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I nuovi mostri: l’alba delle controparti centrali

Una delle conseguenza meno esplorate dell’esplosione della crisi finanziaria del 2008 è stata il sorgere prepotente delle Controparti centrali. Prepotente perché imposto da uno dei tanti G20 andati in scena dopo il grande crollo per cercare di salvare il mondo. E in questa hybris regolatoria i pezzi grossi hanno determinato di affidare a queste entità, che c’erano anche prima ma facevano (e fanno) dell’altro, di entrare a gamba tesa nel florido mercato dei derivati Otc, che, come abbiamo visto, muove appetiti corposi e correlati rischi.

Dal 2009 in poi tanta strada è stata fatta e tanta carta riempita di buone intenzioni. Col risultato che ormai le controparti centrali, che sono normali clearing house, hanno finito col connotarsi come il costituendo pilastro della stabilità finanziaria presente e, soprattutto futura.

Senonché, siccome, com’è noto, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, ecco che i nostri regolatori notano con malcelato disappunto che centralizzare le operazione di compensazione (clearing) finanziaria di tutto il mondo in pochi soggetti, come di fatto sta succedendo in ossequio alle disposizione del G20, crea un rischio sistemico che prima non c’era (nel senso che ce n’era un altro).

Ossia: siccome le controparti centrali ora faranno assai più di quanto facevano prima, proprio per ridurre i rischi che abbiamo visto all’opera nella Grande Crisi, è venuto a determinarsi un rischio nuovo, che prima non c’era, che è “senza precedenti e altamente distruttivo”, almeno secondo quanto dice Benoit Couré, banchiere centrale della Bce, che all’emergere prepotente – sempre perché imposto – delle controparti centrali – ha dedicato un pregevole discorso qualche giorno fa (“Risks in Central counterparties (CCPs)”, 23 gennaio 2014).

Per dirla in altre parole: siamo condannati a passare costantemente dalla padella alla brace. Prima o poi finiremo con lo bruciarci sul serio, quindi.

Essendo, a quanto pare, impossibile sfuggire al destino amaro dell’instabilità, vale la pena almeno cercare di capire di cosa stiamo parlando.

Le controparti centrali (CCPs) svolgono un ruolo molto importante nel sistema finanziario internazionale, segnatamente all’interno dell’Ue. I dati forniti da Couré ci dicono che nel 2012 le clearing house europee hanno compensato, in valore nozionale, circa 200 trilioni di euro (200 mila miliardi) di derivati quotati e altrettanti trilioni di transazioni repo. Il grosso del lavoro sui derivati sta in capo a Eurex, mentre la maggior parte delle operazioni su repo è appannaggio di LCH Clearnet Lt, società rispettivamente tedesca e inglese, così come è inglese la ICE clear Europe, mentre è francese la LCH Clearnet SA. C’è anche un clearing house italiana, la CC&G.

Le CCPs agivano anche sul mercato dei derivati OTC, quindi non regolamentati, ma affidati a meccanismi bilaterali. In questi contratti, come abbiamo visto, una terza parte si interpone fra le due controparti. Opera quindi un meccanismo di compensazione bilaterale, mentre le clearing house si distinguono per essere camere di compensazioni multilaterali.

Non è un semplice dettaglio tecnico. “Le CCPs – spiega Couré – consentono di “nettizzarre” multilateralmente le esposizioni, così che un certo livello di protezione dal rischio viene raggiunto con un minor ammontare di collaterale, o, viceversa, un certo livello di collaterale può consentire un più alto livello di protezione dal rischio”.

Il principio è molto semplice: la compensazione multilaterale, proprio perché interviene fra più soggetti che possono essere contemporaneamente sia debitori che creditori diminuisce l’esposizione globale del credito del sistema, e  di conseguenza, il rischio, che perciò genera una minor richiesta di capitale a garanzia (il collaterale). In sostanza consente di giocare la guerra della finanza con meno munizioni, ma con un volume di fuoco crescente.

Chiaro perciò che le CCPs abbiano incontrato il favore dei regolatori, da sempre crucciati dalle mancanze di capitale delle nostre istituzioni finanziarie.

Si stima, dice sempre Couré, che dopo la migrazione nella loro piattaforma delle transazioni sui derivati OTC, la loro operatività crescerà di almeno il 25% globale. Ciò strapperà alle banche d’affari, finora dominus incontrastate di questo mercato, una fetta notevole delle loro commissioni.

Considerate che prima delle migrazioni le CCPs, a livello globale, hanno mediato 142 trilioni di derivati, a fronte dei 362 trilioni delle banche. Dopo la migrazione si stima che le CCPs compenseranno 268 trilioni di derivati a fronte dei 237 delle banche. Figuratevi quanto saranno contente.

Le buone notizia finiscono qui.

Couré individua con chiarezza le criticità alle quali ci espone questa svolta sistemica.

La prima è la concentrazione di questi soggetti, che diventano sempre più grossi, “di importanza sistemica senza precedenti”. Il default di una clearing house, perciò, “potrebbe condurre a un distruzione sistemica molto seria”. Come se finora avessimo scherzato.

Il secondo rischio deriva dal fatto che le banche, uscite dalla porta, stanno rientrando dalla finestra.  “Un numero crescente di banche – dice – sta partecipando alle CCPs in tutto il mondo”. Comprensibile, vista la quantità di soldi che gira. E questo collegamento può causare serie criticità che ognuno può immaginare.

Terzo rischio: l’interrelazione profonda fra le CCPs. “A causa della mutualizzazione, perdite o carenze di liquidità, nel caso di default di un componente, possono diffondersi agli altri partecipanti”, spiega Couré. E, come se non bastasse tale interrelazione non si limita alle CCPs, visto che a loro volta, sono collegate con altre istituzioni finanziarie”.

Tanti interrogativi generano una risposta che non può che essere ulteriormente regolatoria. Quindi un livello di risk management più elevato da chiedere alle CCPs, una più profonda attività di due diligence da richiedere alle banche che partecipano al loro capitale. E poi “un robusto regime di recovery o risoluzione”, in modo che se devessero fallire potrebbero farlo ordinatamente.

Detto in parole semplici: stiamo creando nuovi mostri che potrebbero fare danni planetari, e pensiamo di imbrigliarli con delle sane regole di comportamento.

Con la buona educazione.

Come se non avessimo fatto altro negli ultimi anni. Inutilmente, peraltro, visto che l’entità delle crisi che abbiamo originato è stata sempre direttamente proporzionale all’incremento della regolazione.

Detto in parole ancora più semplici: stiamo creando le premesse per il prossimo disastro.

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Dall’Ue all’UeP: ritorno al futuro

Sappiamo dove siamo: l’eurozona vive uno squilibrio delle bilance dei pagamenti che ha generato la crisi dei debito, pubblico e privato, e le sofferenze dei paesi fragili, chiamati con le cattive a rientrare dalla loro esposizione con i paesi forti.

Sappiamo che è in atto una correzione di questi squilibri che sta provocando forti fibrillazioni politiche e il desiderio in molti di rompere l’unione monetaria, accusata di essere la causa di questi squilibri per i suoi difetti di costruzione.

Sappiamo al contempo che a livello sovranazionale sta procedendo a tappe forzate il progetto di Unione bancaria, che si propone di aggiustare gli squilibri agendo su alcuni fattori giudicati di instabilità, come il nesso profondo che c’è fra le banche e il debito degli stati dove sono residenti, e restituendo la fiducia alle banche europee attraverso un profondo processo di assessment ed eventuale risoluzione, sempre che si riesca ad accordarsi sulle norme per tempo.

Un progetto ancora per nulla metabolizzato dalle opinioni pubbliche europee, confinato com’è nel sapere specialistico, che sono invece impegnate nella battaglia che si propone di restituire agli stati la sovranità monetaria, mentre a Bruxelles si prepara la tappa successiva dell’Unione europea: l’unione fiscale.

In sostanza, la crisi ha esarcebato la dialettica, finora silente, fra gli stati nazionali dell’eurozona e le istituzioni sovranazionali, e nessuno sa come andrà a finire.

Poniamoci una semplice domanda: cosa dovrebbe fare l’eurozona, ma più in generale l’Europa, per uscire dalla crisi, che non risparmia neanche i paesi fuori dall’Unione monetaria?

Tutti dicono: serve la crescita.

E come dovrebbe ripartire?

Poiché il futuro è quantomai incerto, riavvolgiamo il nastro della storia, che come dice il proverbio è (o dovrebbe essere) maestra di vita.

L’Europa si è trovata in condizioni assai peggiori di quelle in cui si trova adesso, eppure è stata capace di inventare uno strumento che in pochi anni ha contribuito a generare il miracolo economico degli anni 50. Vale la pena, perciò, tornare a raccontare questa storia.

1947. L’Europa è uscita a pezzi dalla guerra. Le città e i sistemi produttivi sono distrutti. I paesi sono pesantemente indebitati. Gli Stati Uniti si trovano nella situazione opposta: hanno un sistema industriale integro, anzi rafforzato dall’economia di guerra, e sono diventati i grandi creditori del mondo occidentale.

Hanno un sacco di crediti, che minacciano di diventare inesigibili se i paesi europei non si riprenderanno, e un sacco di merci che devono essere vendute a qualcuno che non ha i soldi per pagarle.

In questa temperie trova la sua origine il piano Marshall.

Nel giugno di quell’anno ci fu il celebre discorso di Marshall sulle scale del Memorial Church di Harvard che sfociò poi, un mese dopo nell’apertura della conferenza sul Piano di Parigi. Gli americani, che alla fine dei quattro anni di vigenza del piano versarono agli stati europei circa 17 miliardi di dollari dell’epoca, insistettero a lungo sulla necessità che i paesi europei usassero gli aiuti non solo per comprare cibo e benzina, ma soprattutto per sviluppare la libertà di commercio e l’integrazione europea.

Il seme dell’Europa unita fu piantato allora.

Infatti un anno dopo, nel 1948, Truman firmò il decreto che istituiva l’ECA, Economic cooperation administration, che doveva occuparsi di amministrare gli aiuti del piano Marshall. Contestualmente all’ECA, fu fondata in Europa la OECE, un’organizzazione che avrebbe dovuto occuparsi di sviluppare la cooperazione economica in Europa, oltre a controllare la distribuzione dei fondi gestiti dall’ECA. All’OECE, che di fatto fu la prima istituzione sovranazionale del nostro continente, aderiscono subito 16 paesi europei: Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi bassi, Portogallo, Regno Unito, Svezia, Svizzera e persino la Turchia. Un anno dopo aderì anchela Germania federale.

E furono proprio i paesi dell’OECE i protagonisti dell'”invenzione” tecnica che rivoluzionò le sorti dell’Europa: l’Unione europea dei pagamenti, UeP.

Non fu un percorso facile. Un paio di vignette che ho trovato on line lo raccontano meglio di mille parole. In una, pubbicata il 28 dicembre del ’49 dal cartoonist inglese David Low, si vedono i politici europei impelegati in discussioni sull’integrazione europea, mentre un bimbetto alato con in testa il cilindro americano e la scritta 1950 sul pannolino esorta a fare presto :”Time, gentlemen, Time”. In un’altra, pubblicata il 28 marzo 1950 sempre da Low, si vedono i leader europei dell’UeP nuotare in una piscina insieme, mentre sul bordo, che confina con un’altra piscina, quella dell’area valutaria della sterlina, ci stanno politici inglesi evidentemente indecisi su dove tuffarsi.

Sembra storia di oggi.

L’Uep fu fondata nel 1950 col preciso scopo di sviluppare il commercio fra i paesi europei. Il meccanismo di base prevedeva l’utilizzo di una clearing house, che fu individuata nella Banca dei regolamenti internazionali (BRI), presso la quale i paesi aderenti avevano aperto dei conti dove venivano registrati i flussi monetari provenienti da export e import dei singoli paesi. Ogni mese la banca calcolava i saldi e comminava un pagamento di interessi ai paesi in debito e un riconoscimento di utile a quelli in surplus.

Ma la trovata che fece funzionare il meccanismo fu la multilateralità delle compensazioni. Fino ad allora i paesi europei avevano concluso un gran numero di accordi bilaterali – se ne contarono oltre 400 dal ’47 in poi – ma tali accordi rivelavano il loro limite nel fatto che i crediti di un paese non potevano essere compensati con i debiti verso un paese terzo. Tutto ciò, in un momento di grande scarsità di capitale e di riserve delle banche centrali, rendeva i flussi di commercio anemici e incapaci di risollevare le sorti dell’industria europea.

La clearing house, invece, fu dotata di fondi sufficienti a finanziare i deficit temporanei delle bilance commerciali dei paesi in deficit per il tempo necessario a rientrare, grazie alle loro esportazioni, dei loro debiti. Tali fondi arrivarono proprio dal Piano Marshall, e forse furono quelli spesi meglio.

Questo primo esperimento di autentica cooperazione monetaria in Europa aveva un’altra caratteristica che lo rendeva unico: così come scoraggiava il debitore ad accumulare deficit, imponendo un interesse sugli scoperti, allo stesso tempo scoraggiava il creditore dall’accumulare surplus. I  creditori, infatti, avevano diritto a vedersi rimborsare dall’Uep solo una parte dei surplus e se volevano di più dovevano chiedere una deroga al consiglio direttivo dell’Uep, che di conseguenza disponeva di un formidabile strumento di pressione per spingere il paese creditore a liberalizzare i propri commerci o aumentare le importazioni.

In pratica il sistema intereuropeo dei pagamenti tendeva al naturale riequilibrio.

E che fosse l’equilibrio il principale obiettivo di questo sistema sistema si capisce leggendo anche i documenti dell’epoca.

In un memorandum segreto del 14 dicembre 1949 scritto a Parigi per la delegazione inglese, intitolato “The future of intra-european payment”, l’autore stigmatizza alcune misure che, scrive, “non scoraggiano i creditori e i debitori dal mantenere uno stato di squilibrio” ed esorta la delegazione a farsi carico di modifiche che impongano “al debitore di migliorare la sua posizione potendo contare sul deficit senza alcuna obbligazione da parte sua”, mentre per bisognava fare in modo che il paese creditore potesse “importare sempre più liberamente dai suoi debitori”.

Lo scopo del gioco era innanzitutto quello di evitare, grazie alla compensazione multilaterale, lo spostamento di oro o dollari dalle riserve dei paesi, che erano risicate. E tuttavia, “tali spostamenti non possono essere esclusi”, dice l’anonimo estensore. In ogni caso “sarebbe desiderabile che i creditori e i debitori trovassero un modo alternativo per ripristinare l’equilibrio attraverso l’aumento di importazioni del creditore, la svalutazione della valuta o la deflazione interna del debitore, o il contrario per il creditore, oppure la restrizione dell’import per il debitore”.

Parole che oggi ci sono diventate familiari.

Concetti simili sono ribaditi in un altro memorandum del marzo 1950 presentato dalla delegazione Belga all’OECE, che sottolinea come l’obiettivo fondamentale e immediato dell’UeP sia quello di “ristabilire l’equilibrio finanziario interno, e di conseguenza esterno, dei paesi partecipanti al sistema che deve agire come un fondo di stabilizzazione che contiene in se stesso i correttiviti necessari per opporsi sia all’inflazione che alla deflazione”. Altri obiettivi: “l’allargamento del mercato interno, l’aumento della produttività e della produzione totale” (anche questo vi dovrebbe suonare familiare) e poi “una liberalizzazione completa degli scambi e delle transazioni” e la “ricostituzione delle riserve delle banche centrali”.

Per regolare le compensazioni, ovviamente, occorreva che ci fosse una parità fissata fra le valute nazionali e l’unità di conto internazionale, che fu fissata in grammi d’oro basandosi sul valore aureo del dollaro. Alla fine di ogni mese si procedeva alle copensazioni che venivano saldate in oro o crediti presso l’UeP.

Per dare un’idea del successo ottenuto dall’UeP bastano alcuni dati tratti da studi internazionali. Dopo l’Uep il commercio intraeuropeo aumentò del 130%, le esportazioni verso gli Stai Uniti addirittura del 206%. L’occupazione aumentò del 10%, il Prodotto nazionale lordo reale del 48%.

Fu l’inizio del boom.

Proprio quello che ci servirebbe oggi.

Fatto sta che il 28 dicembre 1958 l’Uep fu chiusa. Gli Stati, e le loro banche centrali, sentivano ormai di essere forti abbastanza per affrontare il cambio fisso col dollaro come era stato previsto a Bretton Woods. Il suo posto fu preso dall’EMA, European monetary agreement, ossia l’Accordo monetario europeo, che avrebbe segnato l’inizio della convertibilità delle monete europee e che era stato siglato il 5 agosto del 1955 al fine di istituire un fondo di riserva europeo (il papà dell’ESM) per quei paesi la cui bilancia dei pagamenti mostrava un deficit, un sistema di compensazione oltre a un sistema di perequazione basato sui tassi di cambio al fine di tenerli più stabili possibile.

L’AME avrebbe dovuto sostituire L’UeP, ma alla fine non funzionò perché a differenza dell’UeP, il sistema di compensazione multilaterale e della concessione dei prestiti fra paesi non era obbligatorio né automatico.

Il pendolo della storia si era spostato dall’entità sovranazionale agli stati nazionali, ormai gagliardamente tornati protagonisti della storia.

Esattamente il contrario di quello che sta avvendendo oggi.

La domanda perciò che sarebbe opportuno farsi è: possiamo mutuare un qualche insegnamento dal nostro passato?

Una riposta affermativa l’ho trovata  in un libro pubblicato l’anno scorso da due economisti e storici dell’economia, Massimo Amato e Luca Fantacci (Come salvare il mercato dal capitalismo, Donzelli). Secondo i due studiosi non solo occorre una nuova Unione europei dei pagamenti, ma disponiamo già dell’infrastruttura finanziaria per attuarla. La camera di compensazione, osservano, oggi si chiama Target 2, il sistema di pagamento utilizzato dalla Bce per gestire i regolamenti fra le banche centrali dell’eurosistema. Target 2 è servito  a finanziare i deficit dei paesi colpiti dalla crisi, tramite le loro banche centrali.

Come sappiamo tali saldi sono tuttora squilibrati, Basterebbe allora applicare il sistema della UeP degli oneri simmetrici per il riaggiustamento (quindi oneri per i debitori, ma anche per i creditori) per trasformare Target 2 nella nuova Unione europea dei pagamenti. In omaggio a questa logica, bisognerebbe imporre limiti all’accumulazione di deficit e surplus, oltre a fissare un tasso di interesse sugli uni e sugli altri, e la possibilità di aggiustare i tassi reali, se non nominali, in caso di squilibri persistenti.

In questo sistema l’esistenza di valute nazionali è un dettaglio, purché i cambi siano fissi o aggiustabili ma non in maniera unilaterale, e quindi potrebbero partecipare alla nuova UeP anche i paesi fuori dall’euro. La stessa Turchia, come era sessant’anni fa.

Un salto nel passato.

E un ritorno al futuro.

Quello che nessuno dice sui derivati

Mi sono stancato di leggere lunghi e documentati articoli sui derivati che dicono tutti più o meno la stessa cosa: che i derivati sono tanti, sono troppi, sono oscuri, sono pericolosi.

Da quando è scoppiata la crisi, poi, la letteratura sui derivati gareggia con quella sulle cospirazioni, quanto a volumi prodotti e capacità di dire tutto e il suo contrario. C’è chi dipinge i derivati come l’origine dei mali dell’umanità, forte della circostanza che per la maggior parte si tratta si strumenti  esotici e quindi incomprensibili per il grande pubblico. C’è chi dice che invece sono uno strumento importante per la gestione del rischio e la produzione di liquidità.

Raramente però mi è capitato di leggere la cosa più importante. Ossia che i derivati fanno parte da trent’anni dell’architettura finanziaria globale e il loro sviluppo è stato la conseguenza della creazione di una nuova tecnologia di pagamento: il credito infragiornaliero (intraday), che ha rivoluzionato il sistema internazionale dei pagamenti. I derivati, insomma, non avrebbero mai potuto svilupparsi così tanto se non avessero avuto alle spalle un sistema creditizio capace di sostenerli.

Tutti quelli che si lamentano dei derivati, insomma, tendono a scambiare il dito con la direzione. L’epifenomeno, con il fenomeno.

Farebbero meglio a lamentarsi, se proprio devono, del livello abnorme raggiunto dal credito (ossia dal debito) sul Pil a livello globale. Ma se lo facessero dovrebbero anche dire che proprio tale sviluppo abnorme ha consentito un livello di benessere per tante parti del mondo mai raggiunto prima nella storia.

Tutto si tiene.

Altrove ho già parlato della differenza fra moneta legale e moneta bancaria. Quest’ultima ha guidato l’espansione del credito, e quindi della liquidità, negli ultimi tre secoli. Ma il grande balzo iniziato dalla fine degli anni ’70, quando l’ondata di liberalizzazione dei capitali ha provocato quella che gli storici chiamano “finanziarizzazione” dell’economia, ha ulteriormente innovato, accelerandolo, il processo di creazione della liquidità, costringendo a ripensare tutti i meccanismi di regolazione e controllo. Se si ignora questo processo, non si capisce cosa ci sia sotto i derivati e perché siano sistemicamente rilevanti.

Faccio un piccolo passo indietro. Nel 1973 due economisti, Ronald McKinnon e Edward Shaw, introducono il concetto di “repressione finanziaria” per caratterizzare lo stato dell’arte dei sistemi finanziari nel mondo, dove erano presenti forti restrizioni all’ingresso nel settore bancario e controlli sui movimenti di capitali.

L’epoca della stagflazione, ossia di stagnazione e inflazione, che caratterizzò gli anni ’70, ebbe come conseguenza la reazione a questo stato di cose, culminata col processo di liberalizzazione, che ebbe effetti sia sull’attività bancaria che sul movimento dei capitali.

Comincia l’esplosione del credito che il grafico che intitola questo blog illustra meglio di mille parole.

Per il mondo finanziario è l’inizio di una rivoluzione che trova proprio negli strumenti derivati il suo alfiere, visto che si tratta si marchingegni molto elastici e facilmente replicabili.

L’idea che sottostà a tali prodotti, ossia la “mercificazione dei rischi” e quindi la possibilità di distribuirli vendendoli, come è stato efficacemente detto, si dimostra vincente.  Alla metà degli anni ’80 i derivati erano ancora “invisibili”. A metà degli anni ’90 il loro valore nozionale (quindi il valore facciale stimato dei contratti) superava i 20 mila miliardi di dollari. Agli inizi del XXI secolo eravamo già oltre gli 85 mila miliardi. A metà dell’anno scorso, secondo i dati della Bri, eravamo arrivati a circa 670 trilioni di dollari, più o meno dieci volte il Pil del mondo.

Questo spiega perché se ne parli così tanto. Mentre non si parla mai delle loro implicazioni sistemiche.

Il problema è che tale montagna di obbligazioni, perché tali sono i derivati da un punto di vista giuridico, deve essere sostenuta da un’infrastruttura finanziaria, ossia da un universo di entità che deve consentirne la circolazione e il pagamento. Specie quando tale pagamento viene per lo più regolato nell’arco dell 24 ore.

E qui arriviamo al punto: l’esplosione del volume dei derivati è direttamente collegata allo sviluppo del credito intraday, ossia di una modalità di credito che, a differenza del semplice credito bancario, è molto più concentrato e assai più opaco. Nei bilanci delle banche, pubblicati a cadenza trimestrale se va bene, appaiono solo i resoconti di queste “giornate vissute pericolosamente” sotto forma di profitti o perdite. Ma pochi sanno come si comportino le banche mentre operano.

Quello che dovremmo sapere, infatti, e che raramente ci viene detto quando leggiamo di derivati è che ormai la stragrande maggioranza delle operazioni cominciano e finiscono nell’arco della giornata operativa. Questo  nuovo modo di procedere, per essere sostenuto, ha bisogno di poter contare su liquidità sufficiente, pena un rovinoso credit crunch. Abbiamo visto proprio il congelamento del credito intraday nei giorni terribili dell’inizio della crisi finanziaria.

Da lì a poco sarebbe fallita Lehman Brothers.

Il credito intraday, quindi, è l’ultima frontiera dell’innovazione creditizia. La vera novità che ha cambiato la storia bancaria. Equiparabile alla prima banconota o al primo deposito.

Alcuni studi mostrano che nei decenni in cui il volume dei derivati cresceva di livello, la domanda di moneta a fini transattiva, in rapporto al Pil, rimaneva stabile mentre cresceva la quantità complessiva di moneta. L’unica spiegazione possibile, di conseguenza, è che l’incremento di tale volume sia stato sostenuto da un aumento della velocità di circolazione della moneta. Ricordo che, secondo la teoria quantitativa della moneta, l’offerta di moneta risulta dalla moltiplicazione della massa monetaria per la velocità di circolazione.

Ma se aumenta la velocità di circolazione, significa che cresce il numero di transazioni. E un aumento esponenziale delle transazioni implica che si accorci sempre più l’arco di tempo nel quale si svolgono. Ecco perché all’aumento esponenziale delle transazioni ha corrisposto lo sviluppo inusitato del credito intraday, categoria già esistente prima degli anni ’80, ma ancora “dormiente”.

Per farla semplice: i derivati sono la benzina, il credito intraday l’automobile. Ma senza l’automobile la benzina non esisterebbe. Al contrario di quanto accade nel mondo reale.

Il presupposto perché tale sviluppo dei derivati sia possibile, tuttavia, è che essi siano sempre perfettamente liquidi. Che, quindi, ci sia sempre qualcuno che li compri. Ciò implica che in ogni momento della giornata chi è chiamato a intermediare queste operazioni abbia la possibilità di attingere costantemente ad ampie provviste di liquidità per regolare le proprie pendenze. E l’unica fonte capace di garantire una simile cornucopia sono le banche centrali.

Sono le banche centrali a sostenere il credito intraday, che si potrebbe rappresentare come una montagna di transazioni interbancarie destinate ad essere aperte e chiuse nell’arco della giornata operativa. E sono proprio loro, all’inizio di questo processo, a doversi fare carico degli intoppi. Nel corso della giornata operativa, infatti, può succedere che molte banche si trovino esposte per valori molto superiori al propri patrimonio. E se qualcosa va storto è la banca centrale a doverci mettere una toppa, “monetarizzando” gli eventuali scoperti, salvo poi sterilizzarli.

La storia ci fornisce alcuni esempi. Nel 1985 un problema di calcoli sbagliati mise la Bank of New York, banca che operava nel mercato dei titoli americani, nell’impossibilità di chiudere gli impegni presi nel corso della giornata. Per evitare il dissesto, la Fed aumentò la base monetaria del 10% in un giorno, usando come garanzia l’intero attivo patrimoniale della banca.

Da allora sono cambiate molte cose, ma la sostanza è rimasta la stessa: il credito intraday fra operatori finanziari è diventato il principale fattore di rischio/vantaggio di chi fa girare i soldi. Sono stati affinati i processi di regolazione, e le banche centrali hanno iniziato a farsi pagare (prima era gratis) per la liquidità che mettono a disposizione degli operatori finanziari, anche a fronte del versamento di garanzie (prima non era necessario). Ma soprattutto si sono affermate decisamente le clearing house, stanze di compensazione o controparti centrali che dir si voglia, che hanno finito col diventare protagoniste di questa montagna di transazioni giornaliere.

Queste entità hanno il compito di garantire la liquidità degli scambi sul mercato dei derivati, ma ormai anche dei titoli azionari, assumendosi il rischio di inadempienza, ma al contempo aumentando la liquidità sul mercato, come se non fosse mai abbastanza. In Italia, ad esempio, opera la Cassa di compensazione e garanzia, società controllata da Borsa Italiana, mentre all’estero ci sono colossi come gli europei LCH.Clearnet ed Eurex o l’americano CME group.

Questi colossi, che via via si stanno concentrando sempre più, intermediano quotidianamente volumi enormi di scambi sulle loro piattaforme, caricandosene i rischi relativi e lucrando enormi guadagni di intermediazione. Perché un’altra cosa che raramente si ricorda, quando si parla di derivati, è che sono una fonte enorme di profitto, non tanto per quelli che li comprano o li vendono, ma per quelli che li fanno circolare.

Le commissioni che gli intermediari lucrano facendo girare questa carta è un’altra di quelle cose di non si parla quasi mai, quando si discute di derivati.

Chiaro che questo Eldorado faccia gola. Di recente il Financial Times ha riportato il grido d’allarme lanciato da alcuni gruppi bancari internazionali, secondo i quali le clearing house non sarebbero capitalizzate abbastanza per reggere l’urto della marea montante delle transazioni che sono chiamate a garantire. Fa un po’ ridere che la banche, da sempre accusate di essere sottocapitalizzate, rivolgano la stessa accusa alle nuove “concorrenti”, ma così va il mondo.

Peraltro il peso specifico delle clearing house è aumentata notevolmente dopo l’esplosione della crisi, quando i regolatori internazionali hanno iniziato a puntare sul loro sviluppo per evitare di caricare di rischi le solite grandi banche, già pesantemente esposte. Le stesse che oggi lamentano che tali rischi non sarebbero sostenibili da parte di queste controparti centrali perché sottocapitalizzate o perché accettano collaterali incerti come i bond a garanzia dei margini.

In gioco c’è la torta dei derivati over the counter (OTC), quindi non quotati, che i regolatori vorrebbero fossero intermediati dalle clearing house e che invece le banche vorrebbero tenere per sé, visto che rappresentano la stragarande maggioranza dei volumi nozionali in circolazione e la più grande fonte di profitto.

Su tutto questo aleggiano le banche centrali, che lottano per mantenere la loro responsabilità sul sistema dei pagamenti, messo a dura prova dall’esplosione del credito intraday, a fronte della tentazione della privatizzazione strisciante che arriva dai grandi gruppi bancari internazionali.

Come si vede, cambiano i tempi, i discorsi si fanno più complessi, ma il succo è sempre quello: si continua a voler far soldi con i soldi e si lotta fra entità per decidere a chi tocchi la fetta più grossa. Tali processi, vale la pena notarlo, vengono discussi e decisi a livello sempre più sovranazionale da entità tecnico-giuridiche che poco a nulla hanno a che fare con i meccanismi classici della rappresentanza politica.

Fare soldi, con i soldi, senza alcun controllo democratico.

Forse è questo è il vero problema.

Altro che i derivati.