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La sparizione secolare della classe media
In tempi in cui si discute con seria apprensione di stagnazione secolare, volendo con ciò sottolineare il costante calo di domanda aggregata provocata dagli sfavori demografici, dal progresso tecnico e dalla globalizzazione, diventa interessante tornare a sottolineare l’unico processo, questo sì davvero secolare, che sta lentamente mutando la fisionomia delle nostre economie cosiddette avanzate: la sparizione del ceto medio.
Mentre la stagnazione secolare sembra uno di quegli eventi che una volta si chiamavano atti di Dio, a voler significare che si tratta di cose al di fuori del nostro controllo, la sparizione della classe media somiglia più a una conseguenza diretta del mondo che abbiamo creato. Quindi delle nostre consuetudini e del contesto istituzionale nel quale le società occidentali si sono trovate ad operare negli ultimi quarant’anni. Questione nota, peraltro, e anche assai discussa. Sicché questo post non avrebbe ragione di esser scritto se non fosse che il Fmi, nel suo ultimo staff report dedicato agli Usa, ci regala uno spaccato istruttivo di questo fenomeno, e segnatamente analizzando la sparizione secolare del ceto medio americano, ossia dell’avanguardia di tutti i ceti medi d’Occidente, in particolare quelli europei. Nessun paese meglio degli Usa, almeno dal secondo dopoguerra in poi, mostra una parabola più esemplare di come si sia sviluppata questa fascia sociale e di come ormai si in via d’estinzione, a vantaggio dei più poveri, che sono diventati assai di più, e dei più ricchi, che sono diventati sempre meno.
Non pensiate che questa ricognizione nasconda chissà quali sentimenti d’invidia o peggio. Ho ben chiaro a cosa sia funzionale il totem della disuguaglianza. Esibisce invece l’occhio stupito dell’osservatore, classe media anch’egli, che perciò sente di somigliare a certe specie preziose che gli zoologi sociali di domani racconteranno aver dominato le nostre società per un trentennio e poi essersi estinto, per il peso stesso della sua complessione. Come una specie di dinosauro che ha esaurito le risorse naturali. Il caso americano, perciò, valga come mappa di un futuro probabile, non semplicemente possibile.
Poiché la storia è nota e ampiamente discussa, non vale spenderci tante parole. Bastano un paio di grafici. Il primo che misura l’evoluzione della ricchezza mediana delle famiglie, ove si osserva una crescita notevole, ma solo negli scaglioni più alti, il 90 e il 95esimo percentile. L’altro, ancora più eloquente, fotografa quella che il Fmi chiama polarizzazione della ricchezza. In pratica i ricchi hanno più ricchezza di prima. Per darvi un’idea della portata di questo fenomeno, basti un dato: la ricchezza netta del gruppo di famiglie che guadagna meno dei due terzi della ricchezza mediana è diminuita del 20% rispetto al 1983. Per converso, nel frattempo è raddoppiata la ricchezza netta di quelli che detengono il doppio della ricchezza mediana. C’è poco altro da aggiungere: la sparizione del ceto medio è l’unica tendenza secolare, insieme a quella demografica, che abbia dignità di fenomeno sociale.
E’ interessante tuttavia, prima di concludere, citare una glossa del Fmi relativamente alle conseguenze di tale situazione. “Lo staff stima che questa crescente polarizzazione abbia condotto a un consumo aggregato più basso negli ultimi 15 anni. Studi empirici mostrano che in consumi di quelli che sono scivolati nella fascia di reddito non sono aumentati e lo staff stima che tali minor consumi abbiano abbassato il consumo aggregato di circa il 3,5%, equivalente a un anno di consumo, sin dal 1998.
Tutto si tiene, sembra di capire. La sparizione secolare del ceto medio impatta sul calo della domanda aggregata, uno dei presupposti della stagnazione secolare. E così analizzando l’una si dà fondamento all’altra. Probabilmente la realtà è assai più complessa. Ma non ditelo al Fmi.
Bomba da dieci trilioni nel sistema finanziario (e fiscale) Usa
Lì da dove tutto è cominciato – la finanza immobiliare americana – tutto deve necessariamente tornare, mi dico mentre leggo l’ultimo staff report del Fmi che all’housing finance dedica un approfondimento, e non a caso. “Malgrado numerosi passi siano stati fatti per sanare le strutturali debolezze del mercato dei mutui – nota il Fmi – una riforma complessiva dell’housing finance rimane in gran parte un lavoro incompleto”.
Una premessa che solleva parecchi dubbi sullo stato di salute del sistema finanziario americano, che proprio a causa del crollo della finanza immobiliare ha patito una delle sue crisi peggiori, e il resto del mondo di conseguenza.
“In particolare – nota il Fondo – non è ancora chiaro quando Fannie Mae e Freddie Mac usciranno dal regime di conservatorship (in sostanza la tutela del governo, ndr) e quale sarà la fisionomia dell’housing finance”. Ciò nella consapevolezza che tale incertezza “crea non solo rischi fiscali ma anche finanziari”. Ossia “il moral hazard che deriva dalla copertura delle perdite sui crediti o dalle imprese sponsorizzate dal governo, un paesaggio competitivo distorto da Fannie Mae e Freddie Mac e i larghi sussidi per i proprietari di casa che crea incentivi e favorisce l’accumulo di debito da parte delle famiglie”.
Rimane il fatto che, oggi come ieri, “i mercati ipotecari sono parte integrante per la stabilità complessiva del sistema finanziario degli Stati Uniti”. E quindi la fonte principale del rischio finanziario statunitense.
I numeri ci dicono che i mutui per le abitazioni, che valevano circa 10 trilioni di dollari a fine 2014, sono la parte preponderante del debito del settore privato non bancario, pesando circa il 39% del totale, il doppio dei bond e della carta commerciali, che non superano il 18%. Poi ci sono i prestiti, al 14% e il credito al consumo, al 13%. La voce altri mutui, quelli commerciali, assorbe un altro 13%. Se sommiamo questi ultimi ai primi, ne ricaviamo che oltre la metà del debito privato americano è legato in qualche modo al mattone. E questo basta a comprendere perché la statistiche immobiliari siano così rilevanti.
A ciò si aggiunga che la principale fonte di finanziamento di questi prestiti sono le cartolarizzazioni che, lo abbiamo visto nel 2008, sono strumenti capaci di diffondere repentinamente il proprio contagio in tutto il mondo. “Negli Stati Uniti – nota il Fmi – le garanzie pubbliche, direttamente dal governo o tramite Freddie Mac e Fannie Mae, svolgono un ruolo importante nel processo di cartolarizzazione”.
E poi ci sono i sussidi, altra specificità Usa. I mutui a tasso fisso trentennali, che non prevedono sanzioni per l’estinzione anticipata, e quindi scaricando i rischi sul prestatore, consentono alla grande maggioranza dei debitori di vendere le loro case e ripagare il mutuo e finanziarne un altro in meno di dieci anni. Ciò fa della finanza immobiliare americana un settore intimamente speculativo. Come esempio il Fondo fa quello dei mutui trentennali erogati prima del 2009, l’80% dei quali sono stati ripagati entro il 2013.
A fronte di queste caratteristiche strutturali, “anche dopo otto anni dalla crisi”, il mercato ipotecario continua a funzionare grazie a un estensivo supporto del governo. “Il governo federale – nota il Fmi – sta dietro più del 60% dello stock dei prestiti e supporta quasi l’80% dei prestiti concessi alle nuove famiglie attraverso la Federal housing administration (FHA).
Un grafico sommarizza bene questa situazione, risalendo addirittura al 1951. All’epoca le istituzioni finanziarie, quindi innanzitutto le banche, detenevano praticamente il 100% dei crediti originati dai debiti immobiliari. Ma nel corso del tempo l’intervento delle varie entità sponsorizzate dal governo ha spostato il rischio di tali crediti dalle banche allo stato. Un processo iniziato negli anni ’70 e che oggi vede le banche detenere poco più del 30% di tali crediti. La via americana alla socializzazione (globale) delle perdite della finanza immobiliare.
L’enorme rischio fiscale che il governo si è assunto, e tanto più dopo la crisi del 2008, è in sostanza la benzina che alimenta il motore del mercato immobiliare Usa. Dal canto loro gli intermediari finanziari lucrano sulla carta che questo rischio fiscale consente di stampare, ossia le obbligazioni che mutui cartolarizzano, spargendola per il mondo in un tripudio di capitale fittizio.
Ne deriva che “il sistema attuale ostacola il funzionamento dei mercati ipotecari”, visto che scoraggia quella sana competizione che nel vangelo economico corrente dovrebbe favorire l’efficienza e l’efficacia, favorendo per converso comportamenti irresponsabili.
E anche l’argomento che tale politica abbia finalità sociali si rivela fallace, nota il Fmi, sottolineando come invece sia prodiga di effetti collaterali indesiderati. E certo fa sorridere che il governo americano, dopo quello di Singapore, sia quello più coinvolto nel settore immobiliare. Osservare che gli Usa sono più pesantemente coinvolti della Russia nella gestione del mercato immobiliare mi fa interrogare su quale sia la vera patria del socialismo.
La morale di questa storia mi pare sia quella che le leggi del mercato si applicano ai nemici e si interpretino per gli amici. E non mi stupisce che tale prassi sia di casa negli Usa, visto che sono i primi a infischiarsene bellamente del mercato quando ne ravvedano la necessità.
Il problema è che il conto delle loro scelte prima o poi dobbiamo pagarlo noi.
