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Il mattone spinge la Danimarca nell’Unione bancaria
Non era poi difficile immaginare che Eurolandia avrebbe finito con l’allargarsi per via bancaria. In un mondo dove la moneta bancaria è quella che conta veramente, la denominazione dell’unità di conto rimane un dettaglio. Importante, ma sempre un dettaglio.
Questa riflessione, che a molti parrà esorbitante, quando non addirittura incompetente, me l’ha ispirata la lettura dell’ultimo intervento di Lars Rohde, governatore della banca centrale della Danimarca (The Danish economy against the background of global economic developments), paese che, come tutti sanno, aderisce all’Unione Europea, ma non all’euro. Per cui è rimasto fuori dalla diatriba sulla moneta unica di questi ultimi anni, ma non dalla tempesta finanziaria ed economica che tale diatriba ha scatenato e che ancora non si placa.
Ricorderete che il progetto di Unione Bancaria, ormai pienamente operativo dopo la pubblicazione degli stress test e l’inizio novembrino della supervisione unificata della Bce sulle principali banche dell’eurozona, prevedeva fra le altre cose che i paesi esterni all’euro avessero la possibilità di rimanere fuori dalla moneta unica, mentre sarebbe stati i benvenuti qualora avessero deciso, dopo l’avvio della supervisione, di aderire al progetto di Unione bancaria. Che in pratica significa innanzitutto mettersi sotto le amorevoli ali protettive della Bce, nel suo ruolo di supervisore. Ma poi, e soprattutto, di entrare anche nei costituendi meccanismi di risoluzione, con fondo annesso, e di assicurazione unificata dei depositi.
In questa lunga e travagliata storia, la Danimarca ha assunto il ruolo di osservatore. Ma ciò non vuol dire che sia rimasta neutrale. Quando la Bce, sin dal giugno scorso, ha portato il tasso sui depositi in territorio negativo, la banca centrale danese ha fatto lo stesso abbassando i tassi sui certificati di deposito, che poi determinano i tassi sul mercato monetario, a -0,05%. Ciò ha inserito la Danimarca nel novero dei paesi europei che hanno intenzione di tenere i tassi assai bassi che i mercati, dice il nostro banchiere, “non si aspettanno verranno alzati prima del 2017”, con la conseguenza che l’euro da inizio anno ha perso circa il 10% sul dollaro e non accenna a riprendersi, per la gioia degli esportatori.
Questa situazione monetaria sta in qualche modo facilitando l’economia danese che, ancora immersa in un ondeggiante chiaroscuro, vede un aumento dell’occupazione fare da contraltare a una situazione della crescita ancora altalenante che però, secondo la banca centrale, è il prologo di una ripresa più robusta, col governo che esibisce un deficit fiscale entro la soglia del 3% e un deficit strutturale dello 0,5%, nei limiti quindi delle regole europee. La qualcosa porta con sé la fastidiosa controindicazione – in quanto i numeri sono al limite del consentito – di non aver spazi fiscali di manovra qualora il clima economico torni a volgere al brutto.
E il brutto, in Danimarca, è annidato innanzitutto nel mercato immobiliare, vuoi per le sue ricadute sull’economia reale, vuoi per quelle che può determinare sulla stabilità finanziaria.
Ciò in quanto il sistema finanziario danese esibisce una sua specificità, peraltro assai comune. Vale a dire l’esistenza di entità finanziarie espressamente dedicate all’emissioni di bond basati sui mutui, in qualche modo alternative alle banche commerciali. “E’ essenziale – spiega Rohde – che si preservi la fiducia nel sistema danese di credito per i mutui”, visto che “i bond basati sui mutui sono uno strumento molto importante nella gestione della liquidità bancaria”. Tanto più in un mercato che ha visto i corsi immobiliari diminuire notevolmente negli anni brutti della crisi e dove le famiglie sono pesantemente indebitate.
Di recente i prezzi degli immobili sono risaliti, ma in maniera diseguale e con differenze regionali considerevoli e tali discrasie, spiega il banchiere, “non possono certo essere risolte dal sistema del credito basato sui mutui”. Il quale, peraltro, ha avuto diversi problemi di reputazione negli ultimi anni. “Le agenzie di rating – osserva ancora – hanno cambiato opinione sul sistema danese dei mutui e se c’è un accordo generale su fatto che il rating di credito meriti una A, la questione è quante A debba avere”. Che è un modo elegante per dire che il sistema è sicuro, ma non si sa bene quanto.
Nel dubbio, il governo e la banca centrale hanno agito per via regolatoria per provare a scoraggiare le assunzioni eccessive di rischio, con la conseguenza però che sono sorti interrogativi se le norme elaborate per rendere più solide le banche che finanziano i loro mutui emettendo obbligazioni non abbiano finito col creare una malsana competizione con le banche ordinarie, pure se, come ammette Rohde “le banche e le banche che lavorano solo con i mutui hanno modelli di business separati”.
Il problema è sorto dal 2008 in poi, quando i regolatori hanno notato che i consumatori si rivolgevano sempre più alle banche di mutuo, chiamiamole così, per avere prestiti, piuttosto che alle banche ordinarie. Usavano, vale a dire, la garanzia rappresentata dal mattone come collaterale per avere liquidità. La controindicazione che tale pratica porta con sé è però che “il sistema del credito basato sui mutui è vulnerabile se i prezzi delle case cadono”.
Insomma: anche la Danimarca è appesa al rischio del calo dei corsi immobiliari. Ed è facile capire perché: i bond emessi sui mutui sono basati su un certo valore del collaterale. Se tale valore cala, i bond ne risentono direttamente e le banche che devono emetterne sempre di nuovi per finanziare a breve i loro investimenti a lungo, di conseguenza.
Perciò, osserva il banchiere “è essenziale che tale sistema sia disegnato in modo da poter reggere anche quando i prezzi delle case cadono”. Tanto più ricordando che i prezzi delle case sono estremamente sensibili agli aumenti del tassi che, prima o poi, arriveranno. “Se i tassi rimangono al livello attuale – dice – per un periodo molto lungo, i prezzi possono salire sostanzialmente, ma se gli interessi vanno su, i prezzi delle case possono cadere sostanzialmente”. E un calo dei prezzi delle case in un’economia basata sul debito privato, come quella danese, e dove lo stato non ha spazi fiscali, può diventare rapidamente un incubo.
Ed è qui che entra in scena l’unione bancaria. La risposta danese ai rischi per la stabilità finanziria insiti nel mercato del credito immobiliare è necessariamente legata alla costruzione di meccanismi regolamentari ancora più stringenti. E in tal senso l’ingresso nell’Unione bancaria potrebbe consentire alla Danimarca di raggiungere il suo scopo semplicemente appoggiandosi all’universo Bce.
Dice infatti Rohde: “Non ho dubbi: la Danimarca, i possessori di casa danesi e il sistema danese di credito immobiliare hanno un grande interesse acché a Danimarca partecipi all’Unione bancaria. Un buon modo per assicurare il futuro del sistema danese del credito immobiliare è la partecipazione al meccanismo unificato di supervisione. Fuori dall’Unione bancaria può succedere di tutto”. Dentro, quindi, sembra di capire, si sta al riparo.
L’argomento di Rohde suonerà familiare a molti di noi. Meglio dentro che fuori, nei meccanismi sovranazionali, perché, come osserva il banchiere “l’unione non terrà certamente conto dei desideri di un piccolo paese del Nord”.
Ovviamente, prerequisito di tale ingresso è che la supervisione accolga amorevolmente fra le sue braccia anche il settore del credito immobiliare danese, che è quello che fa patire di più i regolatori nazionali. E questo dal punto di vista di Rohde non è per nulla problematico.
E poi c’è il vantaggio che l’unione bancaria rafforza il mercato unico dei servizi finanziari e sarebbe una iattura per la Danimarca, osserva ancora, perdere quest’occasione.
Ciò spiega perché il nostro banchiere sia convinto che “la partecipazione all’Unione bancaria serve all’interesse dei danesi”.
Bisognerà vedere se i politici concorderanno. Ma intanto è divertente notare come cambino i tempi, ma non gli argomenti.
Le quattro Europe: l’artiglio vichingo
Se la guardate da un planisfero fisico, la penisola scandinava somiglia a un gigantesco artiglio, scaturito dall’immensa landa russa, arroccato sopra la testa dell’Europa, e in particolare sulla Germania. Una propaggine quasi, a simboleggiare il destino di fratellanza che genera, volenti o nolenti, la prossimità.
Una sorte che la storia più volte ha sperimentato, come ricordano bene i finlandesi che dovettero combattere le feroce guerra d’inverno del ’39, e più tardi subìta dai Paesi Baltici, occupati dall’Urss, mentre la Germania nazista si accasava in Danimarca e Norvegia, con la Svezia che da un lato sosteneva i finlandesi contro i sovietici, e dall’altro riforniva di ferro i nazisti. Negli anni della guerra, insomma, l’artiglio vichingo servì alla Russia tanto quanto alla Germania.
La Storia ovviamente poi è cambiata. Ma la geografia no. E questo ricordo lontano è una buona chiave di lettura per comprendere il presente della terra dei vichinghi. La regione nordica, come la chiama il Fondo monetario internazionale, che qualche tempo fa le ha dedicato un report che ci consente di scoprire un’altra Europa, quella dell’estremo nord che è anche estremo occidentale dell’oriente post-sovietico.
Un mondo che vive di un suo proprio modello economico – il cosìdetto modello scandinavo – e di una sua area d’influenza che, oggi come ieri, trova nel mar Baltico, e nei paesi che su di esso affacciano, la sua naturale esposizione. Geografica, innanzitutto. Ma anche bancaria e industriale. E sul Mar Baltico si affacciano anche la Polonia e la Germania, che come sanno gli appassionati sono anch’esse legate da profonde ragioni storiche e geopolitiche.
L’Europa del Baltico, delimitata dall’artiglio vichingo è un’altra Europa a sé, che giova raccontare seguendo la filigrana disegnata dal Fondo monetario, nostro moderno Virgilio nei foschi gironi della contabilità internazionale.
I fantastici quattro dell’estremo nord – Svezia, Norvegia, Danimarca e Finlandia – , così come la trinità baltica rappresentata da Estonia, Lituania e Lettonia, condividono innanzitutto un destino economico. Anche questa non è una novità. Gli appassionati di storia ricorderanno che i paesi scandinavi (all’epoca la Danimarca comprendeva anche l’Islanda) condivisero persino un’unione monetaria ai tempi del gold standard, iniziata nel 1872 e finita nella tragedia della Grande Guerra.
Due guerre mondiali dopo, i nostri vichinghi hanno ripreso a parlarsi, forti di una somiglianza – questa sì – potenzialmente prodromica di una qualunque convergenza. Ma di unione monetaria non parlarono più, manco per sbaglio.
Pensate che nel 1952 fu creato il primo organo consultivo ove i quattro paesi, compresa l’Islanda, avrebbero potuto far esperimenti di convergenza. La prima riunione del Nordic Council si svolse in Danimarca a febbraio del ’53. Un anno dopo, a luglio del ’54, fu creato il Nordic market labor, e nel 1958 il Nordic passoport Union, mentre già dal 1955 era attiva la Nordic convention on social security.
Insomma, i nordici si stavano avviando con decisione verso un mercato reale integrato. Finché, nel 1959 non decisero di abbandonare i piani. Nel frattempo era nata la Comunità economica europea e la seduzione dell’ideale europeo, evidentemente, fece breccia.
Ciò malgrado, la cooperazione fra i paesi nordici non si è mai interrotta. Né formalmente – sono stati creati diversi organismi interministeriali – né sostanzialmente. Mentre la diplomazione tesseva la sua tela, infatti, le economie si integravano sempre più profondamente, guidate dalla più potente delle forze: l’appetito del profitto. Ecco nascere il mondo di oggi, dove gli intrecci bancari fra le banche nordiche diventano l’altra faccia dell’artiglio vichingo, che dalla fine dell’unione sovietica ha trovato il suo cardine nelle piccole repubbliche baltiche.
Oggi i Nordic 4, come li chiama il Fmi, sono al top della classifica Ocse per alto livello di ricchezza e bassa disuguaglianza sociale, esprimono un ambiente molto favorevole al business, grazie ai loro elevati gradiente di competitività, e hanno persino in comune finanze pubbliche che godono di ottima salute: il deficit quasi non esiste e il livello medio del rapporto debito/pil quota intorno al 40%, persino cresciuto ma solo a causa della crisi del 2008, che ha costretto gli stati, qui come altrove, ad aprire i portafogli per salvare il sistema bancario. Di nuovo. I cultori della materia ricorderanno la crisi bancaria svedese degli anni ’90.
Fin qui, i vichinghi sembrano la bella copia dei baltici.
Molto di questo stato di grazia, paradossalmente, la regione nordica lo deve proprio alla crisi bancaria del ’90, che servì loro di lezione. Superata la crisi, a caro prezzo, i nordici, chiamiamoli così, riportarono la normalità nella gestione fiscale che ha consentito loro di superare la tregenda del 2009 (la Finlandia perse il 9% di Pil, per dire) senza che venisse scalfita la loro nomea di “safe heaven”. E ciò pure a fronte di uno dei welfare più costosi della storia, grazie soprattutto a un livello di incassi fiscali vicino al 60% del Pil.
Così tanto stato sociale – ecco che riecheggia l’utopia sovietica – e insieme così tanto capitalismo, come nella dirimpettaia Gran Bretagna.
Questo strano ibrido economico ha fatto scuola e da sempre suscita una ragionevole invidia nelle altre società europee. Ma il segreto del successo della regione nordica contiene anche i rischi che si vanno rannuvolando sopra la penisola.
Essendo un’economia molto aperta, l’Europa vichinga ha tessuto profondi link non solo con le regione vicine, a cominciare da quelle baltiche, ma con tutto il globo. La somma di import ed export, per le quattro nazioni, oscilla fra il 62 e il 70% del Pil, e poi ci sono le connessioni finanziarie, quelle che preoccupano di più.
Oltre a condividere strettissimi legami morganatici fra loro, i Nordic 4 sono l’interfaccia finanziaria dei paesi baltici, sia per gli investimenti di portafoglio che per quelli diretti, e quindi i propalatori di un contagio che, da questi ultimi, può facilmente diffondersi.
Un pregevole box del Fmi disegna la ragnatela che oppone i vichinghi al resto del mondo, tessuto col filo degli investimenti diretti, di portafoglio e dei flussi commerciali. L’analisi del fondo rileva che i paesi nordici sarebbero fra i primi a subire gli effetti di uno shock che dovesse colpire i loro partner. Questi ultimi sono diversi. La ragnatela scandinava arriva dappertutto, di qua e di là dall’oceano.
Sul versante bancario, invece, gli shock partirebbero dai paesi verso i quali i nordici sono più esposti, quindi innanzitutto i paesi baltici. Ed è proprio la rilevanza degli asset bancari, che arrivano a superare il 400% del Pil in Danimarca, e i profondi intrecci che le banche dei Nordic 4 condividono la principale fonte di rischio.
E questo non dipende soltanto dal fatto che le banche scandinave siano generose prestatrici estere. Ma anche dalla circostanza che prestino parecchio anche a casa propria.
Tanta generosità, di conseguenza, ha creato un doppio rischio per il sistema scandinavo: quello di shock importati dall’estero, a causa di problemi nei paesi debitori, e shock generati dall’interno che a loro volta potrebbero comunicarsi ai paesi debitori.
“Il grande sistema bancario nordico – osserva il Fondo – supporta un livello relativamente elevato di debito privato”. Sempre in Danimarca, infatti, il livello di debiti sul reddito delle famiglie sfiora il 300%, in pratica il doppio degli altri paesi Ocse, mentre per le imprese la palma delle più indebitate spetta a quelle svedesi, che a fine 2011 quotavano debiti totali pari a circa il 150% del Pil. Sempre per la cronaca, vale la pena rilevare che i debiti delle famiglie sul reddito sono aumentati del 60% fra il 2000 e il 2011. Nessuno, nemmeno i nordici , è sfuggito alla bengodi del credito di inizio secolo.
Questa consuetudine, di avere bilanci privati carichi di debiti, è un’altra costituente del modello scandinavo, dove le famiglie in particolare (ma anche le imprese) condividono una rilevante ricchezza patrimoniale, rappresentata dal mattone o dai fondi pensione, che però è poco liquida e quindi soggetta agli stress da valutazione.
La grande paura, anche questa comune ai Nordic 4, è quella di un calo delle quotazioni immobiliari che possa accelerare il de-leveraging bancario e mettere sotto pressione le banche. Rischio tutt’altro che peregrino, visto che nella regione, in media, i prezzi delle case sono cresciuti di più del 120% fra il 1995 e il 2007. Dopo la crisi i prezzi hanno continuato a salire in Norvegia (+10%), mentre sono crollati del 30% in Danimarca. Al contrario sono rimasti stabili in Finlandia e Svezia.
Quindi è comprensibile perché “lo sviluppo dei prezzi delle case pone un rischio sulla stabilità macroeconomica, in un contesto di bilanci delle famiglie sotto pressione”. Le stime del Fmi, infatti, “suggeriscono che i prezzi delle case nei Nordic 4 siano sopravvalutati”, anche se in maniera disomogenea. Vale la pena ricordare che un calo di valore del mattone ha effetti su vari settori: dal consumi privato agli investimenti, che necessariamente ne risentirebbero, lato fiscale (meno incassi per il governo collegati al mattone) e infine sulla capacità di prestit delle banche.
Tanto teme quest’eventualità, il Fmi, che ha anche condotto delle stime, secondo le quali un calo dei prezzi degli immobili del 10% avrebbe come conseguenza una diminuzione del Pil aggregato fino al 2,5% in Danimarca, con gli investimenti residenziali privati a picco, in Svezia, del 28,5%.
Questo è forse il modo più semplice a cagione del quale l’artiglio scandinavo incardinato sui paesi baltici, qualora subisse uno shock, può facilmente affondare l’Europa.
Ma non è certo l’unico.
Ho già detto dell’ampiezza del sistema bancario nordico. Ebbene: a tale ampiezza corrisponde una notevole fame di finanziamenti che, in gran parte non arrivano dai depositi, ma dal mercato. Il Loan-to-deposit ratio, ossia il rapporto fra i prestiti e i depositi, supera il 200% in molte banche nordiche, che ritroviamo anche fra le top 20 nella classifica di questo indicatore. “Come ha dimostrato la crisi del 2008 – nota il Fmi – questa alta dipendenza dal mercato dei capitali ha aumentato la vulnerabilità del sistema bancario nordico agli shock da liquidità e di finanziamento”.
Ricapitolo: le banche nordiche sono al centro di una ragnatela di prestiti, interna e internazionale, che trova nei rischi del mercato immobiliare dell’area e nel pesante indebitamento privato, nonché nella sua stessa dimensione il fattore potenzialmente destabilizzante dell’economia regionale.
Fra i rischi “interni” a questo sistema bancario, merita una menzione quello inerente al largo utilizzo di covered bond, tramite i quali le banche nordiche attingono al mercato dei capitali (wholesale funding) emettendo obbligazioni in valuta nazionale ed estera. Le sei banche più grandi della regione avevano emesso 460 miliardi di covered bond a fine 2012, ossia il 70% del totale emesso nella regione e il 33% del totale dei convered bond emessi nel mondo.
Arma a doppio taglio, i covered bond, in quanto asset assicurati, visto che finiscono col ridurre, in caso di risoluzione bancaria, i fondi a disposizione per i bail in, oltre che generare un sovrappiù di costi per le banche che non li usano.
Tutto ciò viene complicato dal fatto che le banche nordiche sono profondamente interrelate fra loro. Il Fondo calcola che l’85% del totale delle esposizioni bancarie e dei depositi sono originati all’interno dei Nordic 4, così’ come il 75% dei bondo sovrani detenuti da queste banche sono di questi paesi.
Questo operare “più come banche regionali che come banche nazionali”, che individua meglio di ogni altra retorica l’artiglio vichingo, porta con sé una rilevante concentrazione di rischi. Basta un semplice dato per capirlo: quattro delle sei banche principali dell’area sono svedesi, e detengono asset pari al 120% del Pil dell’intera regione. Quindi un problema svedese ci mette pochissimo a diventare un problema nordico tout court, come peraltro è già accaduto negli anni ’90. Per questo il Fondo suggerisce di accumulare buffer fiscali comuni, da una parte, e di creare un sistema regionale di risoluzione bancario comune.
In sostanza il Fondo suggerisce di creare una base fiscale comune, se non formale almeno lato risorse, e una unione bancaria per limitare i rischi. Anzi, mentre che c’è definisce la recente Unione bancaria dell’eurozona “un’opportunità”. Che detto a paesi che condividevano un’unione monetaria fino a cent’anni fa individua l’Europa nordica/baltica come l’ennesimo esempio non riuscito di integrazione istituzionale sovranazionale.
Se neanche paesi che condividono così tanto in economia, dal sistema bancario, ai debiti, ai mercati immobiliari, e persino alle controparti estere, non si sono convinte a integrarsi in un’area comune, come può riuscirci l’eurozona?
Mi sorge il sospetto che tutti noi siamo vittime di un ricordo, che poi è diventato sogno.
Il sogno europeo.
Ovvero l’eredità dei nipotini di Carlomagno.
(4/segue)
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C’è del marcio in Danimarca?
Le ultime che arrivano dalla Danimarca ci raccontano dell’intenso dibattito politico, che potrebbe sfociare in un referendum, fra il governo e i partiti euroscettici su una serie di questioni europee: dall’adesione alla normativa Ue sui brevetti, all’Unione bancaria.
A parte provare una sana e benevole invidia – addirittura un paese dove si parla di cose reali – mi sono chiesto come mai la Danimarca, che pure è uno dei paesi creditori del mondo ed è fuori dall’euro (sempre dopo un referendum, lo ricorderete), abbia iniziato a discutere di queste cose, quando il buon senso dovrebbe suggerirle di non mischiarsi con i pasticcioni dell’eurozona, seppure per il tramite dell’adesione indiretta per via bancaria.
Poi mi sono capitati fra le mani un paio di discorsi. Uno del vicegovernatore della banca centrale finlandese Pentti Hakkarainen alla Mansion House di Londra. E l’altro del governatore della banca centrale danese, Lars Rohde, all’associazione della banche danesi che si occupano di mutui.
Il primo ha detto a chiare lettere che la regione nordica, ossia quel gruppo di paesi che vede insieme Svezia, Danimarca, Finlandia e Norvegia, avrebbe tutto da guadagnare se aderisse al meccanismo di supervisione bancaria (SSM) di recente approvato a Strasburgo, che vede la Bce nel ruolo di supervisore di 130 banche dell’area euro.
La ragione è presto detta: l’area nordica, come di recente ha illustrato con chiarezza anche uno staff report del Fondo monetario internazionale, è profondamente interrelata sul versante bancario. Talché una crisi bancaria in uno dei paesi avrebbe conseguenza devastante anche per gli altri, come peraltro dimostra l’esperienza della crisi bancaria di fine anni ’80 che travolse la Svezia.
La Finlandia, in quanto aderente all’euro, nell’Unione bancaria entrerà di diritto. E poiché sul suo territorio ospita diverse filiali di banche degli altri paesi dell’area del Nord, in ogni caso la Bce finirebbe col doversene occupare. Meglio sarebbe, di conseguenza, entrare direttamente nella sorveglianza unificata “per dare coerenza e semplificare la struttura di supervisione”, dice il nostro banchiere. Sarebbe un fatto tecnico, quindi, non eminentemente politico.
Peraltro tale opinione viene condivisa anche da diversi analisti. Una ricerca pubblicata da Bruegel, un think-tank economico, sottolinea che la Danimarca, ma anche la Svezia, “dovrebbero essere pronti a entrare” nel meccanismo SSM, per superare alcuni svantaggi competitivi.
In Svezia il dibattito per ora rimane sullo sfondo. Al contrario di quanto accade in Danimarca. E leggere quello che dice il governatore danese ci aiuta a capire perché.
Alcuni dati evidenziano la sostanza del problema. Con l’esplosione della crisi del 2008 il governo danese dovette mettere sul piatto una quantità ingentissima di risorse per mettere al sicuro il proprio sistema bancario. Il primo Bank reascue package previde garanzie esplicite del governo per 4.200 miliardi di corone per le banche danesi. Con il secondo Bank rescue package, il governo iniettò 46 miliardi di corone nel settore finanziario per evitare potenziali credit crunch, oltre a garantire 194 miliardi di corone di emissioni di debito.
Cinque anni dopo il governo aveva iniettato altri 31 miliardi di corone nelle sue banche. “Finora – dice il governatore – il governo non ha avuto costi diretti che non siano stati coperti, ma i rischi sono stati enormi. In questa prospettiva – conclude, non c’è alcun dubbio che si fosse bisogno di una stretta”.
Ma cosa aveva combinato il settore bancario danese per costringere il governo a farsi carico di questi “rischi enormi”?
Il problema, per la Danimarca come anche per tutta l’area nordica, è innanzitutto il debito privato. Le famiglie danesi sono imbottite di debiti, per lo più contratti per comprare casa, e l’andamento del settore non è rassicurante, con la conseguenza che “la crescita in Danimarca – dice il governatore – sta sotto il suo livello potenziale”, anche a causa dell’andamento piatto del consumo privato, cui certo non giova un alto livello di debiti.
Ad aggravare la situazione l’andamento dei corsi immobiliari, crollati nel biennio 2008-9, e declinati di circa il 10% anche nel 2011. Solo nel 2012 i prezzi sono risaliti, ma in maniera diseguale sul territorio. Nella capitale, l’anno scorso, i prezzi sono saliti del 10%. Ma non è andata così in tutto il paese. E tuttavia il sospetto che ci si possa trovare di fronte a unsettore squilibrato rimane.
Un’indagine svolta dalla banca centrale danese nella sua ultima Monetary review, citata dal governatore, compara i prezzi delle case a Copenhagen con altre capitali europee e sottolinea come 100 metri quadri nella capitale danesi costerebbero 2,3 milioni di corone, il doppio rispetto ad Oslo e Stoccolma e addirittura il triplo rispetto a Parigi, mentre a Berlino il costo sarebbe di circa 1,9 milioni di corone.
Ciò fa dire al nostro banchiere che “il livello dei prezzi a Copenhagen non è particolarmente alto rispetto a una prospettiva internazionale, ma non è probabile che i prezzi continuino a salire al passo che abbiamo visto l’anno scorso e neanche dovrebbero”. I prezzi immobiliari – dice “sono vicini al loro livello di equilibrio” anche se la storia insegna che “ci possono essere rilevanti deviazioni dal trend” anche a causa “della tassazione sulle case che contribuisce all’instabilità del settore”.
La stabilità del settore immobiliare è un pre-requisito della stabilità finanziaria delle banche danesi. E, indirettamente, vista l’esperienza storica, dell’equilibrio fiscale.
A proposito, la politica fiscale, dice il banchiere, “non dovrebbe essere rilassata”. Malgrado il deficit sia intorno al 3% scritto nelle tavole della legge ed è previsto rimanga a quel livello fino al 2015, non ci sono spazi per fare politica espansiva.
Perché? uno dei motivi è che dal lato credito bancario, dal 2008 in poi l’attività di prestito si è rafforzata nel settore delle banche che rilasciano mutui, mentre si è contratta nelle banche tradizionali. Significa che famiglie e imprese hanno acceso mutui invece che prestiti “normali” e le imprese, i particolare, hanno preferito finanziarsi emettendo bond piuttosto che chiedendo un affidamento bancario.
Ma questo significa solo che il rischio si è spostato da un settore bancario all’altro. E stante l’alto livello di indebitamento delle famiglie questo può essere un grave fattore di instabilità con conseguenze, in ultima analisi, anche per i conti dello stato.
A tal proposito è interessante notare che il governatore non crede che l’alto livello di debito privato possa destabilizzare le banche, perché dice, “i cittadini tendono a dare proprità al pagamento del mutuo sopra ogni cosa”, ma certo, ammette, potrebbero esserci effetti indiretti sulla domanda aggregata (già piatta) e quindi sull’equilibrio fiscale (già ai confini del deficit) qualora si verificasse una qualche forma di shock sui tassi d’interessi.
Si capisce perché la banca centrale danese si eserciti in diversi scenari apocalittici, finora più o meno rassicuranti. E anche perché si parli così tanto di Unione bancaria.
Per quanto il governatore sia convinto che “il settore finanziaro danese si è stabilizzato dal collasso della Roskilde bank del 2008”, lui stesso riconosce che ci sono un paio di questioni sul tappeto che suscitano qualche preoccupazione.
La prima è quella dei prestiti chiamati F1, ossia mutui che vengono rifinanziati annualmente. Quindi debito lungo che viene finanziato a breve. Un potente fattore di instabilità.
“Cosa succederebbe – dice – se una banca che opera nei mutui si trovasse nell’impossibilità di venderei suoi bond a breve coi quali finanzia i suoi prestiti a lungo?”
Risposta: “La banca centrale si comporterebbe come prestatore di ultima istanza, sempre che la banca in difficoltà abbia collaterali in quantità e qualità tali da avere credito”. E poiché i bond delle banche che erogano mutui sono entrati nei collaterali accettati dalla banca centrale, il problema sembra di facile soluzione.
Provo a tradurre: in caso queste banche non piazzino i propri bond sul mercato, li comprerà la banca centrale usando come collaterali gli stessi bond che nessuno vuole comprare. Di fatto significa buttare sulle spalle del bilancio dello stato il rischio di questi finanziamenti.
Ti credo che “non c’è rischio per la stabilità finanziaria”. Anche se “è importante trovare una soluzione di lungo termine”.
La seconda questione riguarda proprio la regolazione. “La crisi ha rivelato molte debolezze e le regole sono state rinforzate” dice, “ma adesso sembra che la crisi finanziaria sia stata già dimenticata e, come abbiamo già visto in passato, ci saranno pressioni per allentare le regole”.
Meglio mettersi sotto l’ala della Bce e tenere le dita incrociate.
Evidentemente c’è del marcio in Danimarcia.
Ops, Danimarca.
