Etichettato: controparti centrali cosa sono

I banchieri berlinesi alla campagna d’America

L’economia va meglio, dicono le cronache. E fra un po’ ci convinceranno pure che è tornata la fiducia, che nel magico mondo del capitalismo equivale a una ripresa dell’incoscienza.

Sarà per questo, perché le cose vanno meglio (o almeno così si dice), che s’odono sinistri scricchiolii nella fantastica costruzione regolatoria iniziata a far data dal 2008 dai banchieri centrali del mondo. Provandosi con ciò l’evidenza fattuale che la crisi fa bene all’Internazionale dei banchieri, almeno quanto la ripresa le nuoce.

Chi ha avuto la ventura di leggere l’ultimo intervento ad Harvard di Andreas Dombret, banchiere della Buba, (“Regulatory reform – unresolved issues and the need for international cooperation”) queste cose le sa già, ma magari non ha notato come la descrizione dei processi ancora irrisolti sul versante dela regolazione suoni come il canto del cigno dello slancio riformatore messo in campo dagli stati del G20 dopo il crack di Lehman Brothers.

Sempre perché le crisi aiutano assai la regolazione.

All’epoca i leader del mondo recitarono compunti e seriosi una splendida dichiarazione d’intenti, secondo la quale si sarebbero dati da fare per “rafforzare il regime regolatorio, la supervisione prudenziale e la gestione del rischio”. I mercati erano infartuati all’epoca, e abbisognavano ben più del solito contentino a base di liquidità.

“Più di cinque anni dopo – dice Dombret – abbiamo fatto buoni progressi, tuttavia dobbiamo ricordarci di quello che Mark Roe, dell’Università di Harvard, chiama il ciclo della fiducia nella regolazione”. Che poi sarebbe il fatto che si fanno le riforme quando c’è una crisi, quindi, quando l’economia riparte, si allenta la guardia e finisce come al solito.

E infatti sembra proprio che sia andata così anche stavolta. “A un’osservazione superficiale può apparire che il sistema finanziario sia stato riparato – dice Dombret – tuttavia dobbiamo essere sicuri che non si romperà di nuovo”, come disse il medico al malato, ignorando che le malattie è impossibile curarle una volta per tutte.

Anche perché, come riconosce il nostro banchiere-dottore, alcuni mali sono ancora in incubazione e devono essere curati con opportuna prevenzione, “per creare un sistema finanziario stabile”. Ossia l’Eldorado dei nostri banchieri centrali.

Si potrebbe discutere giorni su quante volte il medico sia sovente la causa della malattia che pretende di curare, e figurarsi magari la faccia piena di rughe e pensieri monetari dell’ex guru della Fed, Greenspan, mentre inonda di dollari il mondo, inflazionandone senza sosta gli asset. Ma sarebbe una discussione sterile.

Meglio allora concentrarci sulle minacce individuate da Dombret, che sono terribilmente concrete.

Le questione sul tavolo dell’Internaziona dei banchieri sono essenzialmente tre: il problema delle istituzioni finanziari troppo grandi per fallire (too-big-to fail problem), lo shadow banking e il mercato dei derivati Otc.

Chi frequenta l’informazione economica avrà ampia familiarità con questi temi. Vale la pena però seguire la sintesi che ne fa Dombret, anche per capire lo stato dell’arte.

Sulle banche troppo grandi per fallire, Dombret ha gioco facile a ricordare la filosofia del Berliner consensus, che, come ricordete, si basa sul principio della responsabilità che, spiega Dobret, nel mondo bancario pare viva una sua versione affievolita. Il che conduce sovente a una socializzazione delle perdite, come è accaduto dopo la crisi del 2008, che, non a caso, ha condotto a un’esplosione del debito pubblico mondiale, visto che le banche sono state costrette a socializzare migliaia di miliardi di debiti privati.

E’ anche una questione di fair play, spiega Dombret, citando uno studio della Fed secondo il quale le banche troppo grandi per fallire hanno anche un vantaggio competitivo nei confronti delle banche più piccole, visto che il mercato, proprio perché “non possono fallire” presta a queste banche a prezzi ridotti rispetto alle altre. Per di più sono avvantaggiate, oltre che dal lato dei costi minori per il funding, sul lato dei ricavi, perché la garanzia implicita del salvataggio statale le spinge al moral hazard, e quindi a rischiare di più. Il che equivale, nei tempi buoni, a guadagnare di più.

Tutto ciò, dice il banchiere tedesco, viola il principio della responsabilità. Come risolvere la questione? “Queste banche – dice – devono poter fallire senza portare con sé l’intero sistema finanziario”.

Ma davvero un banchiere centrale, anche se tedesco, è così ingenuo da non capire che le banche too-big-to fail sono il sistema finanziario?

A quanto pare sì.

Sedotto dal germanico candore, ho proseguito nella lettura, ma solo per scoprire che alla fine dei conti quello che serve è quello che l’eurozona sta disperatamente cercando di costruire: un sistema ordinato di risoluzione delle banche in crisi, ma a livello globale. La qualcosa, ne converrete, è alquanto complicata. Anche perché se è stato (relativamente) facile trovare un’intesa sull’Unione bancaria nell’eurozona, bail in compreso, figuratevi quanto sarà facile convincere gli americani a mettere in comune un meccanismo di risoluzione, scaricando poi il costo a carico delle banche stesse.

Mi è arrivato l’eco delle risate americane.

Il secondo tasto dolente è quello delle banche ombra. Abbiamo visto con dovizia di particolari cosa serva e come funzioni lo shadow banking e come in letteratura ci sia una certa indeterminatezza sull’utilità che esso svolge ai fini dell’aumento della liquidità globale. Al contrario c’è pressoché unanime condizioni sulla sua rischiosità intrinseca, visto che le banche ombra su muovono fuori dai circuiti regolamentati. Così come c’è certezza sul fatto che un futuro lo shadow banking crescerà ancor più di quanto è cresciuto sinora.

“Anche qui – dice Dombret – la cooperazione internazionale è essenziale per stabilire un’effettiva regolazione. A tal fine è benvenuta l’inziativa del G20 di mettere lo shadow banking in cima alla propria agenda”.

Terzo problema: la questione dei derivati Otc e delle controparti centrali.

“Lo scambio di derivati – ricorda Dombret – è stata causa di pesanti perdite, distruzione di mercati e minacce alla stabilità finanziaria“”. Perciò il G20 qualche anno fa ha determinato che lo scambio di derivati OTC (over the counter), ossia non standardizzati, avvenga nell’alveo delle controparti centrali, quindi centrali di clearing che rendano queste transazioni, di solito assai opache, un po’ più trasparenti.

Abbiamo visto altrove che le controparti centrali, che pure dovrebbero mitigare i rischi, sono portatrici anch’essa di profondi rischi sistemici, sui quali Dombret non si risparmia. Ve li sintetizzo con una battuta: le controparti centrali, che in pratica agiscono come banche ombra, possono diventare troppo grandi per fallire.

Lo so: è incredibile. Ma questo è il male e questi sono la cura. Sempre perché non si può dire – un banchiere centrale non può dire – quale sia davvero il male del sistema finanziario (voler fare soldi con i soldi).

Anche qui, Dobret invoca “un coordinamento internazionale” e nota con soddisfazione che “alcuni passi sono stati fatti”, ma ci sono ancora “grandi differenze di regolazione fra Ue e Usa”. Ad esempio sul livello del margine iniziale da depositare nelle controparti per svolgere l’operazione.

L’esempio serve a capire una cosa fondamentale, ossia chi siano le parti in gioco (nel caso non fosse chiaro). Quindi l’Ue e gli Usa, ossia i padroni reali del mercato finanziario (i secondi in particolare, insieme con gli inglesi). E ci aiuta anche a capire la posta in gioco dietro l’accorato appello di Dombret per una maggior armonizzazione e regolazione finanziaria: il trionfo dell’Internazionale dei banchieri, magari sempre più tarata sul Berliner consensus.

Ve la sintetizzo con un’altra battuta: L’Europa finanziaria (tedesca) pensa di conquistare (imbrigliare) la finanza americana con i cavilli, passando tramite la solidarietà di casta dei banchieri centrali. Che come vedete inizia a scricchiolare non appena le cose si mettono un filino meglio e gli stati (che sono gli azionisti di riferimento delle banche centrali) riprendono coraggio.

“Per raggiungere la nostra destinazione – un sistema finanziario stabile – dobbiamo camminare insieme”, conclude Dombret.

E qui il teutonico candore di Dombret diventa disarmante.

Chi l’ha detto che gli americani vogliono un sistema finanziario stabile?

 

 

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I nuovi mostri: l’alba delle controparti centrali

Una delle conseguenza meno esplorate dell’esplosione della crisi finanziaria del 2008 è stata il sorgere prepotente delle Controparti centrali. Prepotente perché imposto da uno dei tanti G20 andati in scena dopo il grande crollo per cercare di salvare il mondo. E in questa hybris regolatoria i pezzi grossi hanno determinato di affidare a queste entità, che c’erano anche prima ma facevano (e fanno) dell’altro, di entrare a gamba tesa nel florido mercato dei derivati Otc, che, come abbiamo visto, muove appetiti corposi e correlati rischi.

Dal 2009 in poi tanta strada è stata fatta e tanta carta riempita di buone intenzioni. Col risultato che ormai le controparti centrali, che sono normali clearing house, hanno finito col connotarsi come il costituendo pilastro della stabilità finanziaria presente e, soprattutto futura.

Senonché, siccome, com’è noto, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, ecco che i nostri regolatori notano con malcelato disappunto che centralizzare le operazione di compensazione (clearing) finanziaria di tutto il mondo in pochi soggetti, come di fatto sta succedendo in ossequio alle disposizione del G20, crea un rischio sistemico che prima non c’era (nel senso che ce n’era un altro).

Ossia: siccome le controparti centrali ora faranno assai più di quanto facevano prima, proprio per ridurre i rischi che abbiamo visto all’opera nella Grande Crisi, è venuto a determinarsi un rischio nuovo, che prima non c’era, che è “senza precedenti e altamente distruttivo”, almeno secondo quanto dice Benoit Couré, banchiere centrale della Bce, che all’emergere prepotente – sempre perché imposto – delle controparti centrali – ha dedicato un pregevole discorso qualche giorno fa (“Risks in Central counterparties (CCPs)”, 23 gennaio 2014).

Per dirla in altre parole: siamo condannati a passare costantemente dalla padella alla brace. Prima o poi finiremo con lo bruciarci sul serio, quindi.

Essendo, a quanto pare, impossibile sfuggire al destino amaro dell’instabilità, vale la pena almeno cercare di capire di cosa stiamo parlando.

Le controparti centrali (CCPs) svolgono un ruolo molto importante nel sistema finanziario internazionale, segnatamente all’interno dell’Ue. I dati forniti da Couré ci dicono che nel 2012 le clearing house europee hanno compensato, in valore nozionale, circa 200 trilioni di euro (200 mila miliardi) di derivati quotati e altrettanti trilioni di transazioni repo. Il grosso del lavoro sui derivati sta in capo a Eurex, mentre la maggior parte delle operazioni su repo è appannaggio di LCH Clearnet Lt, società rispettivamente tedesca e inglese, così come è inglese la ICE clear Europe, mentre è francese la LCH Clearnet SA. C’è anche un clearing house italiana, la CC&G.

Le CCPs agivano anche sul mercato dei derivati OTC, quindi non regolamentati, ma affidati a meccanismi bilaterali. In questi contratti, come abbiamo visto, una terza parte si interpone fra le due controparti. Opera quindi un meccanismo di compensazione bilaterale, mentre le clearing house si distinguono per essere camere di compensazioni multilaterali.

Non è un semplice dettaglio tecnico. “Le CCPs – spiega Couré – consentono di “nettizzarre” multilateralmente le esposizioni, così che un certo livello di protezione dal rischio viene raggiunto con un minor ammontare di collaterale, o, viceversa, un certo livello di collaterale può consentire un più alto livello di protezione dal rischio”.

Il principio è molto semplice: la compensazione multilaterale, proprio perché interviene fra più soggetti che possono essere contemporaneamente sia debitori che creditori diminuisce l’esposizione globale del credito del sistema, e  di conseguenza, il rischio, che perciò genera una minor richiesta di capitale a garanzia (il collaterale). In sostanza consente di giocare la guerra della finanza con meno munizioni, ma con un volume di fuoco crescente.

Chiaro perciò che le CCPs abbiano incontrato il favore dei regolatori, da sempre crucciati dalle mancanze di capitale delle nostre istituzioni finanziarie.

Si stima, dice sempre Couré, che dopo la migrazione nella loro piattaforma delle transazioni sui derivati OTC, la loro operatività crescerà di almeno il 25% globale. Ciò strapperà alle banche d’affari, finora dominus incontrastate di questo mercato, una fetta notevole delle loro commissioni.

Considerate che prima delle migrazioni le CCPs, a livello globale, hanno mediato 142 trilioni di derivati, a fronte dei 362 trilioni delle banche. Dopo la migrazione si stima che le CCPs compenseranno 268 trilioni di derivati a fronte dei 237 delle banche. Figuratevi quanto saranno contente.

Le buone notizia finiscono qui.

Couré individua con chiarezza le criticità alle quali ci espone questa svolta sistemica.

La prima è la concentrazione di questi soggetti, che diventano sempre più grossi, “di importanza sistemica senza precedenti”. Il default di una clearing house, perciò, “potrebbe condurre a un distruzione sistemica molto seria”. Come se finora avessimo scherzato.

Il secondo rischio deriva dal fatto che le banche, uscite dalla porta, stanno rientrando dalla finestra.  “Un numero crescente di banche – dice – sta partecipando alle CCPs in tutto il mondo”. Comprensibile, vista la quantità di soldi che gira. E questo collegamento può causare serie criticità che ognuno può immaginare.

Terzo rischio: l’interrelazione profonda fra le CCPs. “A causa della mutualizzazione, perdite o carenze di liquidità, nel caso di default di un componente, possono diffondersi agli altri partecipanti”, spiega Couré. E, come se non bastasse tale interrelazione non si limita alle CCPs, visto che a loro volta, sono collegate con altre istituzioni finanziarie”.

Tanti interrogativi generano una risposta che non può che essere ulteriormente regolatoria. Quindi un livello di risk management più elevato da chiedere alle CCPs, una più profonda attività di due diligence da richiedere alle banche che partecipano al loro capitale. E poi “un robusto regime di recovery o risoluzione”, in modo che se devessero fallire potrebbero farlo ordinatamente.

Detto in parole semplici: stiamo creando nuovi mostri che potrebbero fare danni planetari, e pensiamo di imbrigliarli con delle sane regole di comportamento.

Con la buona educazione.

Come se non avessimo fatto altro negli ultimi anni. Inutilmente, peraltro, visto che l’entità delle crisi che abbiamo originato è stata sempre direttamente proporzionale all’incremento della regolazione.

Detto in parole ancora più semplici: stiamo creando le premesse per il prossimo disastro.