Etichettato: recessione patrimoniale

La scomparsa della domanda italiana di credito

Non ditemi che sono fissato con le vecchie storie perché lo so già. Ogni tanto v’infliggo articolesse dense di riferimenti economici archeologici, che mi provocano, a me che sono un praticante dell’attualità, devastanti sensi di colpa.

Ma poi mi dico che non è colpa mia se la storia somiglia all’attualità, per cui ricordare vecchi documenti è un modo grazioso per dirsi che il nostro procedere somiglia al rollio delle barche, un po’ avanti e un po’ indietro, ogni volta incerti se davvero stiamo andando avanti o se invece, senza saperlo, stiamo lentamente affondando.

L’idea di questo post mi è venuta qualche giorno fa, mentre leggevo il triste resoconto dell’economia internazionale sul finire del 1939 e ai primi del 1940, quando la Bis, autrice della sua relazione di quell’anno, si trovò a interrogarsi su un curioso paradosso: la scomparsa della domanda di credito, malgrado la straordinaria abbondanza di mezzi di pagamento – all’epoca era l’oro lo strumento principe – e i tassi di interesse ai loro minimi storici. Tanto era vero che la disponibilità di risorse non si traduceva in domanda di credito che i prezzi addirittura stagnavano, per non dire che calavano, persino negli Stati Uniti, dove pure l’abbondanza di riserve auree aveva raggiunto un livello senza precedenti.

Capirete perché hanno iniziato a fischiarmi le orecchie.

Ma far parlare la Bis forse servirà a renderlo più chiaro.

“Prima del 1914 – scrisse – si ammetteva che esistesse in permanenza una domanda di facilitazioni creditizie e che gli istituti di credito
concedessero prestiti nella misura consentita dalle loro risorse”. Di conseguenza “sorge la domanda come mai l’immenso accrescimento
di quantità e, ancora più, di valore della nuova produzione di oro non sia riuscito a ingenerare un aumento dei prezzi delle merci”.

La risposta fu che “la produzione corrente dell’oro influisce sui prezzi soltanto in quanto direttamente o indirettamente crea una nuova domanda effettiva di beni”.

Il problema, quindi, non era che mancassero i mezzi di pagamento, che anzi erano abbonandanti, ma che rimanessero fermi per mancanza di domanda. Nessuno voleva prendere a prestito per fare affari, investire o consumare. Al limite si prendeva a prestito per ristrutturare i debiti, e in particolare i debiti esteri.

Per dirla con le parole dei banchieri svizzeri, “la scomparsa della domanda di credito, che è caratteristica dell’evoluzione economica degli Stati Uniti e di parecchi altri paesi negli ultimi anni, ha temporaneamente soppresso un anello nella catena attraverso la quale l’oro influisce sui prezzi”.

E negli Usa, già da allora dominus dell’economia internazionale, per una serie di ragioni, “i fattori principali che, negli ultimi sei anni, hanno dominato il mercato del danaro e quello dei capitali erano stati: l’enorme afflusso d’oro, il continuo finanziamento del disavanzo statale e la relativa mancanza di richieste di crediti commerciali sia a breve, sia a lungo termine”.

Per i banchieri dell’epoca l’idea che l’offerta di moneta non generasse in automatico domanda di credito era un bel rompicapo, e anche in questo somigliano ai loro nipotini di oggi. Ma il problema era che a più di vent’anni dalla fine della prima guerra, e a seconda guerra ormai iniziata, il mercato non avesse ancora recuperato la sua costituente principale: la fiducia. Che poi è quella miscela magica di coraggio, sete di profitti e incoscienza che ti fa investire, prendere a credito, consumare. Ieri come oggi, viene da dire.

Già, perché se all’oro sostituite l’abbondante liquidità spinta a forza dalle banche centrali nel circuito economico ai giorni nostri, scoprirete che le parole scritte più di settant’anni fa dalla Bis sono sorpredentemente simili a quelle che potete leggere oggi in un qualunque bollettino di una qualunque banca centrale a noi vicina.

Per non andare troppo lontano, mi sono andato a rileggere “La domanda e l’offerta di credito a livello territoriale”, report redatto dalla Banca d’Italia, la cui ultima edizione risale al luglio scorso. I dati arrivano fino alla fine del 2013, ma sono più che eloquenti.

La vulgata, infatti, accusa sempre le banche di non dare credito all’economia al fine evidente di “costringere” la Bce a fare come la Fed. Il che è sicuramente vero, ma è solo una parte della verità. Per dirla tutta dovremmo ricordare che accanto all’offerta di credito, che le banche tirchie lesinano, c’è la domanda di credito che arriva da imprese e famiglie. Che, almeno da noi, sembrano inappetenti almeno quanto sono tirchie le banche.

“Nella seconda parte del 2013 – scrive Bankitalia – la debolezza della domanda di finanziamenti proveniente dalle imprese – generalizzata a tutte le aree del Paese – è stata più intensa nel Nord Ovest. Sulla domanda hanno gravato il calo delle richieste di prestiti destinati a finanziare gli investimenti e la stagnazione del fabbisogno di fondi per la copertura del capitale circolante. La contrazione si è confermata più accentuata nel comparto delle costruzioni, specie nelle regioni del Nord Ovest e del Mezzogiorno”. Inoltre, “la domanda di mutui per l’acquisto di abitazioni si è stabilizzata nel Centro Nord, mostrando segnali di ripresa nel Nord Est. Nel Mezzogiorno si è registrato un ulteriore indebolimento”.

Se poi andiamo a vedere i dati, che sono riferiti al quinquennio 2009-13 notiamo che per tutto il 2009 la domanda di credito è stata negativa , con l’indice che la misura al picco di -0,3. Nel 2010 c’è stata una ripresa di domanda, in particolare proveniente dal Nord Ovest, che però ha dovuto fare i conti con la tirchieria delle banche, che proprio nel 2010, eravamo agli albori della crisi dell’euro, erano molto più interessate a comprare titoli di stato italiani piuttosto che fare prestiti.

Ma se guardiamo il grafico dell’offerta di credito da parte delle banche notiamo anche un’altra cosa: per quanto in ribasso nel 2010, nell’intero periodo considerato non è mai successo che l’offerta di credito sia stata negativa, con un’eccezione: nel secondo semestre 2013 l’indice è sceso sottozero nel Sud e nelle Isole e nel Nord Est, i gemelli diversi. Rispetto al 2008, prima quindi del crash, quando l’indice quotava fra 0,3 e 0,4, l’indice si è abbassato fra 0,1 e un po’ sopra lo 0,2. Quindi l’offerta di credito è senza dubbio diminuita, ma solo la domanda è crollata.

Il grafico della domanda, infatti,  mostra con chiarezza che l’indice era ancora positivo alla fine del 2008. Poi sprofonda sotto zero nel 2009. Si riprende leggermente nel 2010 per inabissarsi di nuovo nel secondo semestre 2011, per arrivare, nel primo semestre 2012 a un picco di -0,4 per il sud. Dal picco si registra una costante  ma lenta risalita, ma a fine 2013 la domanda è ancora negativa.

Sorprendentemente simile è l’andamento della domanda di mutui dalle famiglie, in territorio negativo già dal quarto trimestre 2008 e per tutto il 2009. Conosce una breve ripresa nel 2010, guidata paradossalmente dal Sud e le Isole, per poi sprofondare quasi fino a -0,8 per il Nord est nel 2012. Nell’ultimo semestre del 2013 solo il Nord est mostra una domanda positiva.

Tutto ciò dovrebbe bastare a comprendere che a parte me, che non credo più nel credito, c’è un sacco di gente in mezzo a noi che ha smesso di rivolgersi alle banche per chiedere finanziamenti. Succede quando un paese incappa in una recessione patrimoniale, ed è già successo nel mondo negli anni ’30. Le ragioni possono essere diverse: dal costo giudicato eccessivo del credito, alla scarsa fiducia di poterlo ripagare perché magari non si crede che prendere a credito genererà profitti sufficienti.

Per convincere gli italiani a tornare in banca servirà un vero drago. Non nel senso di Mario.

 

L’età della Grande Stagnazione

Euforico e insieme depresso, il mondo sta sperimentando l’inedito effetto della recessione patrimoniale che ne ha devastato le economie, interrogandosi sul punto dirimente di così tante analisi astruse. Vale a dire: da dove arriverà la crescita che tutti attendono come unico rimedio contro il male dell’indebitamento crescente?

Perché una cosa la crisi ce l’ha insegnata: è impensabile, e vagamente suicida, continuare a pensare di diminuire la massa debitoria contraendo semplicemente la spesa.

I dati mostrano con chiarezza che nei paesi in crisi laddove si è provveduto a diminuire la spesa, a livello pubblico o privato, i debiti sono ancora alti, sia in valore assoluto che in rapporto al Pil, deprimendosi quest’ultimo per via di un’austerità che ha provocato anche gravi danni al mercato del lavoro. Sicchè i vari soloni che almanaccano le masse con l’elencazione dei propri rimedi, alla fin fine concordano: bisogna tornare a crescere.

Ma è sul come che c’è poca chiarezza.

La Bis, nella sua relazione annuale, lo ripete ad ogni dove, ma poi alla fine concede che l’unico rimedio sono le mitiche riforme strutturali, e confessa che il mondo, ormai privo di una bussola efficiente, rischia una stagnazione secolare, pressato com’è dalla montagna di debiti, laddove i crediti corrispondenti sono impegnati in una costante ricerca di rendimenti, suicida anch’essa, e dalle urgenze demografiche, che prefigurano un deciso cambio di paradigma fra i cosìddetti scienziati economici.

Solo che di questo nuovo paradigma ancora non si scorge fisionomia alcuna che non sia stanca riproposizione di formule vuote. Con la conseguenza che ci sono rimaste solo le banche centrali a tenere in vita il moribondo, con massicce flebo monetarie che rischiano, laddove ripetute e insistenti, di far più danni del male alla prossima crisi del paziente.

Da dove ripartire, quindi?

“Il ripristino di una crescita mondiale sostenibile – scrive la Bis – pone sfide considerevoli. Nei paesi colpiti dalla crisi non è realistico attendersi che il livello del prodotto ritorni al trend pre-crisi”. Ciò in quanto “varie economie avanzate stanno ancora riprendendosi da una recessione patrimoniale. Le famiglie, le banche e, in misura minore, le imprese non finanziarie stanno risanando i propri bilanci e riducendo il debito eccessivo”.

Tale processo “è particolarmente avanzato negli Stati Uniti, mentre è ancora a uno stadio precoce altrove, compreso in un’ampia parte dell’area dell’euro. Le risorse devono inoltre essere destinate a nuovi impieghi più produttivi. Al contempo, molte EME (economie emergenti, ndr) si trovano nella fase finale di un boom finanziario, lasciando presagire per il futuro un possibile effetto di freno sulla crescita”.

Per avere un qualche elemento sui cui riflettere, è utile sottolineare che il divario fra prodotto pre-crisi e post-crisi è pari ad esempio al 12,5% circa negli Stati Uniti e al 18,5% nel Regno Unito, mentre è addirittura più ampio per la Spagna, al 29%.

L’esperienza insegna che tornare a vedere il prodotto crescere almeno quanto prima “accade raramente”, dopo una recessione patrimoniale, ossia dopo una crisi che accoppia una crisi finanziaria o bancaria a una crisi congiunturale. E basterebbe ricordare il caso del Giappone degli anni ’90, per averne contezza.

“Nemmeno le prospettive di ripristinare la crescita tendenziale sono brillanti”, avverte la Bis. Anche perché “la crescita della produttività nelle economie avanzate era già in calo prima della crisi e in diversi paesi le forze di lavoro si stanno già contraendo per effetto dell’invecchiamento della popolazione”.

Per capire le implicazioni delle osservazioni della Bis, dobbiamo ricordarci che il prodotto si compone di consumi, privati e pubblici, investimenti, scorte ed export netto. Atteso che la crescita dei consumi è limitata dai debiti, privati e pubblici, e dall’andamento non entusiasmante dei redditi, deflazionati dalla disoccupazione, bisognerebbe spingere sul pedale degli investimenti o delle esportazioni.

Queste ultime, a loro volta, incontrano un limite nella capacità dei consumi esteri, che non sfuggono alla generale stitichezza che affligge il mondo dei consumi, atteso che per vendere la mia merce devo pur sempre trovare qualcuno all’estero disposto a comprarla. Sicché rimangono gli investimenti, che sono veicolo di spesa, per cominciare, e, soprattutto, di occupazione, e quindi, indirettamente, di nuova domanda.

Giocoforza perciò interrogarsi sullo stato di salute degli investimenti internazionali.

A tal proposito la Bis ci ricorda che “gli investimenti sono tuttora inferiori ai livelli pre-crisi in numerose economie avanzate”, anche se ciò “non dovrebbe rappresentare un’importante zavorra per la crescita tendenziale”.

Il deficit degli investimenti è vieppiù elevato nel settore delle costruzioni, specie nei paesi che hanno registrato forti boom immobiliari “e quindi costituisce una correzione necessaria”. E tuttavia “anche la spesa per attrezzature è inferiore alla media pre-crisi”.

Tale andamento, nelle economie avanzate, è stato compensato dall’aumento tendenziale degli investimenti nelle economie emergenti che però, così investendo, si sono infilate in una situazione densa di complessità, legate come sono alla politica monetaria della Fed e ad alcune specificità locali, come quella cinese, a dir poco inquietanti. Basti ricordare che “gli investimenti in Cina” si collocano su livelli prossimi al 45% del Pil, quindi “insostenibilmente elevati”.

Ma in generale è la prospettiva di lungo periodo degli investimenti globali che solleva parecchi interrogativi.

La crescita degli investimenti fissi lordi rimane anemica, specie nei paesi colpiti più duramente. Il gap fra prima e dopo il bust è pari a 14 punti percentuali in Irlanda, 9 in Spagna, 4 negli Stati Uniti e 3 nel Regno Unito. E poiché “è irrealistico attendersi che gli investimenti in rapporto al PIL tornino sui livelli antecedenti la crisi nelle economie avanzate”, rimane da chiedersi la solita domanda: cosa dovremmo fare?

“Poiché i finanziamenti per le imprese non rappresentano un vincolo”, grazie alla inusitata disponibilità di capitali assai ben disposti a essere concessi in prestito, “appare più appropriato ricondurre la debolezza degli investimenti alla lente ripresa della domanda aggregata”.

E quindi il cerchio si chiude. La domanda non tira, appesantita dagli eccessi del debito e dalla paura del futuro, e gli investimenti, malgrado l’abbondante liquidità messa a disposizione dai mercanti del capitale, di conseguenza. E così, girando in tondo torniamo al punto di partenza: cosa dovrebbero fare i cervelloni che governano?

La Bis osserva che la risposta, o almeno una risposta, potrebbe essere su un migliorato aumento di produttività, capace di indebolire quell'”indebolimento tendenziale” che ormai va avanti da un decennio. E quindi, di nuovo, le famose riforme strutturali.

Senonché le politiche dal lato dell’offerta, chiamiamole così, portano con loro il fastidioso dettaglio che comunque serve anche una domanda capace di incontrarla, questa offerta. E così a naso, l’unico risultato plausibile di un così deciso riformarsi strutturalmente altro non pare possa essere che una gigantesca redistribuzione del reddito a favore dei produttori. Quindi una restrizione della labor share, che peraltro sembra assolutamente coerente con lo spirito del tempo. E d’altronde ha anche un senso: in un mondo in cui aumenta la popolazione, diventa più semplice trovare lavoro a basso costo.

E’ questo quel che ci aspetta? Riportare l’orologio della storia agli anni ’50, con un’Europa che replica le politiche migratorie e retributive dell’Italia di quel tempo?

Nessuno ha la risposta, ovviamente. Eppure la domanda insiste a presentarsi, sicché è opportuno darvene conto.

Anche perché l’alternativa, quella che più di tutte molti osservatori usano a mo’ di spauracchio, è quella di una “secolare stagnazione”. Quindi prodotto al lumicino bastante appena a pagare gli interessi su debiti divenuti ormai eterni, con gli spietati ragionieri europei a sforbiciare ogni anno qualcosa per garantire ai creditori il pagamento di quanto è loro dovuto grazie all’improntitudine degli stati.

Redistribuzione o stagnazione.

Ai posteri l’ardua sentenza, diceva il poeta.