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Il miracolo contabile del boom irlandese
La tensione, come la chiamano gli autori di uno studio molto interessante pubblicato nell’ultimo quarterly report della Bis, fra le regole di contabilità nazionali e la realtà globalizzata dell’economia genera fenomeni molto curiosi da osservare che sollevano dubbi sull’adeguatezza del nostro apparato statistico che, in ultima analisi, determina la nostra conoscenza del mondo economico.
Per apprezzare questo discorso, che può apparire sofisticato mentre in realtà è molto semplice, serve ricordare alcune definizioni di contabilità nazionale di uso comune nei discorsi economici ma che spesso vengono equivocati. Il prodotto interno lordo (gross domestic product, Gpd) che misura l’attività economica di un paese, si determina sommando il consumo di beni e servizi del settore privato e quello del settore pubblico e aggiungendo il totale degli investimenti e l’export netto. Accanto a questa definizione c’è quella di reddito nazionale lordo (gross national income, Gni) che si ottiene sommando i redditi guadagnati dai residenti del paese, compresi quelli generati all’estero. In sostanza si tratta di aggiungere al pil la voce dei redditi primari netti (net primary income, Npi), ossia la differenza fra i flussi di reddito che i residenti ottengono dai non residenti e i deflussi che i residenti pagano ai non residenti. Tali flussi sommano retribuzioni per impiegati, reddito da investimenti esteri e altri redditi. L’export netto e i redditi primari netti sono componenti del conto corrente (current account, CA), che misura l’interscambio di beni e servizi, dei redditi e dei trasferimenti di un determinato paese verso tutti gli altri. Il conto corrente si compone anche della voce dei redditi secondari. Il saldo di conto corrente è associato dinamicamente con l’acquisizione netta o la vendita di asset esteri, ossia la posizione netta degli investimenti esteri (net international investment position, NIIP). Un CA positivo implicherà che la NIIP di oggi sarà maggiore di quella di ieri, se mettiamo per ipotesi che gli aggiustamenti di valutazione (stock flow adjustment, SFA) siano pari a zero. Questi ultimi misurano i cambiamenti di valore degli asset determinati dai prezzi e dai movimenti valutari, ma anche la rilocalizzazione della proprietà degli asset intangibili di capitale e gli asset finanziari fuori dai confini. La NIIP a sua volta si compone di investimenti diretti (direct investment, DI), investimenti di portafoglio, altri investimenti, asset di riserva e derivati finanziari. In dettaglio, gli investimenti diretti rappresentano interessi di lungo periodo di un soggetto di un paese A che investe in un paese B. Si definiscono tali quando l’investitore acquisisce almeno il 10% di azioni con diritto di voto o anche meno a patto però di avere voce in capitolo nella gestione. In alternativa si parla di investimento di portafoglio, ai quali sono assimilati anche gli acquisti di obbligazioni o strumenti del mercato monetario. Queste definizioni, che sono ampiamente condivise a livello internazionale, nascondono notevoli complessità. Gli studiosi della Bis osservano che ormai risulta chiaro che il concetto del conto corrente (CA) non è abbastanza illustrativo dei collegamenti che insistono nella trama delle relazioni economiche internazionali e gli esempi addotti nell’articolo ne danno un’ampia prova.
Il primo caso da esaminare è quello dell’offshoring, che si verifica quando un processo economico viene spostato da un paese a un altro o tramite l’avvio di una controllata estera o attraverso un contratto con un’azienda estera. Questa tabella esemplifica cosa accade alle grande di contabilità che abbiamo osservato.
Prima dell’offshoring il paese che produceva ed esportava in eccedenza otteneva un attivo di conto corrente che derivava dal conto merci. Nel secondo caso il pese dove si svolge la produzione registra un’eccedenza sul conto merci e un debito sul conto dei redditi primari, che corrisponde all’attivo sullo stesso conto del paese che ha esternalizzato la produzione. Rimane l’attivo di conto corrente per il paese A, ma muta la natura: dalle merci ai redditi.
Se adesso ripetiamo l’esempio ponendo come punto di osservazione non più la residenza del paese produttore, ma il domicilio del quartier generale della ditta che produce, osserviamo un notevole cambiamento.
L’azienda del paese A ha tessuto relazioni economiche con i paesi B e C. In particolare ha deciso di domiciliare la sua sede nel paese B. Ciò non produce alcuna attività economica reale nel paese B, ma legale sì. E la conseguenza si vede nella tabella. Mentre prima della nuova domiciliazione il paese A incassa tutto il reddito dell’investimento estero, dopo il reddito per il paese A si riduce a un quinto, mentre i quattro quinti rimangono nel paese dove è stata domiciliata la società, malgrado non abbia prodotto nulla. Ciò dipende dalle regole con le quali vengono contabilizzati gli investimenti diretti e quelli di portafoglio e questo “distorce la misura del reddito nazionale lordo (GNI) e del conto corrente”. Tale effetto è conseguenza del fatto che gli azionisti dell’azienda che lavora nei tre paesi continuano a risiedere nel paese A, ma quello che prima era un credito che derivava da un investimento diretto del paese A verso il paese adesso diventa un investimento di portafoglio di A verso B e quindi i flussi di reddito fra i due paesi sono limitati al pagamento dei dividendi. “Questo riduce il saldo di conto corrente per il paese A perché alcuni profitti sono trattenuti e vanno ad alimentare gli utili non distribuiti”. Al contrario accade per il paese B che riceve tutto il frutto degli investimenti di A derivanti da C e restituisce solo la quota di dividendi ad A e perciò “gonfia” di attivi, che di fatto non sono suoi, il conto corrente del paese. Evidenze di questo tipo sono state osservate, ad esempio, in Svizzera, dove i robusti attivi correnti dipendono in buona parte proprio dalla presenza di multinazionali estere. Ma tale meccanismo è ancor più visibile in Irlanda. Nel decennio scorso diverse aziende britanniche e statunitensi hanno spostato il domicilio aziendale laggiù determinando un notevole incremento alla voce centrate da redditi di capitale per il paese che a sua volta ha guidato l’incremento dei redditi primari e quindi del conto corrente.
Un altro fronte di complessità risiede nella gestione dei diritti di proprietà intellettuale come capital asset, che hanno un ruolo crescente nella misurazione e interpretazione del pil. Secondo le regole del 2008 del System of national account (SNA) l’assegnazione alla categoria di importazione o esportazione dipende dalla proprietà economica del diritto di proprietà intellettuale (Intellectual property, IP). Anche qui, questioni di convenienza fiscale spingono le multinazionali a delocalizzare anche questi diritti e con ciò contribuendo ad annebbiare una corretta rappresentazione della realtà. Un’altro esempio mostrerà con chiarezza questa situazione.
Come si vede, il paese A, che ha trasferito al paese B non solo il domicilio ma anche i diritti di proprietà intellettuale, incassa sempre 25 ma tutto sulla voce dei redditi, quindi senza alcun effetto sulla bilancia commerciale, quattro quinti dei quali derivanti da proprietà intellettuale e un quinto in qualità di profitto estratto dal paese produttore C. Ciò significa che il paese B accumula debiti verso il paese A che corrispondono a un aggiustamento di valutazione (SFA) per il paese che lo decide. Ciò in quanto il diritto trasferito viene trascritto come attivo nella contabilità dell’azienda estera domiciliata in B e come debito per la sussidiaria che risiede nel paese A, che corrisponde a sua volta a un aumento degli investimenti diretti del paese A tramite la componente SFA.
Ancora una volta, si apprezza questo meccanismo all’opera osservando il caso dell’Irlanda. La rilocalizzazione delle aziende unita a quella degli asset intangibili e la notevole globalizzazione dei processi produttivi, ha significativamente modificato i conti nazionali. A luglio del 2016 “i dati delle entrate e delle uscite del 2015 hanno registrato una crescita del PIL reale del 26% e una crescita reale dell’RNL (GNI) del 19%”. Ciò costrinse l’ufficio di statistica irlandese a pubblicare una serie di indicatori economici modificati che spiegassero “le distorsioni derivanti dalla natura globalizzata dell’economia irlandese”. Il miracolo economico irlandese c’era. Ma solo nella contabilità.
(2/segue)
La fredda guerra della Russia: la bilancia dei patimenti
L’esplosione del consumo privato finanziato a debito coi soldi dell’estero non poteva che avere un costo sociale per la Russia, che ha visto aumentare, poco osservati e ancor meno discussi, i suoi patimenti.
Gli unici che ci è consentito misurare, tuttavia, sempre grazie alle statistiche, è il costo dei pagamenti di rendite che la Russia deve versare all’estero per finanziare il suo stile di vita. Per farlo possiamo guardare all’andamento del saldo di conto corrente della bilancia dei pagamenti della Federazione.
Bilancia dei patimenti, sarebbe più giusto chiamarla.
Nel 2008 il current account mostrava un surplus di quasi 99 miliardi di dollari. L’esplodere della crisi lo ha più che dimezzato, facendolo crollare a 44 mld. Quindi la ripresa, che la riportato il saldo a 92 miliardi nel 2011, e da lì un’altra costante crisi: scende a 73 miliardi nel 2012 e a meno della metà, circa 33 a fine del 2013.
Quali sia la ragione di questo andamento, possiamo capirlo scorrendo le singoli voci del conto corrente. Se guardiamo i dati dal 2005 in poi notiamo che l’attivo di conto corrente dipende esclusivamente dal saldo commerciale, ovvero l’export di beni, che poi nel caso russo sono i beni energetici che portano con sé la scomoda controindicazione di essere correlati all’andamento dei corsi delle materie prime. Il saldo dei servizi è costantemente negativo, così come quello dei redditi. Altre informazioni possiamo trarle osservando la dinamica dei saldi.
Nel 2005 il saldo commerciale quotava 115 miliardi di attivo. Nel 2013 è stimato a 177, in calo rispetto ai 192 del 2012. In nove anni, quindi, il saldo commerciale russo è migliorato di circa il 54% a prezzi correnti.
Nel 2005 il saldo dei servizi mostrava un deficit di circa 10 miliardi. Nel 2013 il deficit dei servizi è arrivato a 59 miliardi, in crescita rispetto ai 46,5 del 2012: quasi sei volte il dato del 2005.
Nel 2005, il saldo dei redditi che, lo ricordo, misura la differenza fra quanto rendono gli investimenti esteri ai russi, e quanto rendono agli investitori esteri gli investimenti in Russia, misurava circa -17,5 miliardi di dollari. Nel 2013 il deficit era arrivato a 66,2 miliardi, quasi quattro volte tanto. Perché, vedete, i debiti esteri costano cari, specie se magari denominati in valuta straniera, e bisogna pur pagare gli interessi.
Cosa ci dice l’analisi (superficiale) dei tre saldi: che la crescita del surplus commerciale è stata assai meno robusta di quella del deficit sugli altri due saldi. Si potrebbe dire che aumentare i debiti esteri, per comprare più merci e servizi dall’Occidente, non abbia fatto gran bene all’economia russa. Avranno pure comprato casa a Londra o una bella squadra di calcio, ma a che prezzo?
Se rivolgiamo il ragionamento dal lato del debitore a quello del creditore, scopriamo l’elementare verità della fredda guerra nella quale si sta infilando il mondo globalizzato: nessuno può permettersi di fare a meno della Russia, se si vuole continuare a far marciare la carovana della globalizzazione.
Gli studiosi della pipeline dovrebbero perdere un po’ di tempo per costruire le dollarline, ossia il flusso costante di scambi merce-denaro-merce che vede i prodotti del sottosuolo russo diventare flusso finanziario e poi nuovamente merce, importata dai principali partner commerciali russi, fra i quali, ancora una volta, primeggia l’Italia.
Le statistiche ci raccontano della quota rilevante sui nostri saldi commerciali delle importazione russe di prodotti italiani, seconde sole a quelle dell’America del Nord e dei paesi del Mercosur, rappresentandosi con ciò l’eterno dilemma dell’Italia, ma in fondo dell’intera Europa, fra l’Oriente e l’Occidente.
Se analizzassimo i flussi degli scambi di beni, oltre a quelli finanziari, scopriremmo che le importazioni russe alimentano le economia dell’Europa, almeno tanto quanto le esportazioni di gas russo la riscaldano. Questo rapporto morganatico fra Europa e Russia, un rapporto di secondo letto regolato da un contratto, è stato ben rappresentato dal discorso tenuto a braccetto dal presidente Usa Obama e dalla cancelliere Merkel sulla crisi ucraina, che invece rappresentano il matrimonio ufficiale dell’Occidente europeo con l’estremo Occidente nordamericano.
Con i russi si fanno affari, non alleanze, mentre con gli statunitensi l’uno e l’altro sono il pane e il companatico del nostro stare al mondo.
E’ un’eredità della storia che difficilmente potrà erodersi. E seppure il sogno neoimperiale di Putin dell’Unione euroasiatica possa risultare geopoliticamente comprensibile, il rischio, nell’epoca della fredda guerra, è che finisca anch’esso nel tritacarne della statistica e dei flussi di portafoglio.
Sembra dunque saggio abbastanza chiedersi se la Russia sarà il detonatore di una generale resa dei conti del dare e dell’avere internazionale, eventualità temutissima dalla finanza globalizzata, oppure se alla fine tutto rientrerà nei ranghi, declassandosi il conflitto a normale scaramuccia.
Nell’evo della fredda guerra ciò equivale a chiedersi quanto potrà resistere la Russia senza un afflusso regolare di capitale dall’estero.
Sempre la Bri, nelle sue statistiche di dicembre, nota che a differenza di quanto accade alla Cina, che continua ad attirare capitali dall’estero, malgrado il suo sistema finanziario sia periclitante e le sue banche ombra sempre più infestate dai crediti inesigibili, la Russia sta continuando a sperimentare deflussi di capitali: altri 11 miliardi in meno nell’ultimo trimestre del 2013, circa il 6% del totale, come d’altronde sta capitando anche all’Ungheria, l’ennesima relazione pericolosa dell’eurozona, in particolare dell’Austria, col turbolento mondo dell’est.
Ebbene: l’emorragia di capitali esteri sta lentamente erodendo l’unica vera arma di difesa di cui la Russia dispone, ossia l’ammontare internazionale di riserve.
Piano, piano, la Russia sta entrando in riserva.
(3/segue)
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