Etichettato: crisi eurozona
L’ora dell’Eurasia
E’ un parallelismo istruttivo quello che Benoit Couré, del board della Bce, traccia fra la crisi vissuta dalle tigri asiatiche alla fine degli anni ’90 e quella che sta vivendo oggi l’eurozona. Se non altro perché mostra con chiarezza quale dovrebbe essere la sfida di fronte alla quale si trova l’Europa della moneta unica e il destino che l’aspetta qualora tutto andrà come dovrebbe.
In pratica mutuare dalle Tigri dell’Asia il loro modello di sviluppo, coniugandolo com le tradizioni europee che affondano le proprie radici nell’immediato dopoguerra, quando fu istituita la CeCa, e che hanno condotto alla creazione di quelle istituzioni sovranazionali che oggi si candidano ad essere gli alfieri dell’Europa che verrà.
In pratica, semplificando, l’eurozona dovrebbe diventare l’Asia d’Occidente: efficienza asiatica e solidarietà europea.
Il ragionamento di Couré parte dalla considerazione che l’Unione europa affonda le sue radici, da un lato, nel desiderio di pace dei paesi europei, che negli anni ’50 condusse alla comunità economica del carbone e dell’acciaio, “il nucleo dell’attuale Unione europea”. E, dall’altro, dalla crisi del sistema di Bretton Woods “che fu la catalizzatrice della moneta unica europea”.
Queste due radici ci hanno condotto dove siamo adesso. E adesso l’eurozona si trova di fronte a sfide terribili che, dice Couret, ricordano quelle affrontate dai paesi emergenti dell’Asia fra il 1997-98.
Ricorderete che la crisi di fine anni ’90 di molti paesi orientali fu provocata da una grande crescita del loro indebitamento frutto dell’espansione del credito che, prima della crisi, aveva generato tassi di crescita importanti. L’aumento dei debiti fu favorito da corposi afflussi di capitale arrivati dall’estero che, mentre pompavano la crescita, generavano notevoli squilibri sulle bilance dei pagamenti oltre a generare una perdita di competitività, che, una volta ritirati i capitali dall’estero, misero sotto pressione prima il cambio e poi il sistema finanziario.
“Tranne che per gli effetti sul cambio – nota Couré – sviluppi simili si sono avuti nell’eurozona prima del 2009, se non nell’area nel suo complesso, ma al livello dei singoli paesi. Si pensava che una cosa del genere non potesse accadere nelle economie avanzate, e tuttavia è esattamente quello che è accaduto in Europa dieci anni dopo la crisi delle tigri asiatiche”.
Da come i paesi asiatici affrontarono la crisi emergono alcune lezioni delle quali, secondo Couré, l’eurozona dovrebbe far tesoro.
La prima lezione è che “serve una profonda ristrutturazione del sistema finanziario”. In Asia le istituzioni finanziarie che non potevano essere salvate furono chiuse ricorda, le altre furono ricapitalizzate e rinforzate, mentre si procedeva a una pesante ristrutturazione del settore corporate. Il contrario di quello che si fece in Giappone, dove “la ricognizione delle perdite fu posposta”, con la conseguenza che vennero alla luce le così dette “banche zombie”, piene di asset poco remunerativi che hanno finito col provocare “il decennio perduto” dell’economia giapponese e una deflazione ventennale.
La seconda lezione è che “servono profonde riforme strutturali e istituzionali”. I paesi asiatici colpiti dalla crisi rinforzarono i loro strumenti di regolazione e supervisione, per prevenire future instabilità, e misero in campo riforme profonde del sistema produttivo. Si capì, insomma, che “una crescita sostenibile può essere ottenuta solo incoraggiando l’imprenditorialità, l’innovazione e l’apertura verso il mercato”
La terza lezione fu che “la ri-nazinoalizzazione e il protezionismo non sono la soluzione della crisi”. Le economie aperte, dice Couré, si riprendono prima di quelle chiuse dai cali di prodotto causati dai deflussi improvvisi di capitale. “Le policy di mercato aperto di questi paesi – osserva – hanno consentito di beneficiare dei vantaggi del mercato aperto”.
L’ultima lezione è quella più interessante. Le tigri asiatiche avevano la possibilità di gestire i tassi di cambio per risolvere le crisi, e questo secondo alcuni comporta una profonda differenza nel confronto con l’eurozona. “Ma io ho un diverso punto di vista”, dice Couré: “Una mancanza di flessibilità del tasso nominale di cambio non preclude un aggiustamento de tasso reale di cambio”.
Detto in altre parole, esistono altri fattori della produzione che sono nella responsabilità dei singoli paesi che consentono di sviluppare politiche economiche capaci di rendere queste economie più resistenti agli shock”.
Le famose riforme strutturali.
“Purtroppo questo non è avvenuto nell’eurozona”, dove le politiche nazionali sono state condotte sotto l’assunzione che “i paesi, le aziende e le famiglie potessero prendere a prestito per sempre”. Ciò ha condotto alla circostanza che “nonostante la necessità di mercati più flessibili a causa della sua moneta unica, l’Europa ha affrontato rigidità nominali più forti dell’Asia nei mercati del lavoro e dei prodotti”.
Dovevamo essere più asiatici degli asiatici, insomma.
Le similitudini si fermano qua. Perché l’eurozona, a differenza della regione del sud est asiatico, ha un mercato unico che, dice Couré, “ha reso possibile creare gli strumenti necessari (EFSF ed ESM) per dare supporto finanziario ai programmi di aggiustamento”. La lezione finale, quindi è che “l’integrazione regionale e il senso di un progetto comune sono fonti di stabilità”.
Senonché, mentre la crisi asiatica è stata consegnata alla storia, quello dell’eurozona è ancora nel mezzo del suo guado. E tuttavia la lezione asiatica sembra aver preso piede da noi.
La prima lezione ha condotto alla riforma del settore finanziario europeo, condotta tramite la raccolta di 225 miliardi di euro di fondi dalle banche, da inizio crisi, oltre a 275 miliardi di capitali iniettati dai paesi per dare solidità alle banche. Risultato: oggi le banche europee più grandi, dice, hanno coefficienti patrimoniali assai più robusti.
Vedremo se la Bce confermerà questa convinzione.
Senza contare, poi , il processo di Unione bancaria, che con l’avvio della supervisione, ricorda Couré, consentirà di arrivare a un sistema finanziario più robusto e trasparente.
E questo ci conduce alla seconda lezione. “Per lasciare la crisi alle nostra spalle – dice – dobbiamo chiederci: cosa finanzia il settore bancario?”
Ossia: cosa devono fare le banche?
La risposta è che bisogna mettere in piedi un nuovo modello di business capace di garantire crescita. “I politici – osserva – non sono nella migliore condizione per decidere quale questo modello debba essere. Se ne occuperà l’economia di mercato. Quello che conta è che si creino le condizioni ambientali favorevoli per sviluppare l’innovazione e l’imprenditorialità”.
Niente politiche stataliste, insomma, ma “disciplina di mercato”.
Fin qui nulla di nuovo.
La novità è che tale ambiente debba essere costruito a livello sovranazionale. Deve essere l’Europa a farsene carico. E tale operazione avrà successo se il contesto europeo sarà in grado di consentire a ogni paese di “sviluppare la propria specificità e il suo vantaggio comparativo”, perché “solo sviluppando le differenza possiamo arrivare alla convergenza”.
Tutto ciò a patto che si evitino nazionalismi e protezionismi (lezione tre) e che, ovviamente, i paesi europei non si lascino tentare da svalutazioni competitive.
Da oggi in poi almeno, viene da dire.
E poi che si faccia un uso produttivo del risparmio che è stato “rinazionalizzato con la crisi e ciò ha aumentato la frammentazione”. Che detto in parole semplici significa che i singoli paesi si sono trovati a dover fare i conti con la fine dei prestiti facili da parte di chi esportava risparmio con la conseguenza che sono esplosi gli spread.
La conclusione è che “malgrado le conseguenza negative, la crisi può avere un esito positivo per l’Europa”. Anche questo ritornello ormai lo conosciamo bene, ma vale sempre la pena ricordarlo, così rimane impresso: “La crisi può guidare il cambiamento e portarci progressi”.
In fretta però, perché “il momento critico adesso è arrivato”, conclude.
E’ l’ora dell’Eurasia.
La medicina amara del Fmi per l’Ue
Il destino dell’Eurozona è scritto in un documento di 67 pagine che il Fondo monetario internazionale ha rilasciato in questi giorni. Si intitola “European Union: Financial System Stability Assessment”, e contiene alcune osservazioni che riepilogano con rara efficacia cosa sia stato finora il processo di integrazione europeo.
L’analisi inizia con l’individuare le cause della crisi, che sono da ricercarsi nella “innovazione finanziaria, la deregolamentazione, e la vigilanza troppo soft che hanno portato alla crisi finanziaria globale”. “L’Europa – aggiunge – è stata afflitta e probabilmente colpita più dura,emte rispetto ad altre parti del mondo a causa della sua dipendenza tradizionale dalla finanza basata sulle banche e a causa dell’alta leva finanziaria da queste utilizzata”. Per giunta “‘l’assenza di un sistema europeo di gestione delle crisi ha amplificato la crisi”.
Se la diagnosi è chiara, la prognosi lo è altrettanto: “Preservare la stabilità finanziaria in un ambiente del genere, con paesi altamente interconnessie attraverso notevoli esposizioni transfrontaliere, richiede un quadro sovranazionale di sorveglianza”. Detto in parole comprensibili, bisogna puntare sullo sviluppo delle istituzioni comunitarie, articolando gli interventi secondo una scaletta ormai ben nota a tutti: sorveglianza e ricapitalizzazioni bancarie, per cominciare, fino ad arrivare a politiche fiscali integrate.
“Le iniziative politiche intraprese – osserva il Fmi – hanno contribuito ad allentare le pressioni, ma la fragilità e le sfide rimangono”. A cominciare dalle banche, che “dovranno affrontare le conseguenze del rallentamento economico sulla qualità dell’attivo, previsto in deterioramento, mentre la domanda rimane debole e la crescita del credito è diventata anemica in tutta la regione”.
In effetti se guardiamo i grafici, osserviamo che i prestiti bancari nei paesi più importanti sono in forte rallentamento. Nei paesi più esposti, come Spagna e Italia, sono diventati addirittura negativi negli ultimi due anni. In Gran Bretagna, dopo il crollo del 2008, sono leggermente cresciuti, probabilmente grazie alle politiche accomodanti della Banca centrale inglese, ma rimangono sempre in zona negativa. Si salvano solo la Francia, che comunque ha visto diminuire la crescita dei prestiti dal +7% di ottobre 2011 a poco più del 2% di un anno dopo, mentre in Germania, l’unico paese in cui i prestiti bancari sono cresciuti dal 2010 in poi, non si va altre un povero 1% di aumento.
Che le banche europee siano diventate sempre più diffidenti nel concedere credito, lo dimostra anche la curva che misura l’esposizione estera intra-eurozona dal 1999 in poi. La curva trova il suo picco nel 2008, quando la crisi esplode, e poi decresce drammaticamente. I prestiti, in particolare, crollano nei confronti dei paesi periferici dell’eurozona, i famosi PIIGS, mentre mantengono un aumento costante nei confronti dei paesi emergenti dell’eurozona.
Tale situazione ha un effetto diretto sui tassi di interesse sui nuovi prestiti a istituzioni non finanziarie, quindi aziende e famiglie. In Spagna i tassi sono ormai sopra il 5%, in Italia intorno al 4,5%, mentre in Germania non superano il 3%, poco meno della Francia.
Risolvere questa situazione, che nasce da squilibri strutturali profondi, non sarà facile né semplice. Il Fondo individua alcune mosse fondamentali, che passano dalla ricapitalizzazione delle banche e dalla loro ristrutturazione (dal 2007 il numero degli istituti è diminuito del 5%), all’aggiustamento dei debiti dovrani, che deve essere garantito dall’EFSF e dall’ESM da rendere operativi prima possibile. Ciliegina sulla torta: “Common fiscal and monetary backstops are essential”. Tradotto: servono meccanismi di garanzia europei sui debiti, sovrani e non, dell’eurozona.
Cosa significhi, in pratica, tutto ciò dovrebbe essere chiaro. Affinché il sistema finanziario europeo trovi il suo equilibrio, bisgnerà allargare sempre più la sfera di influenza delle autorità sovranazionali rispetto a quelle nazionali. La costruzione europea, per reggersi in piedi, dovrà prevedere ampie cessioni di sovranità, non solo monetarie, ma anche fiscali.
S’avanza il dispotismo Euro-asiatico.
Con la benedizione del Fmi.