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Quel connubio fra euro e monete locali
Sicché pure in Gran Bretagna, che pure ha una moneta sovrana, una banca centrale e una politica monetaria, si sono affermati negli ultimi anni una serie di circuiti di monete locali. Ciò dimostra come l’uso e l’utilità di questi strumenti di pagamento non abbiano nulla a che vedere con la valuta del paese che li ospita.
Il fenomeno è diventato talmente interessante che la BoE gli ha dedicato un articolo nel suo ultimo Quaterly bulletin, intitolato “Banknotes, local currencies and central bank objectives” che tutti dovrebbero leggere se non altro per capire cosa siano e come funzionino questi strumenti, che non sono certo un’invenzione della modernità, ma una tradizione storica che si perpetua nel tempo. Dovrebbero leggerlo anche i nostri governanti, sempre a corto di idee, e i nostri banchieri, a cominciare da quelli di Bruxelles, perché magari si convincano che la logica “Euro o morte” alla fine denota solo un chiaro limite di immaginazione, e una scarsa volontà di pensare l’economia.
La prima circostanza che vale la pena sottolineare è che “alcune città inglesi hanno adottato schemi di moneta locale per promuovere la sostenibilità delle economie del territorio”. Quindi lo scopo di queste strumenti è “incrementare la spesa all’interno delle comunità locali”, ossia i consumi interni. Le monete locali inglesi, che ricordano quelle “reali” emesse dalla BoE hanno un valore facciale di una sterlina ed “è improbabile presentino rischi per la stabilità finanziaria e monetaria”, sottolinea la banca centrale, purché sia chiaro che queste monete non sono sterline.
Prima di entrare nel merito, vale la pena fare un piccola ricognizione storica, che ci dice moltissimo sulla moneta e sulla logica che ne guida l’utilizzo.
La Banca d’Inghilterra iniziò ad emettere banconote nel 1694, ma solo dal 1921 le è stato concesso il monopolio dell’emissione. Tuttavia, caso più unico che raro, ad alcune banche inglesi è stato concesso di emettere banconote, segnatamente in Scozia e nell’Irlanda del Nord. Per tale ragione, nel 2009, il governo firmò una legge che provvedeva, in caso di insolvenza di qeste banche, a garantire i possessori il riscatto a valore nominale di queste banconote private.
In aggiunta a queste banconote ci sono altri mezzi di pagamento a disposizione degli inglesi per i loro scambi. Fra questi i vouchers, e, più di recente, le banconote locali. Una tradizione, quest’ultima, che affonda le radici in una storia lontana.
E’ opportuno ricordare alcune nozioni, che abbiamo già incontrato, ma che è sempre utile ripetere. La moneta svolge tre funzioni chiave che ne giustificano l’esistenza: è un mezzo di scambio, quindi serve a rendere possibili i pagamenti; è una riserva di valore, quindi può essere tesaurizzata e venduta al pari di qualsiasi altra merce, è una unità di conto, ossia serve a misurare il valore di un qualsiasi bene o servizio.
In quanto mezzo di scambio e riserva di valore, la moneta, quindi, è essenzialmente un’obbligazione. Chi ha emesso la moneta, in pratica, ha un debito nei confronti di chi la detiene. La sua qualità di riserva di valore ha spinto le società, nella storia, a servirsi di metalli preziosi che in qualche modo, per convenzioni, incorporano un valore.
Tanto è vero che i primi banchieri inglesi del XVI secolo erano gli orafi, che prendevano il metallo prezioso come deposito e emettevano ricevute che certificavano il loro debito nei confronti dei proprietari del metallo. Questi ultimi, nel tempo, trovarono più pratico usare queste ricevute come mezzo di pagamento piuttosto che il metallo conservato dagli orafi, incoraggiandoli a prestare quanto avevano in deposito nella convizione che assai difficilmente tutti i depositanti avrebbero chiesto la restituzione dei loro beni. Che poi è come funzionano le banche ancora oggi.
Nel corso del XVII secolo il governo inglese iniziò a chiedere prestiti agli orafi per finanziare una serie di guerre contro la Francia. Tali prestiti furono concessi a tassi talmente elevati che provocarono una serie di default statali. E così si arrivò, nel 1694, alla fondazione della Banca d’Inghilterra, l’antesignana della BoE, concepita proprio allo scopo di individuare una forma di finanziamento più a basso costo per lo Stato. E’ l’atto di nascita delle banche centrali, sorta di ircocervo fra stato e mercato. La Banca emetteva note di banco (poi diventate banconote) sulla base del capitale versato dai soci privati.
Senonché, nel frattempo, le solite turbolenze finanziarie avevano iniziato a dragare a tal punto le riserve aurifere delle banche emittenti che si arrivò, già nel 1821, alla sospensione della convertibilità. Successe di nuovo agli albori della Grande Guerra di cent’anni fa e ancora una volta nel 1931, dopo la breve parentesi del ritorno al gold standard. Lo sganciamento della convertibilità inglese (meno conosciuto del più famoso americano sganciamento del dollaro dall’oro nel 1971) segna l’avvento dell’epoca della fiat money, ossia della moneta di banca centrale sostenuta esclusivamente dalla promessa di pagamento implicita (del governo) rappresentata da questi pezzi di carta (le banconote).
Sorge un dibattito mai sopito in dottrina, fra i cosiddetti cartalisti e i metallisti.Ossia, banalizzando, fra coloro che credono che la moneta abbia un valore convenzionale e chi crede che l’abbia intrinsecamente legato al metallo che la rappresenta.
Mentre la moneta “ufficiale” segue la sua storia, alla sua ombra fioriscono le monete locali che vengono pensate esclusivamente in quanto mezzi di scambio e unità di conto, mentre la funzione di riserve di valore viene manifestamente scoraggiata, per non dire penalizzata. Il che ha perfettamente senso. Una moneta che non ha valore intrinseco deve essere scambiata. E di conseguenza ha il vantaggio che fa girare l’economia.
Uno degli esempi pià interessanti è quello messo in campo nel 1832 da Robert Owen, un riformatore preoccupato delle miserabili condizioni di vita della working class inglese che creò borse del lavoro a Londra e Bimingham per quotare ed emettere “labour notes” con le quali remunerare i lavoratori, nella convinzione che tale sistema conducesse a una più equa ripartizione della ricchezza fra le classi sociali. Il sistema ebbe un notevole successo all’inzio, ma dopo due anni fallì.
Alcuni decenni dopo, un economista, Silvio Gesell, influenzato dalla crisi argentina del 1890, avanzò l’idea che usando una moneta “accelerata” si potesse sconfiggere la depressione strisciante. L’espediente era emettere moneta soggetta a uno deprezzamento pianificato, in modo tale da incoraggiarne la spendita. Significa privilegiare il ruolo di mezzo di scambio (e unità di conto) e svilire quello di riserva di valore. Il pensiero che c’è dietro che è la moneta serva all’economia, quindi allo scambio, non alla tesaurizzazione (ossia alla rendita).
Un esempio di questo principio si sviluppò in Austria, nel 1932, nella città di Worgl. La città adottò una “moneta accelerata” che si svalutava l’1% nominale ogni mese, nella convizione che l’economia avrebbe tratto giovamento dall’aumentata velocità di circolazione. Ma la banca centrale austriaca mise fine all’esperimento un anno dopo.
Anche negli Stati Uniti, nella lunga depressione degli anni ’30, ci furono diversi esperimenti di moneta locale. Anche a causa dei numerosi fallimenti bancari che provocarano un grave scarsità di denaro. Molti presero a prestito i principi di Gesell, quindi moneta soggetta a periodici deprezzamenti proprio per rivitalizzare l’agonia del sistema produttivo. I sistemi si diffusero in tutto il paese, ma mancò quello che poi è l’ingrediente fondamentale che sostiene una moneta: la fiducia. Pochi accettavano la carta “accelerata” come mezzo di pagamento.
Ma probabilmente l’esperimento più riuscito e tuttora vivente sulle monete locali è quello della banca Wir, in Svizzera, attivo sin dal 1934. Sempre dai tempi della depressione, non a caso. Il sistema fu fondato da alcuni imprenditori proprio per far fronte alla scarsità di valuta seguita alla crisi del ’29. E’ un sistema puramente contabile che prevede di concedere credito agli aderenti. Anche stavolta, la base teorica era quella di Gesell. Solo che invece di prevedere una moneta accelerata, i partecipanti al sistema non percepiscono interessi sulle somme a credito che sono soggette a un tasso negativo se vengono tenute ferme.
Chi ha letto Keynes davvero (e non ne ha solo sentito parlare) troverà eco di tali pratiche in tanti suoi scritti.
Arriviamo ad oggi. I circuiti delle monete locali hanno ripreso vigore in concidenza con l’esplosione della crisi economica. In comune, questi circuiti, hanno il fatto che si tratta di circuiti locali chiusi e limitate ad aree particolari, che usano queste valute per comprare beni e servizi al loro interno. Quindi sono di grande sostegno alle economia di territorio in quanto favoriscono il credito fra i partecipanti e la circolazione degli scambi. Ciò implica, e questo è il suo limite, che quanto più ampio sarà il consorzio dei partecipanti e tanto più benefici saranno gli effetti per il territorio, ma anche il contrario: un piccolo consorzio, implica piccoli vantaggi per il resto dell’economia locale, come nota anche la BoE.
Anche qui, l’ingrediente magico che potrebbe cambiare le cose è la fiducia, che poi è quella che sostiene le banche centrali.
Se tali circuiti fossero sponsorizzati e incentivati dai governi, anziché da piccole comunità locali (pensate ad esempio al circuito Sardex, in Sardegna), forse la moneta “illegale” potrebbe servire l’economia (non finanziaria) assai meglio di quella legale.
Ciò spiega perché alcuni economisti oggi guardino con interesse all’istituzione di circuiti di moneta locale con basi istituzionali più robuste di quanto possano assicurare loro regimi di territorio.
Si arriva così a proposte che è sicuramente utile approfondire, come quella di affiancare all’euro, che è una moneta completa dei tre requisiti che abbiamo visto, una serie di monete locali, magari legate ai singoli stati, che non svolgano il ruolo di riserva di valore. Ne parlano in un libro recente (Come salvare il mercato dal capitalismo) due economisti e storici dell’economia, Massimo Amato e Luca Fantacci.
Ed è interessante leggerlo perché ci fa capire un’altra cosa. Nel dibattito sempre più lacerante fra chi vuole uscire dall’euro e chi vuole restarci, esiste una terza via che solo pochi hanno immaginato e che potrebbe servire allo scopo di far ripartire l’economia senza creare lacerazioni: affiancare una o più monete locali più o meno nazionale (che non svolgano funzione di riserva di valore) all’euro, che rimarrebbe il mezzo internazionale di pagamento, l’unità di conto degli scambi internazionali, e la riserva di valore sui mercati finanziari.
Ciò restituirebbe ai territori quell’autonomia monetaria la cui mancanza viene tanto lamentata e, se ben costruita, potrebbe ridare fiato all’economia, basandosi su un sistema di compensazione multilaterale fra i partecipanti al circuito monetario che di per sé facilita il credito e quindi gli investimenti.
Si dirà che non è possibile. Che è una stupidaggine. I più benevoli diranno che è un’utopia.
Ma questa, semmai, è una buona ragione per lavorarci su.
Dall’Ue all’UeP: ritorno al futuro
Sappiamo dove siamo: l’eurozona vive uno squilibrio delle bilance dei pagamenti che ha generato la crisi dei debito, pubblico e privato, e le sofferenze dei paesi fragili, chiamati con le cattive a rientrare dalla loro esposizione con i paesi forti.
Sappiamo che è in atto una correzione di questi squilibri che sta provocando forti fibrillazioni politiche e il desiderio in molti di rompere l’unione monetaria, accusata di essere la causa di questi squilibri per i suoi difetti di costruzione.
Sappiamo al contempo che a livello sovranazionale sta procedendo a tappe forzate il progetto di Unione bancaria, che si propone di aggiustare gli squilibri agendo su alcuni fattori giudicati di instabilità, come il nesso profondo che c’è fra le banche e il debito degli stati dove sono residenti, e restituendo la fiducia alle banche europee attraverso un profondo processo di assessment ed eventuale risoluzione, sempre che si riesca ad accordarsi sulle norme per tempo.
Un progetto ancora per nulla metabolizzato dalle opinioni pubbliche europee, confinato com’è nel sapere specialistico, che sono invece impegnate nella battaglia che si propone di restituire agli stati la sovranità monetaria, mentre a Bruxelles si prepara la tappa successiva dell’Unione europea: l’unione fiscale.
In sostanza, la crisi ha esarcebato la dialettica, finora silente, fra gli stati nazionali dell’eurozona e le istituzioni sovranazionali, e nessuno sa come andrà a finire.
Poniamoci una semplice domanda: cosa dovrebbe fare l’eurozona, ma più in generale l’Europa, per uscire dalla crisi, che non risparmia neanche i paesi fuori dall’Unione monetaria?
Tutti dicono: serve la crescita.
E come dovrebbe ripartire?
Poiché il futuro è quantomai incerto, riavvolgiamo il nastro della storia, che come dice il proverbio è (o dovrebbe essere) maestra di vita.
L’Europa si è trovata in condizioni assai peggiori di quelle in cui si trova adesso, eppure è stata capace di inventare uno strumento che in pochi anni ha contribuito a generare il miracolo economico degli anni 50. Vale la pena, perciò, tornare a raccontare questa storia.
1947. L’Europa è uscita a pezzi dalla guerra. Le città e i sistemi produttivi sono distrutti. I paesi sono pesantemente indebitati. Gli Stati Uniti si trovano nella situazione opposta: hanno un sistema industriale integro, anzi rafforzato dall’economia di guerra, e sono diventati i grandi creditori del mondo occidentale.
Hanno un sacco di crediti, che minacciano di diventare inesigibili se i paesi europei non si riprenderanno, e un sacco di merci che devono essere vendute a qualcuno che non ha i soldi per pagarle.
In questa temperie trova la sua origine il piano Marshall.
Nel giugno di quell’anno ci fu il celebre discorso di Marshall sulle scale del Memorial Church di Harvard che sfociò poi, un mese dopo nell’apertura della conferenza sul Piano di Parigi. Gli americani, che alla fine dei quattro anni di vigenza del piano versarono agli stati europei circa 17 miliardi di dollari dell’epoca, insistettero a lungo sulla necessità che i paesi europei usassero gli aiuti non solo per comprare cibo e benzina, ma soprattutto per sviluppare la libertà di commercio e l’integrazione europea.
Il seme dell’Europa unita fu piantato allora.
Infatti un anno dopo, nel 1948, Truman firmò il decreto che istituiva l’ECA, Economic cooperation administration, che doveva occuparsi di amministrare gli aiuti del piano Marshall. Contestualmente all’ECA, fu fondata in Europa la OECE, un’organizzazione che avrebbe dovuto occuparsi di sviluppare la cooperazione economica in Europa, oltre a controllare la distribuzione dei fondi gestiti dall’ECA. All’OECE, che di fatto fu la prima istituzione sovranazionale del nostro continente, aderiscono subito 16 paesi europei: Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi bassi, Portogallo, Regno Unito, Svezia, Svizzera e persino la Turchia. Un anno dopo aderì anchela Germania federale.
E furono proprio i paesi dell’OECE i protagonisti dell'”invenzione” tecnica che rivoluzionò le sorti dell’Europa: l’Unione europea dei pagamenti, UeP.
Non fu un percorso facile. Un paio di vignette che ho trovato on line lo raccontano meglio di mille parole. In una, pubbicata il 28 dicembre del ’49 dal cartoonist inglese David Low, si vedono i politici europei impelegati in discussioni sull’integrazione europea, mentre un bimbetto alato con in testa il cilindro americano e la scritta 1950 sul pannolino esorta a fare presto :”Time, gentlemen, Time”. In un’altra, pubblicata il 28 marzo 1950 sempre da Low, si vedono i leader europei dell’UeP nuotare in una piscina insieme, mentre sul bordo, che confina con un’altra piscina, quella dell’area valutaria della sterlina, ci stanno politici inglesi evidentemente indecisi su dove tuffarsi.
Sembra storia di oggi.
L’Uep fu fondata nel 1950 col preciso scopo di sviluppare il commercio fra i paesi europei. Il meccanismo di base prevedeva l’utilizzo di una clearing house, che fu individuata nella Banca dei regolamenti internazionali (BRI), presso la quale i paesi aderenti avevano aperto dei conti dove venivano registrati i flussi monetari provenienti da export e import dei singoli paesi. Ogni mese la banca calcolava i saldi e comminava un pagamento di interessi ai paesi in debito e un riconoscimento di utile a quelli in surplus.
Ma la trovata che fece funzionare il meccanismo fu la multilateralità delle compensazioni. Fino ad allora i paesi europei avevano concluso un gran numero di accordi bilaterali – se ne contarono oltre 400 dal ’47 in poi – ma tali accordi rivelavano il loro limite nel fatto che i crediti di un paese non potevano essere compensati con i debiti verso un paese terzo. Tutto ciò, in un momento di grande scarsità di capitale e di riserve delle banche centrali, rendeva i flussi di commercio anemici e incapaci di risollevare le sorti dell’industria europea.
La clearing house, invece, fu dotata di fondi sufficienti a finanziare i deficit temporanei delle bilance commerciali dei paesi in deficit per il tempo necessario a rientrare, grazie alle loro esportazioni, dei loro debiti. Tali fondi arrivarono proprio dal Piano Marshall, e forse furono quelli spesi meglio.
Questo primo esperimento di autentica cooperazione monetaria in Europa aveva un’altra caratteristica che lo rendeva unico: così come scoraggiava il debitore ad accumulare deficit, imponendo un interesse sugli scoperti, allo stesso tempo scoraggiava il creditore dall’accumulare surplus. I creditori, infatti, avevano diritto a vedersi rimborsare dall’Uep solo una parte dei surplus e se volevano di più dovevano chiedere una deroga al consiglio direttivo dell’Uep, che di conseguenza disponeva di un formidabile strumento di pressione per spingere il paese creditore a liberalizzare i propri commerci o aumentare le importazioni.
In pratica il sistema intereuropeo dei pagamenti tendeva al naturale riequilibrio.
E che fosse l’equilibrio il principale obiettivo di questo sistema sistema si capisce leggendo anche i documenti dell’epoca.
In un memorandum segreto del 14 dicembre 1949 scritto a Parigi per la delegazione inglese, intitolato “The future of intra-european payment”, l’autore stigmatizza alcune misure che, scrive, “non scoraggiano i creditori e i debitori dal mantenere uno stato di squilibrio” ed esorta la delegazione a farsi carico di modifiche che impongano “al debitore di migliorare la sua posizione potendo contare sul deficit senza alcuna obbligazione da parte sua”, mentre per bisognava fare in modo che il paese creditore potesse “importare sempre più liberamente dai suoi debitori”.
Lo scopo del gioco era innanzitutto quello di evitare, grazie alla compensazione multilaterale, lo spostamento di oro o dollari dalle riserve dei paesi, che erano risicate. E tuttavia, “tali spostamenti non possono essere esclusi”, dice l’anonimo estensore. In ogni caso “sarebbe desiderabile che i creditori e i debitori trovassero un modo alternativo per ripristinare l’equilibrio attraverso l’aumento di importazioni del creditore, la svalutazione della valuta o la deflazione interna del debitore, o il contrario per il creditore, oppure la restrizione dell’import per il debitore”.
Parole che oggi ci sono diventate familiari.
Concetti simili sono ribaditi in un altro memorandum del marzo 1950 presentato dalla delegazione Belga all’OECE, che sottolinea come l’obiettivo fondamentale e immediato dell’UeP sia quello di “ristabilire l’equilibrio finanziario interno, e di conseguenza esterno, dei paesi partecipanti al sistema che deve agire come un fondo di stabilizzazione che contiene in se stesso i correttiviti necessari per opporsi sia all’inflazione che alla deflazione”. Altri obiettivi: “l’allargamento del mercato interno, l’aumento della produttività e della produzione totale” (anche questo vi dovrebbe suonare familiare) e poi “una liberalizzazione completa degli scambi e delle transazioni” e la “ricostituzione delle riserve delle banche centrali”.
Per regolare le compensazioni, ovviamente, occorreva che ci fosse una parità fissata fra le valute nazionali e l’unità di conto internazionale, che fu fissata in grammi d’oro basandosi sul valore aureo del dollaro. Alla fine di ogni mese si procedeva alle copensazioni che venivano saldate in oro o crediti presso l’UeP.
Per dare un’idea del successo ottenuto dall’UeP bastano alcuni dati tratti da studi internazionali. Dopo l’Uep il commercio intraeuropeo aumentò del 130%, le esportazioni verso gli Stai Uniti addirittura del 206%. L’occupazione aumentò del 10%, il Prodotto nazionale lordo reale del 48%.
Fu l’inizio del boom.
Proprio quello che ci servirebbe oggi.
Fatto sta che il 28 dicembre 1958 l’Uep fu chiusa. Gli Stati, e le loro banche centrali, sentivano ormai di essere forti abbastanza per affrontare il cambio fisso col dollaro come era stato previsto a Bretton Woods. Il suo posto fu preso dall’EMA, European monetary agreement, ossia l’Accordo monetario europeo, che avrebbe segnato l’inizio della convertibilità delle monete europee e che era stato siglato il 5 agosto del 1955 al fine di istituire un fondo di riserva europeo (il papà dell’ESM) per quei paesi la cui bilancia dei pagamenti mostrava un deficit, un sistema di compensazione oltre a un sistema di perequazione basato sui tassi di cambio al fine di tenerli più stabili possibile.
L’AME avrebbe dovuto sostituire L’UeP, ma alla fine non funzionò perché a differenza dell’UeP, il sistema di compensazione multilaterale e della concessione dei prestiti fra paesi non era obbligatorio né automatico.
Il pendolo della storia si era spostato dall’entità sovranazionale agli stati nazionali, ormai gagliardamente tornati protagonisti della storia.
Esattamente il contrario di quello che sta avvendendo oggi.
La domanda perciò che sarebbe opportuno farsi è: possiamo mutuare un qualche insegnamento dal nostro passato?
Una riposta affermativa l’ho trovata in un libro pubblicato l’anno scorso da due economisti e storici dell’economia, Massimo Amato e Luca Fantacci (Come salvare il mercato dal capitalismo, Donzelli). Secondo i due studiosi non solo occorre una nuova Unione europei dei pagamenti, ma disponiamo già dell’infrastruttura finanziaria per attuarla. La camera di compensazione, osservano, oggi si chiama Target 2, il sistema di pagamento utilizzato dalla Bce per gestire i regolamenti fra le banche centrali dell’eurosistema. Target 2 è servito a finanziare i deficit dei paesi colpiti dalla crisi, tramite le loro banche centrali.
Come sappiamo tali saldi sono tuttora squilibrati, Basterebbe allora applicare il sistema della UeP degli oneri simmetrici per il riaggiustamento (quindi oneri per i debitori, ma anche per i creditori) per trasformare Target 2 nella nuova Unione europea dei pagamenti. In omaggio a questa logica, bisognerebbe imporre limiti all’accumulazione di deficit e surplus, oltre a fissare un tasso di interesse sugli uni e sugli altri, e la possibilità di aggiustare i tassi reali, se non nominali, in caso di squilibri persistenti.
In questo sistema l’esistenza di valute nazionali è un dettaglio, purché i cambi siano fissi o aggiustabili ma non in maniera unilaterale, e quindi potrebbero partecipare alla nuova UeP anche i paesi fuori dall’euro. La stessa Turchia, come era sessant’anni fa.
Un salto nel passato.
E un ritorno al futuro.
