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Gli anziani gonfiano il mercato del lavoro europeo
M’inerpico sprovveduto lungo i pendii statistici elaborati dalla Bce nell’ultimo bollettino, dove un riquadro discorre degli andamenti recenti della partecipazione al mercato del lavoro nell’eurozona. E scopro con divertito stupore che “malgrado i periodi di severa recessione che hanno colpito lʼarea dellʼeuro negli ultimi anni, il tasso di partecipazione alla forza lavoro nellʼarea ha evidenziato andamenti (atipicamente) positivi”.
Quell'”atipicamente” mi attrae come una calamita e capisco, leggendo oltre, che come sempre quando si tratta di statistica è tutta una questione di definizioni.
Già, perché la Bce per calcolare il suo tasso di partecipazione fa riferimento alla popolazione compresa fra i 15 e i 74 anni, quando di solito si usa la classe 15-64 anni per definire la popolazione attiva. E poiché la stessa Bce nota che “lʼaumento del tasso aggregato di partecipazione è stato trainato soprattutto dalla crescita della partecipazione dei gruppi di età più avanzata (55-74), mentre la partecipazione giovanile (15-24) è andata calando”, se ne può dedurre agevolmente che sono gli anziani a trainare l’aumento della partecipazione al mercato del lavoro.
Che significa?
In pratica ciò evidenzia il crescente aumento del peso relativo dei fattori demografici sul mercato del lavoro rispetto ai fattori ciclici e strutturali.
Faccio un passo indietro.
Ricordo che il tasso di partecipazione misura la percentuale di coloro che sono occupati o cercano attivamente lavoro sul totale della forza lavoro, che, nel caso monitorato dalla Bce, dovremmo definire come il totale della popolazione compresa fra i 15 e i 74 anni.
Ebbene, il tasso di partecipazione nell’euroarea ha seguito un trend ascendente dal 2000 al 2012, collocandosi intorno al 64% nel 2014.
Il fatto che ciò sia accaduto durante un periodo in cui la disoccupazione aumentava non deve stupire, visto che, come ho detto, la partecipazione misura il totale di coloro che lavorano e coloro che cercano lavoro. Quindi in questo senso l’aumento dei disoccupati può far crescere il tasso di partecipazione se costoro continuano attivamente a cercare lavoro.
Ciò non toglie che il tasso di partecipazione avrebbe potuto essere più alto, se non fosse aumentata la disoccupazione, visto che “i cambiamenti nella distribuzione della popolazione hanno esercitato pressioni al ribasso sulla partecipazione al mercato del lavoro. Ciò si deve alla crescita delle fasce di popolazione con i tassi di partecipazione più bassi (quelle di età compresa fra i 55 e i 74 anni) e alla concomitante riduzione delle fasce con i tassi di partecipazione più elevati (principalmente la popolazione di età adulta)”.
Osservando i grafici prodotti nel riquadro appare di tutta evidenza che rispetto al terzo trimestre 2007 è notevolmente diminuito il tasso di partecipazione dei 15-24enni, quello della classe 25.54 è sostanzialmente stabile, mentre è aumentato significativamente quello della classe 55-64enni e risulta in crescita anche quello dei 65-74enni. In pratica, lo coorti più anziane sono quelle che hanno visto aumentare il tasso di partecipazione. E leggo questa indicazione come un chiaro segno del destino che attende le popolazioni europee: lavorare fino a un’età sempre più avanzata.
L’analisi si fa ancora più interessante se il dato viene disaggregato nei quattro paesi principali che compongono l’area, ossia Germania, Italia, Francia e Spagna.
L’incremento più evidente del tasso di partecipazione si è registrato in Germania dove l’indice, fatto 100 il livello del 2008, è arrivato a sfiorare 105 nel 2014. Italia e Spagna convergono verso 101, mentre la Francia è di poco sopra 100, ossia lo stesso livello del 2008.
La performance della Germania, spiega la Bce, “è dipeso in gran parte da variazioni della partecipazione nelle diverse fasce
dʼetà, in particolare quella dei lavoratori più anziani, forse dovute allʼattuazione delle riforme Hartz e alla progressiva eliminazione
delle opzioni di pensionamento anticipato fra il 2006 e il 2010. Dal 2009 i tassi di partecipazione hanno altresì beneficiato di un
aumento dellʼimmigrazione netta verso la Germania”.
In Francia “il modesto aumento del tasso di partecipazione è principalmente attribuibile a un incremento di quello delle fasce
di età più avanzata (dovuto a un aumento dellʼetà pensionabile)”.
In Spagna “la crescita della partecipazione fino al 2012 è imputabile soprattutto a cambiamenti positivi nelle decisioni di partecipazione (principalmente fra le persone di età compresa fra i 40 e i 64 anni)”. C’è da dire che dal 2013 il tasso spagnolo è notevolmente diminuito “in parte per l’uscita dei lavoratori stranieri”.
In Italia, dopo la contrazione registrata a partire dal 2008 per l’aumento dei lavoratori scoraggiati, che hanno di conseguenza ingrossato la classe degli inattivi, ossia coloro che non studiano né lavorano, “a partire dal 2012 a partecipazione ha ripreso a salire, in parte per effetto della riforma pensionistica”.
Come si può notare le modifiche del welfare hanno impatti diretti sulla durata della vita lavorativa e, di conseguenza, sui tassi di partecipazione. Se vado in pensione pià tardi devo cercare lavoro anche a sessant’anni. E se ho una pensione bassa, o sussidi ridotti, pure a settanta.
Tutto ciò si intreccia con l’evoluzione demografica dell’eurozona, dove “la quota delle fasce di età più avanzata (caratterizzate da tassi di partecipazione inferiori) è destinata ad aumentare”.
Insomma, sempre più persone coi capelli bianchi, e sempre alla ricerca di un lavoro per sbarcare il lunario.
Così magari si sentono giovani.
La guerra fra poveri dei lavoratori spagnoli
Poiché gli spagnoli ci somigliano, almeno secondo la logica degli spread, che infatti viaggiano vicini, è profondamente istruttivo dedicare un po’ di tempo alla lettura di un breve studio che la Commissione europea ha dedicato al loro mercato del lavoro, la cui evoluzione nel tremendo primo decennio del XXI secolo è stata quantomeno esemplare.
Ricordiamo tutti quanto bruscamente la Spagna sia transitata dallo stato di grazia del miracolo economico, che ancora fino al 2007 poteva rivendicare, allo stato disgraziato del salvataggio bancario, resosi necessario non appena i grandi creditori degli spagnoli hanno richiamato i soldi in patria, replicandosi così per la Spagna il solito copione che ormai va in scena all’infinito nella nostra economia globalizzata e che la Spagna stessa interpreta con graziosa disinvoltura.
Qui però è interessante osservare un’altra peculiarità del sistema spagnolo, così simile a nostro, per dedurne come le vicende occorse ai lavoratori spagnoli possano, ceteribus paribus, diventare le nostre.
Il periodo fra il 1990 e il 2007, ci ricorda la Commissione, furono caratterizzati da una crescita senza precedenti dell’occupazione in Spagna. Si parla di circa sette milioni di posti di lavoro in più. Ciò malgrado, tuttavia, il mercato rimase parecchio disfunzionale, con i salari in sempre più evidente divaricazione in una dinamica che ha finito con l’erodere la competitività dell’economia spagnola, conducendola verso i noti problemi di debito privato e debito estero arrivati alle stelle.
Peraltro neanche al tempo del miracolo economico (a debito) gli spagnoli sono riusciti a mutare la struttura del loro mercato del lavoro: la disoccupazione strutturale rimase alta e la quota di lavoratori a tempo determinato sul totale pure.
Ciò spiega perché all’esplodere della crisi il mercato del lavoro abbia reagito così drammaticamente. Il crollo del settore della costruzioni, che così tanta parte aveva avuto nel miracolo spagnolo, ha provocato una massiccia distruzioni di posti di lavoro, circa 3,5 milioni stima la commissione, fra il 2008 e il 2013, ossia la metà di quanti se ne erano creati in diciotto anni. Sicché la disoccupazione è passata dal 10% a oltre il 25%, con la quota dei lavoratori a tempo determinato in calo dal 29 al 23%. Col perdurare della carestia, tuttavia i problemi si sono estesi anche ai lavoratori più garantiti, che hanno visto cominciare il declino delle retribuzioni.
E proprio l’andamento della correzione dei salari è il punto centrale del paper della Commissione. L’analisi, concentrata nel periodo 2008-13, ha concluso che mentre la perdita totale di occupazione sia stata superiore al 16%, i salari reali aggregati degli spagnoli sono diminuiti di circa il 4,5%.
Ma tale dato maschera profonde differenze. Non soltanto nell’entità delle riduzioni salariali, assai diversificate, ma anche nell’urto della disoccupazione, che ha colpito assai più i lavoratori più deboli e meno qualificati rispetto a quelli più protetti e più preparati.
Per farvela semplice, nella terribile guerra fra poveri che ha colpito i lavoratori spagnoli, a pagare il conto più salato sono stati quelli che già erano svantaggiati, e sulle spalle dei quali si è consumato gran parte della correzione. Un copione pure questo assai comune in questi ultimi anni, e non solo in Spagna.
I dati fotografano con chiarezza questa situazione. Non solo le retribuzioni media dei lavoratori a tempo determinato sono significativamente più basse di quelle a tempo determinato, ma sono scese assai di più nel periodo considerato.
Il grafico elaborato dalla Commisione ci dice che nel 2008, quindi agli albori della crisi, un lavoratore a tempo determinato guadagnava in media un po’ meno di 16 mila euro l’anno, a fronte degli oltre 24 mila di un lavoratore a tempo determinato.
Nel 2009 mentre i guadagni dei lavoratori a termine iniziavano a declinare, quelli dei lavoratori a tempo indeterminato crescevano, confermandosi tale andamento anche per il 2010. Solo dal 2011 i tempo indeterminato hanno visto invertire la tendenza, ma con un andamento assai meno ripido di quanto sia accaduto ai tempo determinato.
La conclusione è che nel 2013 mentre la media dei guadagni dei precari si avvicinava a 12 mila euro l’anno, quella dei garantiti scendeva intorno ai 23 mila. Tale diminuzione si riflette nel notevole crollo dei contratti a tempo determinato, diminuiti assai più rispetto a quelli a tempo indeterminato.
La conclusione della Commissione è perciò evidentemente logica: “L’aggiustamento delle retribuzioni sofferto dai lavoratori a tempo determinato è stato quasi il triplo di quello subito dai lavoratori a tempo indeterminato”. Un risultato “sorprendente”, osserva ancora, anche perché “si dovrebbe considerare la possibilità di rinegoziazione implicita nei contratti a tempo determinato”.
“Ciò suggerisce – sottolinea – che i lavoratori temporanei siano stati penalizzati due volte, essendo esposti a un rischio più elevato di licenziamento e soggetti a una più elevata diminuzione di retribuzione”.
Insomma: i lavoratori precari e meno qualificati sono crollati alla base della catena alimentare del mercato del lavoro.
Secondo la Commissione questo risultato supporta l’evidenza che un’elevata dualità nel mercato del lavoro “può condurre a un lento e inefficiente aggiustamento, che peraltro penalizza in maniera sproporzionata i lavoratori temporanei”.
La soluzione, manco a dirlo, è “una riforma del mercato del lavoro che riduca il gap fra i lavoratori temporanei e quelli a tempo indeterminato che faciliti la reattività dei salari anche fra i lavoratori a tempo indeterminato”.
Sembra di capire che ciò evochi un sano ritorno alle politiche salariali dei primi anni ’50.
Ma certo, la schiavitù funzionerebbe meglio.
Si prepara la rivolta delle pantere grigie
La resa dei conti non sarà oggi e neanche domani.
Ma dopodomani sì. Eccome.
Solo che sulle barricate non saliranno, come nella migliore tradizione, torme di giovani arrabbiati, ma arrabbiatissimi anziani, alle prese con condizioni di vita difficili, per non dire misere, frutto di un trentennio abbondante di politiche dissennate e poco lungimiranti, sia sul versante del lavoro che su quello della previdenza.
Fuor di metafora, la questione di come far sopravvivere un esercito di anziani da qui a trent’anni, ossia i giovani di oggi, è uno dei problemi più evidenziati nell’ultimo Pension at glance dell’Ocse, pubblicato pochi giorni fa.
La questione riguarda tutti i paesi avanzati che, pur con le dovute differenze relativa ai diversi sistemi pensionistici, dovranno fare i conti con un invecchiamento “storico” della popolazione, da un parte, che richiederà di destinare agli anziani risorse crescenti sotto forma di welfare (pensioni e sanità in testa) e una carenza endemica di tali risorse, che la crisi del nostro tempo ha aggravato.
Il problema demografico e quello finanziario, in pratica, si intrecciano in una situazione inusitata e potenzialmente esplosiva.
Gli anziani, in teoria, dovranno lavorare sempre di più per tenere in ordine della previdenza, ma non affatto detto che questo basti.
Entro il 2050 l’età media Ocse di pensionamento sarà almeno 67 anni, ma non è affatto detto che le regole previdenziali si accordino con quelle del mercato del lavoro che verrà. Innanzitutto perché prolungare l’età pensionabile ha un effetto diretto sulla possibilità dei giovani di trovare lavoro. Poi perché non basta dire che bisogna lavorare fino a 70 anni perché effettivamente si trovi lavoro fino a quell’età.
A ciò si aggiunga, come scrive che l’Ocse, che “le riforme delle pensioni attuate nel corso degli ultimi due decenni hanno diminuito le promesse di prestazioni pensionistiche per i lavoratori che entrano oggi nel mercato del lavoro”. Con la conseguenza che oggi “il rischio povertà è più alto per i giovani”, visto che, al contrario, per gli anziani di oggi”la riduzione della povertà in età avanzata è stato uno dei maggiori successi delle politiche sociali”.
Insomma, gli anziani di oggi se la passano benino. Il loro tasso medio di povertà è diminuito dal 15,1% del 2007 al 12,8% del 2010 e “il reddito delle persone anziane oltre i 65 anni raggiunge in media l’86% del livello medio di reddito disponibile nel’insieme della popolazione”.
Al contrario, gli anziani di domani dovranno fare i conti, oltre che con il calo generalizzato delle rendite provocato dalle riforme pensionistiche (tutti e 34 i paesi Ocse hanno riformato le loro pensioni negli ultimi anni), con gli alti tassi di disoccupazione odierni e l’alto tasso di precarizzazione, che non offrono nessuna garanzia di riuscire a cumulare un montante contributivo sufficiente ad avere una pensione. E “non sarà sufficiente innalzare l’età di pensionamento per garantire che le persone rimangano effettivamente nel mercato del lavoro”.
I giovani di oggi, quindi gli anziani di domani, si troveranno di fronte a pensioni basse o addirittura inesistenti. “I disoccupati – scrive l’Ocse – le persone ammalate e i disabili rischiano di non potere maturare adeguati diritti alla pensione”.
Altre importanti differenza distinguono gli anziani di oggi da quelli di dopodomani, spiega l’Ocse: il patrimonio, immobiliare o finanziario, di cui possono disporre.
“L’alloggio di proprietà e il patrimonio finanziario integrano le prestazioni finanziarie pubbliche. Nei paesi Ocse, in media, oltre il 75% degli ultracinquantacinquenni sono proprietari di un’abitazione (l’80% in italia), che può rappresentare un notevole contributo al tenore di vita dei pensionati. L’impatto del patrimonio sulla povertà delle persone anziane è limitato poiché il patrimonio finanziario è molto concentrato nella fascia superiore della scala dei redditi”.
Questo in generale, ovviamente, sempre tenendo conto delle differenze fra i diversi paesi.
Rimane il fatto che mentre gli anziani di oggi potranno contare sul salvagente di questo patrimonio, quelli di domani rischiano seriamente di esserne del tutto privi. Chi, oggi, riesce a mettere da parte tanto quanto basta per comprare una casa e addirittura tesaurizzare dei risparmi?
Pure tenendo conto dell’effetto-eredità, ossia della circostanza che molti giovani di oggi entreranno in possesso dei patrimoni dei loro genitori, è chiaro a tutti che non basteranno i lasciti, in mancanza di un reddito, a garantire la formazione di un patrimonio-salvagente da vecchi, da una parte, e di una pensione dall’altra.
A cosa è servito, allora, questo ventennio di riforme? Sostanzialmente a rendere sostenibile la spesa pensionistica. E’ una cambiale pagata al presente, assai più che al futuro.
Se guardiamo al caso italiano, esaminato dall’Ocse, la situazioni di criticità ci investiranno in pieno.
Partiamo da un dato. La spesa pensionistica italiana, nel 2013, ha inciso per il 30% della spesa pubblica, a fronte di una media Ocse del 17% e del 3% dell’Islanda.
La riforma Fornero è servita soltanto a garantire la sostenibilità futura dell’impanto previdenziale, obbligando al passaggio al contributivo per tutti e all’innalzamento graduale dell’età pensionistica. “Dal 2021 – scrive l’Ocse – nessun lavoratore sarà in grado di andare in pensione prima dei 67 anni e dopo l’età pensionabile andrà ben oltre il limite dei 67 anni”.
Questa esigenza nasce da un dato di fatto: l’Italia è il paese che spende più di tutti, il relazione al Pil, per le pensioni. Nel 1990 le pensioni costavano il 10,1% del Pil. Nel 2009 eravamo arrivati al 15,4%, a fronte di una media Ocse del 7,8%, un aumento del 53,3%. Sul totale della spesa pubblica, si è passati dal 19,1% del 1990 al 29,8% del 2009. Un primato assoluto, determinato anche dall’alta percentuale di pensionati in relazione alla forza lavoro. In Italia, infatti, le pantere grigie di oggi pesano il 34,5% a fronte di una media Ocse del 25,5.
E secondo le proiezioni, tale quota di spesa, malgrado le varie riforme, rimarrà sostanzialmente costante fino al 2060.
Il problema, sottolinea l’Ocse, è che “il successo delle riforme pensionistiche si basa fondamentalmente sull’andamento del mercato del lavoro”.
Da qui ne deriva che “l’adeguatezza dei redditi pensionistici potrà essere un problema per le future coorti dei pensionati”. “I lavoratori con carriere intermittenti, lavori precari e mal retribuiti saranno più vulnerabili al rischio povertà durante la vecchiaia. In secondo luogo luogo, oltre alle prestazioni sociali (assegno sociale) per le persone di 65 anni e quelle più anziane l’Italia non prevede alcuna pensione sociale per attenuare il rischio di povertà per gli anziani”.
E qui torniamo alla premessa.
Oggi non succederà nulla e domani neanche.
Ma dopodomani, in assenza di fatti nuovi e in un’epoca di bilanci pubblici al lumicino, saranno le pantere grigie a finire sulle barricate.
Il lavoro flessibile? Frena l’occupazione
Nell’epoca dei luoghi comuni, vale la pena appassionarsi ad analisi come quella che ha pubblicato il Nber che si propone di rispondere a una domanda annosa quanto controversa: il lavoro flessibile di tipo americano fa davvero crescere il mercato del lavoro?
Il paper (Failing the Test? The Flexible U.S. Job Market in the Great Recession) firmato da Richard B.Freeman prende in esame il periodo della grande recessione provocata dalla crisi iniziata nel 2007, ed è concentrata sul mercato del lavoro americano, che certo non può essere sospettato di rigidità.
“La grande recessione – scrive – ha testato l’abilità della grande ‘macchina americana del lavoro’ a limitare la severità della disoccupazione nelle maggiori economie e a recuperare la piena occupazione”. Ma purtroppo, “nella crisi il mercato americano del lavoro ha deluso le aspettative”.
Il livello e la durata della disoccupazione, infatti, “sono aumentati sensibilmente durante la crisi e la crescita dei posti di lavoro è stata lenta e anemica nel momento della ripresa”.
Vi ricorda qualcosa?
La conclusione è alquanto impietosa: “La performance americana nella grande recessione contraddice l’opinione convenzionale della virtù della flessibilità rispetto all’approccio istituzionale per l’aggiustamento del mercato del lavoro e contraddice anche la nozione che istituzioni del lavoro deboli e una maggiore flessibilità del mercato offrano la strada migliore per il successo economico in una moderna economia capitalista”.
Potremmo concludere qui, ma vale la pena leggere la trentina di pagine dello studio perché scopriamo altre chicche utili a sviluppare la nostra capacità di comprensione di questi fenomeni.
Prima della grande recessione, gli economisti e i politici americani magnificavano la “US jobs machine”, ossia la macchina fabbrica-lavoro americana, come il segno più evidente della capacità di un mercato del lavoro flessibile a creare occupazione. Punti di forza di questa “macchina” erano (e sono) la facilità di licenziamento, la flessibilità delle retribuzioni e la mobilità dei lavoratori, che possono muoversi facilmente da un lavoro all’altro senza particolari problemi.
Questo almeno dice la vulgata.
Vulgata peraltro fondata empiricamente sul grande incremento di occupazione che l’economia americana ha visto fra il 1980 e il 1990, quando i tassi di disoccupazione Usa surclassarono quelli di altri paesi occidentali. “Poiché i lavoratori americani lavorano più ore e prendono meno vacanze, il gap fra gli Usa e le altre economie avanzate divenne sempre più grande relativamente al numero di ore lavorate”.
La famosa produttività crescente.
Qualcuno si accorse che tale miracolo portava con sé un crescente tasso di ineguaglianza, tassi di povertà stagnanti e decadenza delle rappresentanze sindacali, senza contare gli effetti che tali politiche avevano sul welfare (pensioni e sanità).
Ma che volete che sia.
Di fronte all’imperio dei numeri positivi gli economisti celebrarono il modello americano indicandolo come la strada maestra per i paesi europei che da quel momento in poi furono invitati a “riformare il mercato del lavoro”.
Il Fmi profetizzò, nel 2003, che tali riforme avrebbero potuto condurre a un guadagno di prodotto del 5% e a un calo di disoccupazione del 3%. “Tali benefici. aggiunse – possono anche raddoppiare se si verificano sforzi simultanei per aumentare la competitività nel mercato dei prodotti”.
Più o meno quello che si dice oggi.
Senonché, intanto, l’America, spinta dalla crisi, ha iniziato a mettere in discussione l’ennesimo dogma della flessibilità/mobilità.
La visione del miracolo del mercato del lavoro americano è stata messa in discussione da diverso tempo negli Usa.
Una ricerca svolta dall’autore su Google sulla key “great american jobs machine” mostra risultati tipo: “Chi ha rotto la macchina amerciana crea-lavoro?”, oppure “Finalmente si è rotta la grande macchina americana crea-lavoro?”, mentre a gennaio 2013 l’American economic association apriva una sessione sul tema domandandosi “Cos’è successo al miracolo dell’occupazione americana?”.
Per contrasto, nota malignamente l’autore, se si fa una ricerca su Google col termine “mercato del lavoro tedesco e grande recessione”, vengono fuori titoli come “Cosa spiega il miracolo del mercato del lavoro tedesco?”, oppure “Un altro miracolo economico: il mercato del lavoro tedesco durante la grande recessione”.
Prima di rispondere a queste domande, vale la pena evidenziare alcuni dati.
La perdita di occupazione sofferta dagli Usa fra il 2007 e il 2009 è stata la peggiore registrata dal dopoguerra in poi. La perdita di posti di lavoro è arrivata al 6,3%, un’enormità paragonata al range 1,2-5,2% (media 3%) di perdita di posti di lavoro sofferta dall’economia Usa negli ultimi sessant’anni.
Ad aggravare la situazione, la circostanza che quattro anni dopo il 2009 la recessione è ufficialmente terminata, ma “l’occupazione rimane sotto il suo livello di picco e sembra improbabile che recuperi tale livello prima di tre-quattro anni”. In pratica, si è allungato anche il tempo necessario al mercato del lavoro a riprendersi.
Nel 1981 bastarono due trimestri per vedere gli effetti positivi sul lavoro dalla fine della recessione.
Dopo la recessione del 1990 ce ne vollero quattro.
Nel 2001, addirittura, malgrado una crisi molto breve, la perdita di posti di lavoro proseguì anche nei trimestri positivi.
Quello che emerge, quindi è un indebolimento del legame fra crescita del prodotto e crescita dell’occupazione.
Lo confermano anche i dati dell’ultima crisi. Dalla fine della recessione a fine 2012 il Pil americano è cresciuto del 7,5%. L’occupazione di uno striminzito 1,2%.
Ce n’è abbastanza per dubitare del “miracolo” americano.
Che peraltro tale miracolo non sia poi così miracolo lo dimostra anche uno sguardo sulla storia.
Dopo la crisi del ’29, l’occupazione crollò fino al 1933 e non recuperò il suo livello pre-crisi prima del 1940 (mentre infuriava la guerra in Europa). E tuttavia, a fronte di un calo del Pil reale del 31%, fra il 1929-33, l’occupazione cadde “solo” del 18%. In pratica il contrario di quanto è accaduto ai giorni nostri.
Per il lavoro la crisi attuale è stata peggiore di quella degli anni ’30.
Lo dimostra anche come andarono le cose dal ’33 in poi. Il Pil reale crebbe del 44%, l’occupazione del 21%, un rapporto di elasticità pari a 0,48, che è il triplo di quello registrato ai giorni nostri (0,16).
Da cosa dipende questo cambiamento “storico”?
L’autore nota che, a differenza della grande depressione degli anni ’30, la grande recessione del XXI secolo si è basata escluviamente su stimoli macroeconomici, il salvataggio delle grandi banche e la politica monetaria della FEd, mentre altri paesi Ocse hanno aggiunto a queste politiche altre politiche capaci di incoraggiare le imprese a mantenere l’occupazione malgrado il calo di prodotto.
Il confronto con la Germania, ad esempio, mostra che nell’ultimo trimestre del 2010 sia la Germania che gli Usa avevano raggiunto il livello di Pil pre-crisi, ma mentre il mercato del lavoro americano era ancora sotto del 5,9% rispetto a prima, quello tedesco era aumentato dell’1,6%. Persino il Giappone è andato meglio.
Perché?
Secondo l’autore quello che ha funzionato di più è stato il modello tedesco basato sulla contrattazione sindacale, la flessibilità interna e la valorizzazione del lavoro suportata dall’intervento pubblico.
Al contrario ha fallito l”US-style”.
L’autore esamina una serie di questioni legate al modello di sviluppo americano, compresa la relazione fra salari e produttività, nell’ipotesi che le due variabili si siano sfasate (come si dice per gran parte dell’Europa). Senonché i dati mostrano che il mercato americano “è stato flessibile, sul lato dei salari”.
Allora forse c’è una terza questione, scrive, Vale a dire che responsabilità vadano cercate nella politica del licenziamento facile, riassumibile col detto “prima licenzia, poi chiedi”.
Forse – spiega – la facilità di licenziamento ha spinto i manager a focalizzare l’attenzione più sui loro bonus e sui profitti a breve, piuttosto che sulla ripresa. “Forse – aggiunge – tale lentezza nella ripresa del mercato del lavoro riflette la debolezza dei sindacati e la scarsa volontà del governo di fare politiche per l’impiego”.
Insomma: è il contesto che è diventato avverso al lavoro, malgrado i denari non manchino.
Il lavoro flessibile, conclude, può funzionare in un contesto in situazione di equilibrio, ma un contesto più istituzionalizzato (leggi meno affidato a pure logiche di mercato) può funzionare meglio in caso di crisi profonde.
E se lo dice lo zio Sam…
