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La Bis e i predatori dell’ancora perduta
Se fosse la sceneggiatura di un film, l’ultimo speech di Claudio Borio, capo del dipartimento monetario della Bis, rilasciato in occasione di un recente convegno a Zurigo, racconterebbe di un’odissea: quella del sistema monetario e finanziario – e Borio ci tiene a sottolineare il finanziario – alla disperata ricerca di un’ancora capace di dare stabilità al grande vascello dell’economia internazionale.
In questo suo manifestarsi, erratico e caotico, l’International Monetary and Financial System (IMFS) attrae con forza crescente nugoli di predatori, che nelle sue fibrillazioni trovano nutrimento e stimolo per le loro scorrerie da corsari. In conseguenza di ciò aumentano gli spasmi globali: i flussi finanziari fanno contrarre ed estendere il sistema monetario come un gigantesco elastico attaccato al quale c’è il povero vascello di noi moderni Ulisse. E così l’ancora perduta, come la leggendaria Arca di Indiana Jones, diventa la ragione dei nostri tormenti contemporanei, scanditi dall’estrema volatilità e dal debito crescente. Per colmo di paradosso, una mancanza – l’ancora perduta – genera un’eccedenza – gli squilibri – mostrando ancora una volta che l’economia, come la natura, ha in orrido il vuoto.
Fuori di metafora, Borio ci racconta di un mondo dove una valuta – il dollaro americano – domina l’universo economico, creando evidenti “sfide al sistema monetario e finanziario”. Peraltro non è così pacifico che le tensioni diminuirebbero se ci fosse più pluralismo monetario. “La principale debolezza dell’IMFS è la sua incapacità di prevenire l’accumulo di squilibri finanziari estremamente dannosi, o cicli finanziari fuori misura, amplificando in tal modo le carenze nei sistemi nazionali”. Per dirla con le parole degli esperti, il sistema ha un “eccesso di elasticità finanziaria”. Proprio come un elastico si tende e poi, quando la tensione è eccessiva, torna indietro con violenza.
Per sanare questa distorsione servirebbero “forti ancore a livello nazionale e internazionale”, ossia sistemi di regole capaci di prevenire la formazione di questi squilibri. Ma prima ancora serve consapevolezza del problema. “E’ molto importante – dice Borio in conclusione della sua presentazione – raggiungere un consenso sulla diagnosi e le possibili soluzioni”. E anche su questo, come d’altronde su tutto il resto, c’è molta strada da fare.
Per arrivare a questa diagnosi comune bisogna partire dai fatti. Il primo da analizzare è la dominanza del dollaro. Questa si manifesta su tutti e tre i canali associati alla funzione tipica di una moneta: mezzo di scambio, unità di conto e riserva di valore. Alla fine del 2015, spiega Borio, “più del 60% della riserve ufficiali in valuta” erano detenute in dollari, “in calo dal 70% del 2000 e dal 75% del 1978”. Quindi i gestori di riserve nel tempo hanno diversificato, ma il dollaro si è dimostrato molto resiliente, visto che in quasi quarant’anni ha perso circa il 10%. Va notato che anche la quota dei crediti e i debiti denominati in dollari sul totale pesa circa il 60%, “evidenziando il suo ruolo chiave come valuta di funding”.
Il ruolo del dollaro come unità di conto negli scambi internazionali è più difficile da calcolare, ma utilizzando alcune tecniche statistiche, si può stimare che la “dollar zone” sello spazio globale pesi circa il 60% nel 2014, con l’euro distante a circa il 25%. “Per riepilogare – spiega – il dollaro è coinvolto in circa il 90% di tutte le transazione FX, pesa circa il 60% delle riserve e sui debiti e gli asset fuori dagli Stati Uniti”. E ciò spiega perché gli Usa siano in grado di influenzare notevolmente l’andamento dell’economia globale: “Il dollaro può non essere più da un pezzo il motore immobile di anni fa, ma è molto più di un primo fra eguali”, conclude.
Tale posizione di dominanza genera evidenti asimmetrie che nel tempo hanno generato una fiorente letteratura, dal dilemma di Triffin in poi, che è inutile riepilogare qui. Più interessante riportare le opinioni di Borio che fanno chiarezza su molti luoghi comuni. La prima è che “la versione popolare” secondo la quale il deficit di conto corrente Usa sia necessario per alimentare la liquidità internazionale “è ovviamente sbagliata”. “La liquidità in dollari può essere alimentata a volontà indipendentemente dalla situazione delle partite correnti Usa”. E questo accade tramite, ad esempio, il canale bancario o tramite la creazione di crediti in dollari fuori dagli Usa. “In effetti, quasi tre quarti del debito in dollari non bancario al di fuori degli Stati Uniti era detenuto da parte di residenti non statunitensi”.
Quanto alla posizione privilegiata del dollaro, “c’è chiaramente, ma non è ovvio che sia questa la radice del problema”. In un mondo a libera circolazione dei capitali, infatti, chiunque può prendere a prestito in una valuta diversa dalla propria. E questo ci riporta al famoso problema della perduta ancora di stabilità che deve essere nazionale e internazionale insieme. E quindi alla terza proposizione di Borio: il tallone d’Achille dell’IMFS è che amplifica le debolezze chiave domestiche. Quindi se ciò vale per tutti i paesi, figuriamo se non vale anche per gli Usa. La dominanza del dollaro, che già assicura notevoli sfide globali, viene amplificata dall’elastico finanziario veicolato dal sistema monetario. Ma è quest’ultimo la radice del problema, non la dominanza del dollaro, che semmai è un’aggravante generica. L’elasticità finanziaria, ossia quella caratteristica, che si è aggravata con la liberalizzazione del mercato dei capitali, di trasmettere con grandi rapidità gli squilibri interni al resto del mondo.
Perciò i paesi dovrebbero tenere la casa in ordine, come si diceva una volta, evitando di far crescere i propri squilibri interni. Ma al tempo stesso deve costruirsi anche una maggiore cooperazione internazionale, che diventa la seconda ancora del sistema. Ciò implica che all’interno come all’esterno si sia in grado di avere la capacità di comprendere i problemi per poter deliberare. E qui la questione si complica.
L’analisi economica, infatti, è ancora concentrata più sugli squilibri di conto corrente della bilancia dei pagamenti che sugli squilibri finanziari. Per cui si guarda al deficit del conto corrente, per individuare una fragilità, e meno al versante finanziario, ad esempio un boom creditizio o un rialzo anomale del mercato immobiliare. Eppure la storia, e Borio lo ricorda molto opportunamente, ci dice che all’epoca della crisi del ’29, gli Usa erano creditori sul versante del conto corrente, e al tempo stesso avevano accumulato notevoli squilibri finanziari, sotto la forma di inusitati boom creditizi. E gli attivi di conto corrente non salvarono gli Usa dal grande crollo. E ciò spiega perché Borio suggerisca che bisognerebbe stare attenti a pretendere politiche espansive da un paese creditore se lo stesso esibisce squilibri finanziari. Il caso del Giappone di fine anni ’80, creditore sulla parte corrente e assai squilibrato finanziariamente, è un altro esempio da ricordare.
Ed è su queste considerazioni che deve essere costruito il consenso. L’analisi del ciclo finanziario ci ricorda che “la banda elastica può essere stressata ancora, ma può tornare indietro più violentemente”. Il Giappone, peraltro, ancora non si è ripreso.
Le soluzioni perciò sono complesse e la correttezza dell’analisi può aiutare a identificarle. La ricerca dell’ancora perduta passa dalla costruzione difficile e faticosa di alcune consapevolezze, che sono prima analitiche e quindi dovrebbero diventare politiche. Ma forse ne serve anche un’altra: siamo tutti sullo stesso vascello. Chi pensa di isolarsi dal resto del mondo e creare la sua piccola cittadella più o meno fortificata rischia bruschi risvegli. Borio lo dice a modo suo, il modo dell’economista monetario: “I cambi flessibili hanno solo limitate proprietà di isolamento”, ma chi ha orecchi buone intende. E impara a tenersi forte.
La pagliuzza greca e la trave del sistema monetario
Preoccupati come siamo dall’infinità di pagliuzze che ci accecano, non riusciamo a scorgere all’orizzonte la trave del sistema monetario internazionale, o sarebbe meglio dire come ha notato qualcuno, del non sistema monetario internazionale, che poi è la trave incrinata sulla quale poggia il sistema finanziario globale.
Per quanto ormai si riconosca malfunzionante e pericolante, questo non-sistema, la comunità internazionale, a cominciare dall’azionista di maggioranza, esita ad addivenire a una composizione, confermando con ciò la prassi che serva sempre un evento traumatico per convincere le persone di buona volontà a mettersi attorno a un tavolo e decidere.
Il caso greco, in tal senso, ne è esempio chiaro. Il caos post referendum una volta che la polvere si sarà posata, ci dirà se l’eurozona troverà la sua palingenesi o se sembra davvero destinata a una qualche forma di dissoluzione. Ma qualunque sia l’esito la vicenda greca un risultato l’ha già raggiunto: adesso la questione dovrà essere dibattuta sul serio, a livello sistemico, senza più pensare che basti allargare i cordoni della borsa perché le cose vadano a posto da sé.
Per il sistema monetario internazionale il discorso è simile. Malgrado sia fonte riconosciuta di squilibri, lo conferma anche la Bis che dedica al tema un approfondimento nel suo ultimo rapporto annuale, del sistema monetario non si parla perché la soluzione che è stata adottata è stata quella di annacquare i problemi con un diluvio di liquidità. Che poi alla lunga non ha fatto altro che esacerbare questi problemi.
Le banche centrali hanno sostanzialmente comprato tempo, arrivando ad cumulare asset superiori ai 22 trilioni, e portando i tassi a livelli mai così bassi nella storia, sperando che i paesi trovassero una soluzione di sistema. Cosa che non è accaduta. E temo anche solo ad immaginare cosa serva per convincere gli attori di questa tragica farsa a mettersi seduti a discutere per trovare una soluzione.
La diagnosi della Bis peraltro è chiara. Il sistema monetario internazionale (IMFS) è “incapace di di prevenire il formarsi di deficit di conto corrente insostenibili”, con i paesi in surplus “che non hanno incentivi a aggiustare il saldo mentre quelle in deficit sì”. A meno che non siano gli Usa, ovviamente. E tuttavia “gli squilibri di conto corrente sono stati al centro degli sforzi cooperativi del G20”.
Con pochi esiti, a quanto pare, visto che “il principale difetto degli accordi esistenti è che tendono ad aggravare le debolezze”. In particolare, nota la Bis, “il sistema tende ad aumentare il rischio di squilibri finanziari”, ossia boom creditizi, che poi hanno esiti negativi sulla produttività e a seguire sui salari, o degli asset che stressano i bilanci degli operatori, siano essi famiglie, stati o imprese, e finiscono col provocare gravi guasti macroeconomici.
Per arrivare a tale diagnosi, la Bis svolge un’accurata anamnesi analizzando le caratteristiche che compongono l’ossatura del sistema monetario e i suoi esiti principali. I punti principali sono tre: il peso del dollaro, con la sua straordinaria capacità di estendere i suoi effetti su tutto il globo, basti considerare (vedi grafico) che l’87% delle transazioni sul forex sono in dollari e il 62,9% delle riserve ufficiali pure; la limitata proprietà di isolamento dei tassi di cambio, che inducono i diversi paesi risposte politiche volte a evitare grandi differenziali di interesse nei confronti delle principali valute internazionali; le onde potenti generate dalla libera circolazione dei capitali e della liquidità globale, che superano i confini degli stati uniformando le condizioni globali della finanza.
Per dirla con le parole della Bis, “sistema monetario ha diffuso l’allentamento monetario e finanziario dal paese della valuta di riserva al resto del mondo, come ha fatto anche prima della crisi”. Che io traduco così: la politica finanziaria e monetaria americana, grazie alla libera circolazione dei capitali e alla titolarità di quella che di fatto se non di diritto è la moneta internazionale, decide di tutte le altre.
Ovviamente ci sono precise ragioni storiche che hanno determinato questa situazione che la Bis riassume efficacemente, ma che evito di ricordare perché ormai sono di dominio pubblico. Mi limito a sottolineare l’osservazione della Bis, che nota sorpresa come “l’avvento dell’euro e il trend di deprezzamento del dollaro iniziato nel 1970 non abbia materialmente cambiato il ruolo del dollaro come riserva di valore”. Per mancanza di alternative, come dice qualcuno. O forse perché non c’è alternativa agli Usa.
L’avvento dell’euro ha solo determinato che la Bce si è aggiunta al carro della Fed e adesso insieme, ma lascio voi decidere chi sia la vera locomotiva, “trasmettono le loro policy direttamente alle altre economie”. Come dato vi basti questo: il credito a prenditori non bancari denominato in dollari concesso fuori dagli Usa è arrivato a fine 2014 a 9,5 trilioni di dollari, quello europeo a 2,7 trilioni. Il che mi fa pensare a una forma riveduta e corretta del vecchio colonialismo ottocentesco.
Ciò che mi interessa di più raccontarvi è come la Bis immagini si possa arrivare a una soluzione.
Il primo punto che la Bis nota è che tenere la casa in ordine, dizione ormai comune che denota la capacità di un paese di non cumulare squilibri, siano essi fiscali o esteri, è un buon viatico per evitare i contagi. Il che sarà pure giusto, ma suona leggermente irrealistico: sfido chiunque a farlo quando girano così tanti soldi che cercano rendimenti e in una società che viene scientificamente addestrata al consumo compulsivo.
A tal fine le banche centrali, scrive la Bis, dovrebbero sempre più e meglio essere capaci di neutralizzare gli effetti di trascinamento del ciclo finanziario internazionale.
Pure, il buon senso nazionale poco può in mancanza di un coordinamento internazionale. “Muovere al di là del perseguimento illuminato del proprio interesse richiederebbe uno sforzo di cooperazione internazionale per fissare regole che vincolino le politiche interne”, scrive la Bis. e questo ci riporta al problema principale, che noi europei stiamo riscoprendo con la crisi greca: il conflitto fra le nazioni e gli organismi sovranazionali.
Rafforzare la cooperazione internazionale significa, volenti o nolenti, diminuire gli spazi di sovranità nazionale. Cosa che può anche riuscire quando si ha a che fare con piccole nazioni come quelle europee, e il caso greco dimostra che pure così non è detto che si riesca, ma che sembra vagamente illusorio quando ci sono di mezzo i banchieri del mondo.
Non a caso la Bis ricorda la linea di swap da 600 miliardi che la Fed concesse alle banche centrali partner all’esplodere della crisi, esempio di quel coordinamento, sempre a guida americano, che finora è il limite massimo raggiunto dalla cooperazione internazionale sul tema. E tuttavia anche questa pratica, qualora la si provi a trasformare in procedura codificata, incontra ostacoli.
L’idea di un prestatore globale di ultima istanza, ché questo poi è il significato del safety-net disegnato dalla Fed con gli swap, porterebbe il perimetro del sistema monetario fuori da dov’è, ossia dal non luogo a guida americana, e magari dalle parti del FMI, che comunque, in assenza di riforme delle quote, anch’essa bloccata dagli Usa, rimane un utile strumento anglo-americano e nulla più.
In assenza di prese di posizioni degli stati, visto che il gigante Usa tutto vuole tranne che cedere sovranità, restano solo le banche centrali a farsi interpreti della necessità della cooperazione. Ma questa non è una novità. La Bis, che ricorda “i successi della cooperazione internazionale nell’ambito della regolazione finanziaria e della supervisione” negli anni ’30 è stata costituita, oltre che per fare da agenti dei pagamenti tedeschi agli alleati, anche per promuovere questa cooperazione.
Ma per rifare il sistema monetario occorse una guerra. La cooperazione venne dopo.