse a disposizione per redistribuire i guadagni che sono derivati dall’integrazione dei commerci”. Anche qui, la soluzione è la cooperazione internazionale.
A ben vedere, quindi, la globalizzazione 2.0 si fonda su un ruolo rafforzato e raffinato degli organismi internazionali, ossia esattamente il contrario di ciò che la vulgata della deglobalizzazione vuole perseguire. Quest’ultima vuole lasciare, i primi vogliono raddoppiare: chi la spunterà? Si accettano scommesse.
La pagliuzza greca e la trave del sistema monetario
Preoccupati come siamo dall’infinità di pagliuzze che ci accecano, non riusciamo a scorgere all’orizzonte la trave del sistema monetario internazionale, o sarebbe meglio dire come ha notato qualcuno, del non sistema monetario internazionale, che poi è la trave incrinata sulla quale poggia il sistema finanziario globale.
Per quanto ormai si riconosca malfunzionante e pericolante, questo non-sistema, la comunità internazionale, a cominciare dall’azionista di maggioranza, esita ad addivenire a una composizione, confermando con ciò la prassi che serva sempre un evento traumatico per convincere le persone di buona volontà a mettersi attorno a un tavolo e decidere.
Il caso greco, in tal senso, ne è esempio chiaro. Il caos post referendum una volta che la polvere si sarà posata, ci dirà se l’eurozona troverà la sua palingenesi o se sembra davvero destinata a una qualche forma di dissoluzione. Ma qualunque sia l’esito la vicenda greca un risultato l’ha già raggiunto: adesso la questione dovrà essere dibattuta sul serio, a livello sistemico, senza più pensare che basti allargare i cordoni della borsa perché le cose vadano a posto da sé.
Per il sistema monetario internazionale il discorso è simile. Malgrado sia fonte riconosciuta di squilibri, lo conferma anche la Bis che dedica al tema un approfondimento nel suo ultimo rapporto annuale, del sistema monetario non si parla perché la soluzione che è stata adottata è stata quella di annacquare i problemi con un diluvio di liquidità. Che poi alla lunga non ha fatto altro che esacerbare questi problemi.
Le banche centrali hanno sostanzialmente comprato tempo, arrivando ad cumulare asset superiori ai 22 trilioni, e portando i tassi a livelli mai così bassi nella storia, sperando che i paesi trovassero una soluzione di sistema. Cosa che non è accaduta. E temo anche solo ad immaginare cosa serva per convincere gli attori di questa tragica farsa a mettersi seduti a discutere per trovare una soluzione.
La diagnosi della Bis peraltro è chiara. Il sistema monetario internazionale (IMFS) è “incapace di di prevenire il formarsi di deficit di conto corrente insostenibili”, con i paesi in surplus “che non hanno incentivi a aggiustare il saldo mentre quelle in deficit sì”. A meno che non siano gli Usa, ovviamente. E tuttavia “gli squilibri di conto corrente sono stati al centro degli sforzi cooperativi del G20”.
Con pochi esiti, a quanto pare, visto che “il principale difetto degli accordi esistenti è che tendono ad aggravare le debolezze”. In particolare, nota la Bis, “il sistema tende ad aumentare il rischio di squilibri finanziari”, ossia boom creditizi, che poi hanno esiti negativi sulla produttività e a seguire sui salari, o degli asset che stressano i bilanci degli operatori, siano essi famiglie, stati o imprese, e finiscono col provocare gravi guasti macroeconomici.
Per arrivare a tale diagnosi, la Bis svolge un’accurata anamnesi analizzando le caratteristiche che compongono l’ossatura del sistema monetario e i suoi esiti principali. I punti principali sono tre: il peso del dollaro, con la sua straordinaria capacità di estendere i suoi effetti su tutto il globo, basti considerare (vedi grafico) che l’87% delle transazioni sul forex sono in dollari e il 62,9% delle riserve ufficiali pure; la limitata proprietà di isolamento dei tassi di cambio, che inducono i diversi paesi risposte politiche volte a evitare grandi differenziali di interesse nei confronti delle principali valute internazionali; le onde potenti generate dalla libera circolazione dei capitali e della liquidità globale, che superano i confini degli stati uniformando le condizioni globali della finanza.
Per dirla con le parole della Bis, “sistema monetario ha diffuso l’allentamento monetario e finanziario dal paese della valuta di riserva al resto del mondo, come ha fatto anche prima della crisi”. Che io traduco così: la politica finanziaria e monetaria americana, grazie alla libera circolazione dei capitali e alla titolarità di quella che di fatto se non di diritto è la moneta internazionale, decide di tutte le altre.
Ovviamente ci sono precise ragioni storiche che hanno determinato questa situazione che la Bis riassume efficacemente, ma che evito di ricordare perché ormai sono di dominio pubblico. Mi limito a sottolineare l’osservazione della Bis, che nota sorpresa come “l’avvento dell’euro e il trend di deprezzamento del dollaro iniziato nel 1970 non abbia materialmente cambiato il ruolo del dollaro come riserva di valore”. Per mancanza di alternative, come dice qualcuno. O forse perché non c’è alternativa agli Usa.
L’avvento dell’euro ha solo determinato che la Bce si è aggiunta al carro della Fed e adesso insieme, ma lascio voi decidere chi sia la vera locomotiva, “trasmettono le loro policy direttamente alle altre economie”. Come dato vi basti questo: il credito a prenditori non bancari denominato in dollari concesso fuori dagli Usa è arrivato a fine 2014 a 9,5 trilioni di dollari, quello europeo a 2,7 trilioni. Il che mi fa pensare a una forma riveduta e corretta del vecchio colonialismo ottocentesco.
Ciò che mi interessa di più raccontarvi è come la Bis immagini si possa arrivare a una soluzione.
Il primo punto che la Bis nota è che tenere la casa in ordine, dizione ormai comune che denota la capacità di un paese di non cumulare squilibri, siano essi fiscali o esteri, è un buon viatico per evitare i contagi. Il che sarà pure giusto, ma suona leggermente irrealistico: sfido chiunque a farlo quando girano così tanti soldi che cercano rendimenti e in una società che viene scientificamente addestrata al consumo compulsivo.
A tal fine le banche centrali, scrive la Bis, dovrebbero sempre più e meglio essere capaci di neutralizzare gli effetti di trascinamento del ciclo finanziario internazionale.
Pure, il buon senso nazionale poco può in mancanza di un coordinamento internazionale. “Muovere al di là del perseguimento illuminato del proprio interesse richiederebbe uno sforzo di cooperazione internazionale per fissare regole che vincolino le politiche interne”, scrive la Bis. e questo ci riporta al problema principale, che noi europei stiamo riscoprendo con la crisi greca: il conflitto fra le nazioni e gli organismi sovranazionali.
Rafforzare la cooperazione internazionale significa, volenti o nolenti, diminuire gli spazi di sovranità nazionale. Cosa che può anche riuscire quando si ha a che fare con piccole nazioni come quelle europee, e il caso greco dimostra che pure così non è detto che si riesca, ma che sembra vagamente illusorio quando ci sono di mezzo i banchieri del mondo.
Non a caso la Bis ricorda la linea di swap da 600 miliardi che la Fed concesse alle banche centrali partner all’esplodere della crisi, esempio di quel coordinamento, sempre a guida americano, che finora è il limite massimo raggiunto dalla cooperazione internazionale sul tema. E tuttavia anche questa pratica, qualora la si provi a trasformare in procedura codificata, incontra ostacoli.
L’idea di un prestatore globale di ultima istanza, ché questo poi è il significato del safety-net disegnato dalla Fed con gli swap, porterebbe il perimetro del sistema monetario fuori da dov’è, ossia dal non luogo a guida americana, e magari dalle parti del FMI, che comunque, in assenza di riforme delle quote, anch’essa bloccata dagli Usa, rimane un utile strumento anglo-americano e nulla più.
In assenza di prese di posizioni degli stati, visto che il gigante Usa tutto vuole tranne che cedere sovranità, restano solo le banche centrali a farsi interpreti della necessità della cooperazione. Ma questa non è una novità. La Bis, che ricorda “i successi della cooperazione internazionale nell’ambito della regolazione finanziaria e della supervisione” negli anni ’30 è stata costituita, oltre che per fare da agenti dei pagamenti tedeschi agli alleati, anche per promuovere questa cooperazione.
Ma per rifare il sistema monetario occorse una guerra. La cooperazione venne dopo.
