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Le imprese energivore non solo quelle che producono di più
Poiché dobbiamo iniziare a immaginare qualunque tipo di scenario, visto che la guerra in Ucraina non solo non rallenta ma “potrebbe durare per anni”, come ha osservato qualcuno della Nato giorni fa, può essere utile conoscere chiaramente non solo la struttura della nostra domanda di energia, ossia il mix di fonti che utilizziamo insieme ai loro luoghi di provenienza, ma anche come la utilizziamo. Può aiutarci a capire meglio quali possono essere le conseguenze di una carenza sulla struttura della nostra economia.
Alcune di queste informazioni sono contenute nell’ultimo rapporto di Bankitalia, e contengono spunti molto interessanti. Cominciamo dal mix energetico, nel raffronto fra noi e l’Europa, con la quale condividiamo il difficile destino di essere dipendenti dalle forniture estere per i nostri fabbisogni.

Come si può osservare dal grafico, l’Italia è una grande consumatrice di gas naturale e di petrolio, rispetto alla media europea. Non gode di fonti nucleari e ha una minore dipendenza dal carbone. Complessivamente (dato 2020) consumiamo 5,9 milioni di terajoule lordi, il 10,6% dell’Unione europea, una “quota inferiore di circa due punti percentuali rispetto alla corrispondente quota di pil”. Insomma, consumiamo più di quello che produciamo, si potrebbe dire.
L’altra notizia, certo poco rassicurante, è che copriamo il 93 per cento dei nostri fabbisogni con l’importazione, a fronte dell’84 per cento della media Ue per il gas e del 106 per i prodotti petroliferi. Insomma, forse siamo un po’ più dipendenti dall’import degli altri, ma nessuno in Europa se la passa bene. Dulcis in fundo, “la Russia è un fornitore importante di combustibili fossili, sia per il nostro paese, sia per la UE: nel 2020 forniva all’Italia il 43,3 per cento del gas naturale importato (38,7 per la UE) e il 52,7 del carbone (45,6 per la UE)”. La Russia pesa un po’ meno per il petrolio, che comunque pesa sempre il 12,5 per cento per l’Italia e il 22,8 per cento per la Ue.
Questo rende problematico lo scenario qualora la Russia decidesse di interrompere le forniture. Bankitalia ipotizza, con molti distinguo, che potremmo compensare nell’immediato quasi due quinti delle mancate importazioni. Quindi ci mancherebbe più della metà del fabbisogno, visto che la possibilità di ricorrere ad altri fornitori è limitata a quelli collegati ai gasdotti che arrivano da noi e che le importazioni di gas liquefatto sono condizionate dalla capacità di rigassificazione.
E questo ci conduce al problema di fondo. Come consumiamo queste risorse? E’ chiaro che di fronte a una eventuale carenza è opportuno avere una idea per quanto possibile chiara di chi ne patirà di più le conseguenze. I dati, estratti da un database Istat, sono aggiornati al 2019, ma servono a dare un’idea.
Per la famiglie, il prodotto energetico più utilizzato è il carburante per le auto, che pesano il 41 per cento dei loro consumi. Segue il gas naturale, che pesa il 31 per cento, quasi tre quarti dei quali per il riscaldamento. Quindi l’energia elettrica, che pesa l’11 per cento. Ricordate che circa la metà di questa energia è prodotta col gas.
Se guardiamo al settore produttivo, gli utilizzi “sono altamente concentrati in pochi settori, sia nel complesso sia con riferimento al solo gas naturale”. I dati sono molto eloquenti. Sempre nel 2019 sui 60 comparti censiti, i primi 10 per intensità di consumo energetico “bruciavano” il 59 per cento dei consumi nazionali, a fronte di un produzione di valore aggiunto di soli 8,5 punti. Di questi settori, la fornitura di energia e la manifattura assorbivano da sole il 72 per cento dei consumi di gas. I primi cinque comporti per consumo di gas naturale, che utilizzavano il 57 per cento delle forniture globali producono una quota di valore aggiunto pari a solo il 3,5 per cento. Insomma, le imprese più energivore non hanno un grande impatto dal punto di vista produttivo. Meglio saperlo.
Il reddito aumenta anche per chi non lavora
Sfogliando l’ultimo rapporto annuale di Bankitalia capita d’imbattersi in una buona notizia che racconta della nostra straordinaria capacità di cavar sangue dalle rape. E che ha sicuramente diverse buone spiegazioni, sulle quale però il rapporto non si sbilancia. In sostanza, il reddito è aumentato per (quasi) tutti, ma più di altri per gli inoccupati.
Reddito cittadinanza, forse. Ma chi può dirlo? Anche perché questo nuovo miracolo italiano, che si è verificato fra il 2016 e il 2020, non riguarda solo chi non lavora, ma anche i lavoratori indipendenti, quindi “liberi professionisti, i lavoratori autonomi, gli imprenditori, i soci o i gestori di società, i lavoratori atipici”. Tutti i particolari li trovate nella tabella sotto.


Per il totale delle famiglie, nei quattro anni considerati, il reddito medio equivalente è cresciuto in termini reali di circa il 4 per cento, grazie all’andamento favorevole dall’economia fino al 2019. Per chi non lo ricordasse, il reddito medio equivalente “è una misura che approssima il reddito di cui un membro di una famiglia dovrebbe disporre per raggiungere lo stesso livello di benessere che otterrebbe se vivesse da solo”.
La tabella sopra ci comunica altre informazioni. Il reddito equivalente per i nuclei dove vivono pensionati è rimasto stabile, mentre “l’incremento è stato decisamente più marcato della media per quelli in cui il principale percettore è lavoratore indipendente o non lavora”. Il reddito dei lavoratori autonomi è stato sostenuto dal capitale finanziario, spiega Bankitalia, che include anche il risparmio sugli interessi sui debiti concesso dalle moratorie.
Si osserva inoltre un aumento più sostenuto fra il primo quintile, ossia i più poveri, e i più ricchi, ossia il quinto quintile di reddito. I primi hanno goduto di sostegni pubblici – il famoso miracolo italiano -; i secondi hanno semplicemente aumentato i risparmi per effetto delle restrizioni. Quindi la diseguaglianza è rimasta costante. Senza sostegni, invece, sarebbe aumentata di un punto. Un altro miracolo italiano. Fatto a debito.
Sempre più difficile il rebus dei rinnovi contrattuali
Fra i tanti passaggi che vale la pena sottolineare del lungo rapporto annuale di Bankitalia, conviene dedicare qualche minuto a quello che sembra destinato a diventare il grande tema dei prossimi anni: i rinnovi contrattuali in un’epoca di inflazione crescente.
Per dare un’idea della rilevanza della questione basta ricordare che “la quota di dipendenti privati con contratto scaduto alla fine del 2021 era pari al 38%”. Parliamo quindi di alcuni milioni di lavoratori – i dipendenti del settore privato sono circa 15 milioni – che esprimono una quota importante della domanda nazionale le cui retribuzioni sono ferme da alcuni anni. Che poteva risultare sostenibile in un contesto di prezzi stabili, ma rischia di trasformarsi in una bomba sociale con l’inflazione all’8%.
Non subito, ovviamente. “In Italia l’impianto complessivo della contrattazione collettiva limita nel breve periodo la reattività delle retribuzioni a variazioni inattese dei prezzi”. Ma questo a voler vedere il bicchiere mezzo pieno. Perché un’occhio meno rassicurante osserverebbe piuttosto che ritardare il rilascio di una tensione – “le tensioni legate al recente brusco rialzo dell’inflazione continueranno ad avere nei prossimi mesi un impatto contenuto sulle dinamiche del costo del lavoro”, scrive la Banca – significa “scaricare” una forza maggiore una volta che questa tensione si lasciata libera. Detta diversamente, non è molto sicuro che la tenuta di oggi coincida con quella di domani.
I segnali che arrivano dall’estero, in tal senso non sono molto rassicuranti. Ma per il momento, almeno nel nostro paese, non si intravedono rischi di spirali prezzi/salari. Nello scorso mese di marzo, infatti, quando le pressioni sui prezzi erano già visibili da tempo, il contratto delle costruzioni è stato rinnovato con aumenti intorno al 2% l’anno per il triennio 2022-24.
“Anche gli ampi margini di forza lavoro inutilizzata contribuiranno a frenare la dinamica retributiva: il tasso di disoccupazione, seppure in calo, è ancora compatibile con una crescita moderata dei salari; il numero di ore lavorate per addetto è tuttora inferiore rispetto ai valori pre-pandemici”, conclude la Banca.
Non ora e non subito, insomma, sorgeranno problemi sul versante della dinamica salariale. Ma domani chissà.
