Etichettato: rapporto annuale bis 2015
Il mondo alle prese con la Triade del rischio
Uno e ormai trino, il rischio globale, che assedia le nostre economie, trova nella narrazione che ne ha fatto di recente la Bis nel suo rapporto annuale la migliore delle rappresentazioni possibili a uso di coloro che vogliano godersi il panorama da un’altura appena più elevata rispetto a quella che usualmente ospita gli osservatori. La banca di Basilea, d’altronde, è il luogo delle riflessioni ponderate, l’ideale punto di vista di chi voglia comprendere le ragioni profonde della nostra economia, provando persino a dar loro un senso intellegibile capace di ordinare il caos di notizie contraddittorie che anima la nostra attualità.
Così Brexit, nelle dichiarazioni introduttive del direttore generale Jaime Caruana, occupa appena poche righe, con ciò sostanziandosi la portata reale di quest’evento rispetto al movimento profondo dell’economia internazionale. Quest’ultima, che risulta persino in miglior salute di quanto si possa desumere, rimane comunque fragile, esposta alla temperie di un rischio che ormai si è talmente stratificato da divenire inerente alla costituzione stessa del tessuto economico. L’economia, sembra di capire, è cresciuta perché nel frattempo anche il rischio è aumentato, replicandosi nell’economia reale la regola non scritta della finanza che vuole un maggior rischio associato a un maggior rendimento. Volendo crescere, vale a dire, i policy maker hanno dovuto accettare rischi crescenti, che ormai si declinano lungo tre diverse angolature, fino a configurarsi in una Triade, alla quale più volte fanno riferimento gli economisti della banca.
La prima fonte di rischio, spiega Caruana, “è costituita dai crescenti livelli di indebitamento, sia privato, soprattutto nelle economie di mercato emergenti, sia pubblico nelle economie avanzate, dove i governi si sono sforzati di attutire le ricadute economiche della fase di bust”. Sommandosi queste due voci di debito hanno condotto il debito globale a livelli mai visti in tempi di pace. E questo vuol dire un continuo drenaggio di risorse che i debitori devono assicurare ai creditori per servire, pure ai tassi minimi di oggi, le loro obbligazioni.
La seconda fonte di rischio, invece, è la crescita della produttività, che continua a languire. “Il rallentamento della crescita della produttività è un processo complesso, con molti fattori in gioco. I cicli finanziari sono uno di essi: attraggono una quantità eccessiva di risorse in settori in espansione ma con bassa crescita di produttività quali le costruzioni; una volta che si concretizza la fase di bust ci vuole tempo prima che queste risorse allocate in maniera distorta tornino verso usi più produttivi. Le nostre
analisi indicano che questi effetti possono essere significativi e duraturi”. Questo rischio, che impatta sulla crescita, sommandosi al primo, genera l’effetto di una maggiore sofferenza nella capacità di sostenere la montagna di debito che intanto continua a cumularsi, conducendo alla terza fonte di rischio: l’assottigliarsi dei margini per le manovre di policy. “Ciò risulta evidente nelle contromisure asimmetriche e non equilibrate adottate dalle politiche, che non hanno contrastato, o non hanno contrastato a sufficienza, i boom del credito, adottando invece continue
misure di allentamento durante le fasi di bust”.
Questa Triade svolge i suoi effetti nella filigrana stessa del tessuto economico, esacerbandone l’instabilità quando si verificano episodi di tensione, come nella seconda metà del 2015 e all’inizio di quest’anno. A questa minaccia, latente e potenzialmente violenta – come lo stesso episodio di Brexit mostra con chiarezza – se ne aggiunge una seconda che ci riporta alla radice del problema: la persistenza di tassi di interesse bassi. “Tassi persistentemente bassi, o addirittura negativi, erodono i margini netti di interesse delle banche, creano più disallineamenti di rendimento delle compagnie assicurative e incrementano il valore delle passività dei fondi pensione. Nel tempo, tutto ciò può avere un impatto debilitante sull’economia reale. Oltre a ciò, i tassi negativi possono scuotere la fiducia delle famiglie e influenzare le attitudini al risparmio e all’investimento per vie ancora più difficili da prevedere”.
E così si arriva al punto fondamentale che tutti temono più di ogni cosa: la perdita di fiducia. Cosa succederebbe se gli operatori smettessero di credere nel potere delle banche centrali di influenzare l’inflazione, o in quello dei governi di fare ciò che serve per stabilizzare l’economia?
A questa domanda non c’è nessuno che abbia voglia di rispondere.
La pagliuzza greca e la trave del sistema monetario
Preoccupati come siamo dall’infinità di pagliuzze che ci accecano, non riusciamo a scorgere all’orizzonte la trave del sistema monetario internazionale, o sarebbe meglio dire come ha notato qualcuno, del non sistema monetario internazionale, che poi è la trave incrinata sulla quale poggia il sistema finanziario globale.
Per quanto ormai si riconosca malfunzionante e pericolante, questo non-sistema, la comunità internazionale, a cominciare dall’azionista di maggioranza, esita ad addivenire a una composizione, confermando con ciò la prassi che serva sempre un evento traumatico per convincere le persone di buona volontà a mettersi attorno a un tavolo e decidere.
Il caso greco, in tal senso, ne è esempio chiaro. Il caos post referendum una volta che la polvere si sarà posata, ci dirà se l’eurozona troverà la sua palingenesi o se sembra davvero destinata a una qualche forma di dissoluzione. Ma qualunque sia l’esito la vicenda greca un risultato l’ha già raggiunto: adesso la questione dovrà essere dibattuta sul serio, a livello sistemico, senza più pensare che basti allargare i cordoni della borsa perché le cose vadano a posto da sé.
Per il sistema monetario internazionale il discorso è simile. Malgrado sia fonte riconosciuta di squilibri, lo conferma anche la Bis che dedica al tema un approfondimento nel suo ultimo rapporto annuale, del sistema monetario non si parla perché la soluzione che è stata adottata è stata quella di annacquare i problemi con un diluvio di liquidità. Che poi alla lunga non ha fatto altro che esacerbare questi problemi.
Le banche centrali hanno sostanzialmente comprato tempo, arrivando ad cumulare asset superiori ai 22 trilioni, e portando i tassi a livelli mai così bassi nella storia, sperando che i paesi trovassero una soluzione di sistema. Cosa che non è accaduta. E temo anche solo ad immaginare cosa serva per convincere gli attori di questa tragica farsa a mettersi seduti a discutere per trovare una soluzione.
La diagnosi della Bis peraltro è chiara. Il sistema monetario internazionale (IMFS) è “incapace di di prevenire il formarsi di deficit di conto corrente insostenibili”, con i paesi in surplus “che non hanno incentivi a aggiustare il saldo mentre quelle in deficit sì”. A meno che non siano gli Usa, ovviamente. E tuttavia “gli squilibri di conto corrente sono stati al centro degli sforzi cooperativi del G20”.
Con pochi esiti, a quanto pare, visto che “il principale difetto degli accordi esistenti è che tendono ad aggravare le debolezze”. In particolare, nota la Bis, “il sistema tende ad aumentare il rischio di squilibri finanziari”, ossia boom creditizi, che poi hanno esiti negativi sulla produttività e a seguire sui salari, o degli asset che stressano i bilanci degli operatori, siano essi famiglie, stati o imprese, e finiscono col provocare gravi guasti macroeconomici.
Per arrivare a tale diagnosi, la Bis svolge un’accurata anamnesi analizzando le caratteristiche che compongono l’ossatura del sistema monetario e i suoi esiti principali. I punti principali sono tre: il peso del dollaro, con la sua straordinaria capacità di estendere i suoi effetti su tutto il globo, basti considerare (vedi grafico) che l’87% delle transazioni sul forex sono in dollari e il 62,9% delle riserve ufficiali pure; la limitata proprietà di isolamento dei tassi di cambio, che inducono i diversi paesi risposte politiche volte a evitare grandi differenziali di interesse nei confronti delle principali valute internazionali; le onde potenti generate dalla libera circolazione dei capitali e della liquidità globale, che superano i confini degli stati uniformando le condizioni globali della finanza.
Per dirla con le parole della Bis, “sistema monetario ha diffuso l’allentamento monetario e finanziario dal paese della valuta di riserva al resto del mondo, come ha fatto anche prima della crisi”. Che io traduco così: la politica finanziaria e monetaria americana, grazie alla libera circolazione dei capitali e alla titolarità di quella che di fatto se non di diritto è la moneta internazionale, decide di tutte le altre.
Ovviamente ci sono precise ragioni storiche che hanno determinato questa situazione che la Bis riassume efficacemente, ma che evito di ricordare perché ormai sono di dominio pubblico. Mi limito a sottolineare l’osservazione della Bis, che nota sorpresa come “l’avvento dell’euro e il trend di deprezzamento del dollaro iniziato nel 1970 non abbia materialmente cambiato il ruolo del dollaro come riserva di valore”. Per mancanza di alternative, come dice qualcuno. O forse perché non c’è alternativa agli Usa.
L’avvento dell’euro ha solo determinato che la Bce si è aggiunta al carro della Fed e adesso insieme, ma lascio voi decidere chi sia la vera locomotiva, “trasmettono le loro policy direttamente alle altre economie”. Come dato vi basti questo: il credito a prenditori non bancari denominato in dollari concesso fuori dagli Usa è arrivato a fine 2014 a 9,5 trilioni di dollari, quello europeo a 2,7 trilioni. Il che mi fa pensare a una forma riveduta e corretta del vecchio colonialismo ottocentesco.
Ciò che mi interessa di più raccontarvi è come la Bis immagini si possa arrivare a una soluzione.
Il primo punto che la Bis nota è che tenere la casa in ordine, dizione ormai comune che denota la capacità di un paese di non cumulare squilibri, siano essi fiscali o esteri, è un buon viatico per evitare i contagi. Il che sarà pure giusto, ma suona leggermente irrealistico: sfido chiunque a farlo quando girano così tanti soldi che cercano rendimenti e in una società che viene scientificamente addestrata al consumo compulsivo.
A tal fine le banche centrali, scrive la Bis, dovrebbero sempre più e meglio essere capaci di neutralizzare gli effetti di trascinamento del ciclo finanziario internazionale.
Pure, il buon senso nazionale poco può in mancanza di un coordinamento internazionale. “Muovere al di là del perseguimento illuminato del proprio interesse richiederebbe uno sforzo di cooperazione internazionale per fissare regole che vincolino le politiche interne”, scrive la Bis. e questo ci riporta al problema principale, che noi europei stiamo riscoprendo con la crisi greca: il conflitto fra le nazioni e gli organismi sovranazionali.
Rafforzare la cooperazione internazionale significa, volenti o nolenti, diminuire gli spazi di sovranità nazionale. Cosa che può anche riuscire quando si ha a che fare con piccole nazioni come quelle europee, e il caso greco dimostra che pure così non è detto che si riesca, ma che sembra vagamente illusorio quando ci sono di mezzo i banchieri del mondo.
Non a caso la Bis ricorda la linea di swap da 600 miliardi che la Fed concesse alle banche centrali partner all’esplodere della crisi, esempio di quel coordinamento, sempre a guida americano, che finora è il limite massimo raggiunto dalla cooperazione internazionale sul tema. E tuttavia anche questa pratica, qualora la si provi a trasformare in procedura codificata, incontra ostacoli.
L’idea di un prestatore globale di ultima istanza, ché questo poi è il significato del safety-net disegnato dalla Fed con gli swap, porterebbe il perimetro del sistema monetario fuori da dov’è, ossia dal non luogo a guida americana, e magari dalle parti del FMI, che comunque, in assenza di riforme delle quote, anch’essa bloccata dagli Usa, rimane un utile strumento anglo-americano e nulla più.
In assenza di prese di posizioni degli stati, visto che il gigante Usa tutto vuole tranne che cedere sovranità, restano solo le banche centrali a farsi interpreti della necessità della cooperazione. Ma questa non è una novità. La Bis, che ricorda “i successi della cooperazione internazionale nell’ambito della regolazione finanziaria e della supervisione” negli anni ’30 è stata costituita, oltre che per fare da agenti dei pagamenti tedeschi agli alleati, anche per promuovere questa cooperazione.
Ma per rifare il sistema monetario occorse una guerra. La cooperazione venne dopo.
