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I consigli del Maître: Il “miracolo” demografico tedesco e quello cinese dell’hi tech

Anche questa settimana siamo stati ospiti in radio degli amici di Spazio Economia. Ecco di cosa abbiamo parlato.

Effetti della politica migratoria tedesca. L’istituto tedesco di statistica ha diffuso i dati dell’aumento della popolazione straniera in Germania negli ultimi dieci anni, che mostrano un deciso aumento degli immigrati. A fine 2017 l’anagrafe conta 10,6 milioni di residenti stranieri.

E’ interessante osservare che molto dell’aumento dal 2007,quando i residenti stranieri erano circa 7 milioni, riguarda i cittadini di paesi extra Ue. Si tratta in gran parte del milione di siriani che il governo ha fatto entrare negli anni scorsi anche se adesso l’incremento degli ingressi si è normalizzato. E’ interessante osservare però che questa “normalizzazione” ha avuto effetti notevoli dal punto di vista demografico. Guardate i tassi di natalità in Germania di dieci anni fa.

E quelli del 2016.

In qualche modo la decisione di far entrare i profughi siriani ha cambiato la demografia tedesca. E la cosa merita di essere messa in evidenza.

Le conseguenze non intenzionali del QE della Fed. La Fed di S. Louis ha pubblicato un paio di interessanti ricerche che ci consentono di osservare una delle tante conseguenze non intenzionali, seppure ampiamente prevedibili, del QE messo in campo dalla Fed nel 2008. Per fornire liquidità al sistema la banca centrale ha dovuto ampliare le riserve della banche commerciali espandendo di conseguenza il proprio bilancio. Le riserve delle banche sono cresciute notevolmente.

Senonché i banchieri si resero conto subito di avere un problema. “”È stato necessario pagare gli interessi su tali depositi al fine di evitare un’eccessiva crescita monetaria unicamente a seguito dell’iniezione temporanea di liquidità nel sistema bancario durante la crisi finanziaria”, come ha spiegato David Wheelock, della Fed di S. Louis. Prima di allora infatti la banca centrale pagava zero interessi sulle riserve bancarie, mentre da quel momento in poi questo asset ha iniziato ad essere remunerato.

Quindi ha Fed ha generato un utile alle banche commerciali pagando loro un notevole tasso di interesse che ha reso conveniente alle banche tenere le riserve bancarie ferme anziché creare depositi emettendo prestiti. Il trend di rialzo del tasso di remunerazione dei depositi segue logicamente quello dei rialzi dei tassi di interesse, necessario per evitare che all’alzare dei tassi le banche inizino a prestare anziché tenere fermi i soldi nelle riserve. Conclusione: l’inflazione è rimasta bassa – fin troppo – e le banche commerciali hanno guadagno interessi pagati dal governo. Dai contribuenti, sarebbe più giusto dire.

La svalutazione del dollaro e lo yuan. Sempre la Fed di S. Louis ha pubblicato alcuni grafici che ci consentono di osservare la notevole svalutazione del dollaro che si è registrata nel corso del 2017 rispetto a tutte le principali valute. E’ interessante osservare in particolare, visto l’acuirsi delle tensioni commerciali fra i due paesi, il cambio nei confronti dello yuan, che gli Usa sostengono da sempre essere sottovalutato.

Prima ancora che scoppiasse la guerra dei dazi, sembra fosse scoppiata quella valutaria. Solo che è stata una guerra assai più silenziosa. Il che non vuol dire che non sia stata efficace, visto che la svalutazione del dollaro rispetto allo yuan si è tradotto in un notevole salasso per il governo cinese, che ha più di 1.100 miliardi di dollari investiti in titoli di stato Usa.

Se la Cina diventa una potenza digitale. Una interessante analisi pubblicata dal World economic forum prendendo spunto da un’analisi McKinsey mostra la straordinaria evoluzione registrata dall’economia digitale cinese che si può rappresentare con questo grafico, che ormai si avvia a superare quella Usa.

La Cina in pratica è il primo mercato per le transazioni commerciali digitali, passando dallo 0,6% del valore del 2005 a oltre il 42% nel 2016, supera di 11 volte il valore dei pagamenti digitali che si fanno con tecnologia mobile gli Usa e soprattutto li ha superati per numero di “unicorni”, ossia le compagnie private valutate un miliardi di dollari o oltre, per lo più a vocazione hi tech. Certamente la quantità di popolazione aiuta. Ma non c’è solo questo. I cinesi erano tanti pure prima.

I consigli del Maître: Le sofferenze bancarie italiane e quelle tedesche

Anche questa settimana siamo stati ospiti in radio degli amici di Spazio Economia. Ecco di cosa abbiamo parlato.

Le sofferenze di Visco. Si è molto parlato dell’invito del governatore della Banca d’Italia Visco a correggere in maniera sostanziale il nostro bilancio pubblico, contenuto nelle lunghe considerazioni finali recitate lo scorso 31 maggio all’assemblea di Banca d’Italia, come è tradizione. Pochi si sono soffermato su alcuni dati molto interessante contenuti nel documento che fanno riferimento allo stato delle sofferenze bancarie.

Come si può osservare dal grafico, le sofferenza sono in calo, pure se elevate e comunque abbiamo passato periodi peggiori. Ciò che fa la differenza è il contesto nel quale queste sofferenze sono inserite. Oggi i governi hanno ridotti spazi di manovra, vuoi perché in sede europea sono state approvate nuove norme che limitano parecchio la capacità di intervento, vuoi perché di nostro abbiamo poco spazio fiscale. Ma di che cifre stiamo parlando? Visco riporta che alla fine del 2016 i crediti deteriorati iscritti nei bilanci, al netto delle rettifiche di valore, erano pari a 173 miliardi, pari al 9,4% dei prestiti complessivi. Visco sottolinea che l’ammontare di circa 350 miliardi, spesso citato sulla stampa, si riferisce al valore nominale delle esposizioni e non tiene conto delle perdite già contabilizzate nei bilanci”. Dei 173 miliardi di crediti deteriorati netti, 81 miliardi, il 4,4 per cento dei prestiti totali, riguardano crediti in sofferenza, a fronte dei quali le banche detengono garanzie reali per oltre 90 miliardi e personali per quasi 40. Vi sono poi 92 miliardi di altre esposizioni deteriorate, già svalutate per circa un terzo del valore nominale. Viene anche sottolineato che “tre quarti delle sofferenze nette sono detenuti da banche le cui condizioni finanziarie non impongono di cederle immediatamente sul mercato”, mentre quelle in capo a banche in difficoltà che possono essere costrette a disfarsene rapidamente “ammontano a circa 20 miliardi”. Ma è importante sottolineare che “i valori ai quali i crediti in sofferenza sono iscritti nei bilanci sono in linea con i tassi di recupero effettivamente osservati negli ultimi dieci anni. Se fossero venduti ai prezzi molto bassi offerti dai pochi grandi operatori specializzati oggi presenti sul mercato, che ricercano tassi di profitto molto elevati, l’ammontare di rettifiche aggiuntive sarebbe dell’ordine di 10 miliardi”. In sostanza, se questi 20 miliardi in bilico fossero venduti ai prezzi di mercato, le banche titolari dovrebbero soffrire una perdita da 10 miliardi che probabilmente, essendo già in crisi, le manderebbe al tappeto.

Le sofferenze possibili dei tedeschi. Moody’s ha rilasciato uno studio molto interessante sul sistema bancario europeo e giapponese confrontandolo con quello americano. Tema: la divergenza degli andamenti bancari al divergere della politica monetaria. Tema attualissimo, visto che la biforcazione dei tassi Usa da quelli euro giapponese ormai dura da più di un anno e sta iniziando a svolgere i suoi effetti.

Come si osserva le banche Usa hanno tutto da guadagnare dal rialzo dei tassi. Hanno una bassa quota di asset a reddito fisso, rispetto alle colleghe europee e una minore sensitività, sul lato dei debiti, ai cambiamenti del tasso di interesse, mentre ce l’hanno molto elevata sul lato degli asset. Tutto questo impatta sul ROE, ossia il ritorno sugli asset che quota il doppio, ad esempio, rispetto alle banche tedesche. E sono proprio queste ultime quelle che soffrono di più. Adesso perché i tassi sono bassi. Domani, quando verranno rialzati, e Moody’s ipotizza da metà 2019, perché alcuni di loro, e in particolare le casse di risparmio e le banche cooperative, rischiano di pagare un prezzo salato per il funding che supererà il vantaggio che avranno sul lato degli asset dall’aumento dei tassi attivi. Non sono sole. Anche alcune banche francesi e svizzere sono in questa situazione. Quelle italiane non lo sappiamo. Moody’s non le considera. Forse perché non parliamo inglese.

Attenzione all’export. L’Istat di recente ha rivisto al rialzo il dato del Pil del primo trimestre 2017, praticamente raddoppiandolo rispetto alla prima stima diffusa il 16 maggio 2016. Su base trimestrale il dato è stato portato allo 0,4%, su base annuale all’1,2%. Pochi si sono soffermati ad osservare in che modo le diversi componenti che formano l’aggregato abbiano contribuito alla sua formazione. E invece è un’informazione utile da conoscere per poter calibrare le politiche economiche. Istat spiega che “la domanda nazionale al netto delle scorte ha contribuito per 0,3 punti percentuali alla crescita del PIL (0,3 i consumi delle famiglie e delle Istituzioni Sociali Private (ISP), 0,1 la spesa della Pubblica Amministrazione (PA) e -0,1 gli investimenti fissi lordi). Anche la variazione delle scorte ha contribuito positivamente alla variazione del PIL (0,4 punti percentuali), mentre l’apporto della domanda estera netta è stato negativo per 0,2 punti percentuali”. Quest’ultimo dato è un campanello d’allarme che non si dovrebbe sottovalutare. Come era stato previsto da molti, una crescita della componente interna viene pagata da un calo della componente estera. Si dirà che l’importante è che il totale sia positivo. Ma non bisogna ignorare il segnale. L’export è stato il nostro cavallo di battaglia finora. E forse dovremmo porci come obiettivo il far crescere gli investimenti capaci di migliorare i nostri saldi esteri, oltre al semplice perseguimento della crescita della domanda interna. Siamo l’Italia, non la Germania che ha attivi da spendere.

L’Europa cinese. Senza troppa enfasi sugli organi di informazione, l’1 e il 2 giugno si è svolto un summit a Bruxelles fra la Ue e la Cina, ennesimo momento di avvicinamento fra i due continenti dove si è trattato di questioni complesse, fra le quali lo status di economia di mercato della Cina. Questioni che non possono essere sottovalutate, specie in un mondo che si dice multipolare e che sta assistendo alla nascita di una nuova superpotenza che sta proprio sul fianco dell’Europa. Eurostat ci ricorda quanto siano profondi e pervasivi i legami fra l’Europa e i cinesi.

Notate che la Germania è uno dei pochi stati europei ad avere surplus sul conto delle merci nei fronti dei cinesi. L’europa cinese, vuoi o non vuoi, deve parlare pure un po’ di tedesco.