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L’esito giapponese del miracolo cinese
Poiché mi persuade il pensiero che l’economia abbia a che fare con la fisiognomica assai più che con la matematica, ho letto con divertita sorpresa l’analisi contenuta nell’ultimo Geneva Report sullo stato di salute e le prospettive dell’economia globale dove ho trovato un capitolo sull’economia cinese. Ossia uno dei due vasi di ferro della nostra economia globale.
Divertito, perché il grande sforzo profuso dagli autori nell’elaborare aritmetiche astruse e congetture stocastiche non conduce poi così lontano da una considerazione che sarebbe bastata, appunto, la semplice fisiognomica a dedurre: i cinesi somigliano ai giapponesi. Le loro economie, quindi, di conseguenza. E la constatazione che tanto è capitalista il giapponese quanto comunista il cinese appare un miraggio che evapora di fronte alla sostanza della realtà.
Poiché la cosiddetta scienza economica non frequenta le seduzioni del paesaggio, contentandosi di astrazioni cervellotiche ed econometrie retoriche in omaggio al mito seicentesco dell’obiettività, tale affermazione parrà ai tanti esperti che si dicono tali una sorta di molle chiacchiericcio, incapace di sostenere una seria conversazione da accademia. E sicuramente è così: l’accademia, per evidenti ragioni di bottega, è il luogo della censura di ciò che ad essa non corrisponde.
Ma in quanto modesto narratore di storie socioeconomiche posso girare al largo, per fortuna. Salvo leggere con gusto le analisi degli economisti, come quella di cui voglio narrarvi qui che, provenendo da illustri studiosi, sazierà di sicuro l’appetito di chi frequenti l’analisi economica in cerca di certezze che si dicono inconfutabili. Ma fino a prova contraria.
Lo studio contenuto nel Geneva report (“China: Between a rock (rising and high debt) and a hard place (lower growth)”) sommarizza molte delle questioni che abbiamo imparato a conoscere della Cina. La marea montante dei suoi debiti, sostenuti con allegra generosità dal circuito bancario internazionale, pur nella consapevolezza di quanto sia traballante la finanza cinese, ormai sempre più immersa nell’ombra, dopo che il governo, per rispondere alla crisi post 2008, ha sponsorizzato una insensata crescita dei valori immobiliari che ormai sono giudicati insostenibili.
La novità è che gli studiosi del Geneva report tracciano un interessante parallelo fra quanto accaduto in Giappone e quanto potrebbe accadere in Cina, ipotizzando che l’esito del controverso miracolo economico cinese possa ridursi a una riedizione in stile XXI secolo di quanto accaduto in Giappone un trentennio fa.
Le prospettive ci sono tutte. La Cina si avvia con sempre maggiore decisione verso l’apertura del suo conto capitale, replicando quanto fece il Giappone, che già nel 1964 rese convertibile lo yen per poi inserirlo gradualmente nel grande gioco del mercato dei capitali. I più appassionati ricorderanno l’accordo Usa-Giappone del 1984 firmato proprio per consentire l’allagamento del mercato del denaro alla valuta giapponese e i grandi benefici che ne trasse il Giappone fino alla crisi terminale di fine anni ’80, con la quale i giapponesi stanno ancora facendo i conti senza che riescano ad uscirne.
Ma al di là delle analogie, che pure soddisfano gli amanti del paesaggio come me, ma non certo gli ortodossi della tradizione economica, sono i dati che parlano chiaro.
Dalla fine degli anni ’80 in poi, culminando tale processo con l’ingresso nel WTO del 2001, la Cina ha costruito se stessa come una gigantesca economia export led capace di sfruttare le sue peculiarità, a cominciare da una grande disponibilità di lavoro a basso costo, per spuntare tassi di crescita a due cifre che fino al 2007 facevano urlare il mondo intero al miracolo.
La storia è nota e non vale la pena tornarci sopra. Meno noto, ma per questo interessante, è sottolineare come la crisi del 2008 abbia sostanzialmente mutato il modello cinese. Da economia export-led, la Cina è diventata un’economia costretta a basarsi sulla domanda interna – e segnatamente sugli investimenti pubblici – per tenere in piedi un prodotto altrimenti (e comunque) declinante.
Tale inversione si è verificata in coincidenza con un vistoso rallentamento della produttività, trascinata al ribasso anche dall’andamento demografico cinese, assai sfavorevole.
Due grafici presentati nello studio fotografano bene questa situazione. Il primo raffigura la crescita della produttività dal 2002 al 2013. Qui si osserva che il il rapido trend ascendente, che fra il 2002 e il 2007 ha visto la produttività crescere a tassi fino al 14% l’anno, si è invertito bruscamente dal 2008 in poi, quando i tassi hanno cominciato a declinare bruscamente fino ad arrivare al 7% del 2013.
Il secondo grafico mostra l’incremento percentuale della popolazione in età lavorativa (15-64 anni). E qui già si osserva il primo parallelismo col Giappone.
Quest’ultimo ha visto tale quota crescere dal 1980 al 1990, quando ha raggiunto il picco, segnando un incremento di circa l’1,5% rispetto all’anno precedente, e da lì ha cominciato a declinare senza sosta. Nel 2000 la quota della popolazione 15-64enne declinava dell’1,5% rispetto ai cinque anni precedenti.
In Cina l’andamento è assai simile, ma ritardato. La fase ascendente si colloca fra il 1995 e il 2005, anno del picco, quando la quota di popolazione lavorativa cresceva fino al tasso del 2,5%. Ma da quell’anno in poi il trend diventa declinante, con un’inclinazione pressoché parallela a quella giapponese. Nel 2015 si stima che la percentuale arriverà in territorio negativo.
Il problema è che l’andamento sfavorevole della produttività e della demografia hanno proceduto di pari passo con il notevole incremento di debiti dell’economia cinese, che dal 2008 in poi ha visto crescere del 72% il suo debito complessivo, pubblico e privato, ossia a un ritmo del 14% l’anno. Un ritmo giapponese, viene da dire.
Dal che ne è conseguito che il debito totale cinese è arrivato al 220% del Pil, che non è il 562% giapponese, ma solo perché il Giappone ha cominciato un ventennio prima a cumularne. Un altro ritardo che però la Cina sembra bene intenzionata a colmare con la benedizione dei mercanti di capitale, che dal debito cinese hanno solo da guadagnarci.
Tale dato, secondo gli autori del report, “è la conseguenza di un uso inefficiente delle risorse” motivato proprio dal passaggio obbligato che i cinesi hanno dovuto subire trasformandosi da economia export led a economia che vive di investimenti pubblici. Che peraltro hanno provocato una chiara sovra capacità produttiva in diversi settori, a cominciare da quello delle costruzioni.
Peraltro tale esagerato leveraging si è rivelato sostanzialmente inefficiente. E’ vero che la politica di investimenti pubblici ha sostenuto la crescita, ma solo nel breve periodo “mancando l’obiettivo di supportare l’output potenziale” per giunta, proprio a causa della sovrapproduzione, “creando pressioni al ribasso sui prezzi”. Gonfiando i valori, insomma, ha creato le premesse per il loro sgonfiamento.
“Come conseguenza – scrivono – la Cina sta sperimentando una velenosa combinazione di alto e crescente indebitamento e prodotto declinante, che suggerisce una maggiore difficoltà a servire e ripagare i debiti in diversi settori. Queste difficoltà possono essere esacerbate dal fatto che è probabile che i tassi di interesse salgano”. Neanche la Cina, insomma, uscirà indenne dal redde rationem, e anzi, contribuirà non poco allo spauracchio, vista la sua profonda interconnessione con l’economia globale.
A complicare la gestione del debito cinese concorrono un paio di circostanze. La prima è che tale elargizione di crediti è stata concessa a prenditori deboli, come i governi locali, dove si annida una montagna di debito pubblico fuori bilancio, e poi che tali crediti sono in larga parte garantiti da prestatori deboli, ossia l’enorme circuito bancario ombra che fa circolare questa carta.
Anche qui, il dato è esemplare. Dal 2008 al 2012, i prestiti del settore bancario sono passati dal 66% al 60%, mentre quello del settore non bancario dal 23 al 33%.
Rimane aperta perciò la questione di come la Cina debba gestire questa montagna di debiti. E qui troviamo un’altra singolare somiglianza fra il debito cinese e quello giapponese. “Il debito cinese – sottolineano – è virtualmente tutto domestico, similmente a quello giapponese”. A quelli che osservano che ciò dipende dal fatto che in Cina i movimenti di capitale sono repressi, in entrata e in uscita, ricordo solo che ciò non vale per il Giappone.
Ciò implica che il governo abbia spazio sufficiente, trattandosi di debiti interni, per farne ciò che vuole. Ma certo non gratis. I vari scenari presi in esame dallo studio arrivano sempre alla conclusione che curarsi dal debito provocherà, per un motivo o per un altro, un rallentamento nell’attività economica, vuoi perché il governo dovrà salvare qualcuno dal fallimento e quindi avrà meno risorse da prestare a chi vuole investire, vuoi perché dovrà investire di meno per non continuare a creare turbative sui prezzi. In ogni caso una minore crescita cinese avrà i suoi effetti all’estero, specie se il rallentamento cinese dovesse accoppiarsi con un indebolimento della moneta.
“Uno scenario più probabile per la Cina – sottolineano infatti – è una combinazione di inflazione e svalutazione della moneta che indirettamente sposti il peso dell’aggiustamento sull’estero”. Cioé in pratica quello che il Giappone sta cercando di fare con inaudita volontà di potenza nell’ultimo anno, che ha condotto a una corposa svalutazione dello yen e a un rialzo dell’inflazione eccezionale, per gli standard deflazionari del Giappone.
“Può anche darsi – osservano infine – che il governo decida di affrontare il rallentamento strutturale mantenendo l’attuale livello di crescita dell’indebitamento. Ma questa ipotesi è probabile conduca a una crisi, posposta e per questo brusca”.
E’ ovvio che se i cinesi finiranno col fare come i giapponesi, che non sanno più cosa giocarsi sul tavolo del loro personalissimo casinò, lo scopriremo solo vivendo, come diceva il poeta.
Intanto contentiamoci di notare che le prerogative ci sono tutte e che le due economie si somigliano sempre più.
Ma questo, noi viandanti amanti dei paesaggi, lo sapevamo già.
La guerra dei cent’anni del debito americano
Ora che il debito totale americano ha superato il 360% del Pil, dopo aver sfiorato il 400% appena pochi anni fa, dovrebbe esser chiaro a tutti che siamo di fronte a un tornante della storia e che nessuno sa cosa ci aspetti finita la curva.
Ma chi avesse dubbi dovrebbe iniziare a pensarci sopra, magari osservando un grafico elaborato nell’Ultimo Geneva Report on the world economy, che si intitola icasticamente “Deleveraging? What deleveraging”, a significare del sostanziale fallimento del riequilibrio globale, osservandosi con chiarezza che il disindebitamento del settore privato, che alcuni paesi hanno compiuto, è stato compensato dall’aumento del debito del settore pubblico. Col che si osserva che il deleveraging globale, ammesso che si sia verificato, è stato esiziale, per non dire ininfluente.
Il grafico in questione tratta degli Stati Uniti, e non a caso, essendo gli Usa non solo un Grande Debitore – e difatti gli autori del report parlano di re-leveraging – ma anche l’emittente della moneta più usata negli scambi internazionali. Le obbligazioni americane, perciò, non sono proprio come tutte le altre.
Ma ciò che merita l’attenzione, di questo grafico, è che estende la curva dell’indebitamento americano, suddiviso nei vari settori, per gli ultimi cent’anni, raccontandoci perciò una storia che qui vale la pena riepilogare, trattandosi nientemeno che dell’epopea centenaria del debito americano. Una storia di guerra, peraltro, ora finanziaria, ora guerreggiata.
Infatti il nostro racconto parte dal 1916, quando l’America era ancora lontana dal confitto mondiale pur cumulando un già rispettabile debito globale superiore a circa il 150% del Pil. E’ interessante tuttavia osservare, nella composizione di tale debito, la larga preponderanza del debito corporate, intorno al 100%. Il bilancio pubblico cumulava debiti intorno al 10-15% del Pil, e le famiglie erano più o meno allo stesso livello. Insieme, stato e famiglie, stavano intorno al 30%. Il restante 20% – le cifre sono un ordine di grandezza, non sono precise – erano debiti del settore finanziario.
S’intravede in quel tempo una società frugale, dove lo stato era sparagnino e le famiglie pure. Le banche erano prudenti e il rischio stava doveva essere: nelle aziende. Che si indebitavano per, capitalisticamente, far profitti.
Con l’entrata in guerra si osserva il primo cambiamento. Il settore pubblico e quello privato aumentano i debiti, mentre quello corporate rimane stabile. Alla fine del conflitto il debito globale era persino diminuito, ma ne era mutata la composizione. Il settore pubblico arriva a sfiorare il 50% del pil e quello delle famiglie segue la stessa traiettoria.
I ruggenti anni venti si segnalano per una diminuzione del debito pubblico, seppure moderata, e da un crescente indebitamento delle famiglie, incantate dai beni durevoli, vera novità degli anni venti, delle aziende, che li producevano, e della banche, che li finanziavano. Sicché alla fine del decennio d’oro il debito globale quotava intorno al 200% del Pil. Il popolo americano sperimentava la sua prima euforia finanziaria.
La devastazione degli anni ’30 provocò un effetto disastroso sul debito/pil, innanzitutto perché crollò il denominatore. Gli esperti la chiamano debt-deflation. L’indice si portò al 300%.
L’America si trovò a dover gestire un debito di guerra senza neanche essere in guerra, e infatti non si peritò nell’utilizzare strumenti di guerra per riportarlo alla normalità.
Se ne vede traccia nell’aumentato peso relativo del debito pubblico, conseguenza del New Deal, rispetto alle altre componenti, che accompagnò, declinando dolcemente lungo gli anni trenta e i primi anni ’40, il deleveraging globale. Prima dell’ingresso in guerra, il debito globale era sceso intorno al 200%, ma l’economia americana era già profondamente mutata. S’intravede il ruolo crescente, per non dire preponderante, dello stato, che ormai prende per mano i capitalisti e le sorti stesse dell’economia. Questo è il principale esito della guerra economica degli anni ’30.
Con i preparativi e l’ingresso in guerra l’importanza del bilancio pubblico diventa preponderante. Fra la prima e la seconda metà degli anni ’40 il debito pubblico americano s’impenna fino a superare il 100% del Pil a fronte di un debito totale intorno al 160%. La guerra economica dei ’30 e l’economia di guerra dei ’40 combinate insieme avevano trasformato in un trentennio la patria del capitalismo nel Leviatano.
Se guardiamo a un altro grafico, che misura il bilancio della Fed in rapporto al Pil, osserviamo un’altra cosa. Il livello attuale, oltre il 24% del Pil, non è stato mai raggiunto, neanche nel 1945, quando al massimo era arrivato al 16%. E già questo dovrebbe bastare a capire che l’America è in guerra, pure oggi.
Nel dopoguerra il pattern cambia nuovamente. Il governo intraprende un trend declinante del suo indebitamento che porta con sé anche quello del settore privato. Nel corso degli anni ’50 si osserva un peso crescente dell’indebitamento delle famiglie, ma quando intorno al 1955 il debito scende sotto il 150%, al livello del 1916, l’America sembra un paese completamente differente. Il peso del debito pubblico è oltre la metà del totale. Il capitalismo americano è in buona parte un capitalismo dove lo stato gioca un ruolo da protagonista.
Dalla fine degli anni ’50 e per tutti i sessanta il debito pubblico declina, sempre in rapporto al Pil. Ricordo che quelli furono gli anni della grande crescita del prodotto, mentre il rapporto debito/pil rimase costante anche se con tendenza al rialzo. Ciò vuol dire che l’aumento in valore assoluto dei debiti veniva compensato da quello del Pil.
L’economia americana, tuttavia, stava nuovamente cambiando faccia. Al declinare del debito pubblico, infatti, corrispose una crescita rigogliosa di quello delle famiglie e delle imprese, che proseguì per tutti i sessanta e i settanta. L’economia americana intraprese il suo percorso di economia che cresce grazie al debito, alimentandosi sostanzialmente col consumo interno. Il Grande Debitore diventò anche il Grande Consumatore. Una simpatica riedizione, rivista e corretta (al rialzo) degli anni venti.
La novità che si osserva dal finire dei ’50 è l’indebitamento crescente del settore finanziario, che prosegue in crescita da quel momento in poi estendendosi a partire dai ’70. Altra novità, comincia ad essere visibile il debito delle entità statali sponsorizzate dal governo che, pur non essendo conteggiate nel debito del governo, di fatto capitalizzano un debito che è sostanzialmente pubblico.
Dalla metà degli anni ’80 il debito pubblico riprende a salire, anche se assai meno di quello privato e finanziario. Nel 1986 ormai il totale viaggia intorno al 200% del Pil e si impenna, spinto da tutte le componenti, fino al 250 un decennio dopo. La componente del debito delle famiglie e delle banche diventano maggioritarie. Il cittadino-debitore-consumatore, con le banche chiamate a sostenere i suoi desiderata e le imprese ad alimentarli, è ormai il paradigma della crescita.
Nei primi anni 2000, mentre il debito pubblico è di nuovo in discesa – pesa circa il 50% de Pil – il totale ha ormai superato il 300%, e non accenna a rallentare. Anzi: la curva dell’indebitamento è ripida come mai nella storia ormai quasi centenaria del debito dell’economia americana.
Nel 2007, al picco, arriva a sfiorare il 400%, con banche e famiglie a fare la parte del leone.
Scoppiata la crisi avviene una sorta di swap. Il debito pubblico s’impenna, tornando a livelli che ricordano quelli antecedenti alla guerra, quello delle banche (salvate dallo stato) crolla, quello delle famiglie si stabilizza con tendenza al ribasso, così come quello delle imprese, mentre una quota rilevante rimane in pancia alle entità sponsorizzate dallo Stato.
Così arriviamo ad oggi. Con una differenza, rispetto agli anni trenta. In quel tempo fu il crollo del denominatore a far salire il rapporto debito/pil. Oggi è l’aumento del numeratore. Quindi è il valore assoluto dei debiti a crescere.
Il debito monstre che l’America cova amorevolmente, e che gira vorticosamente per tutto il mondo, è distribuito pressoché egualmente fra stato, famiglie, imprese e banche, anche se stato e banche mostrano un peso relativo leggermente superiore agli altri settori. Il capitalismo americano somiglia sempre più chiaramente al tardo capitalismo preconizzato da Werner Sombart nel 1902, dove lo Stato ormai è attore più che attivo nel processo economico.
La guerra dei cent’anni fra Usa e debito mostra un chiaro vincitore: il debito è arrivato al 363% del Pil.
Gli sconfitti siamo noi.