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Memorie d’Albione: Il puzzle della produttività

Comincio a credere sul serio che qualcosa di profondo si sia rotto, nel meraviglioso mondo del processo economico globale, mentre sfoglio l’ultimo survey dell’Ocse sul Regno Unito pubblicato qualche giorno fa.

Se anche la patria del capitalismo si trova a essere finita nelle parti basse della classifica del Doing business, e deve pure fare i conti con una produttività declinante che necessita delle solite riforme strutturali, allora mi viene da pensare che il nodo, che tanti ipotizzano sia alla base di una stagnazione secolare, sia assai più complicato da dipanare di quanto una qualsiasi report sullo stato dell’economia tenda a semplificare.

Ancor di più mi stupisco quando leggo l’Ocse esortare il Regno Unito ad aprire le sue frontiere agli immigrati. Ma non immigrati qualsiasi, sia chiaro, ma di qualità. Sembra proprio che il futuro dei lavoratori europei passi per una perfetta padronanza di almeno due lingue, meglio tre, a cominciare dall’inglese, e da alte specializzazioni capaci, queste sì, di aumentare la produttività, che poi è il feticcio più di moda del nostro tempo.

Nel caso inglese, poi, la questione è veramente secolare.

Il declino della produttività inglese è cominciato assai prima che l’erompere della crisi finanziaria lo abbia conclamato.

Un grafico sommarizza l’andamento degli investimenti inglesi, che poi dovrebbero essere un volano della produttività, a partire dal 1971. Qui osservo come la curva degli investimenti sul Pil sia rimasta pressoché stagnante intorno al 20% del Pil, fino al termine degli anni ’80, quando il livello arrivò a superare di poco il 25%.

Da allora il declino è stato sostanziale. Già nella seconda metà degli anni ’90 il rapporto investimenti/pil era sceso sotto il 20%. La curva ha proseguito il suo declino fino alla seconda metà degli anni 2000, quando gli investimenti si sono contratti bruscamente a causa della crisi senza risalire significativamente. Ora siamo intorno al 15%.

Se leggiamo questo grafico in parallelo con l’andamento della produttività del lavoro scopriamo anche altre cose.

Dal 1998 in poi la crescita della produttività è stata declinante, da meno del 3% annuo a poco più dell’1%, guidata al ribasso dall’andamento incerto dei TFP, ossia i fattori totali della produzione.

La produttività si impenna fra il 2002 e il 2003, guidata sempre dai TFP, per poi tornare bruscamente al suo trend, fino a quando non diventa negativa fra il 2008 e il 2009 con l’esplodere della crisi.

La ripresa della produttività arriva già nel 2010. si riporta al livello del 2007, salvo tornare a diminuire fino a tonrare negativa nel 2012 e solo leggermente positiva l’anno successivo.

Che tale andamento si sia accoppiato a una significativa crescita dell’occupazione è quello che gli esperti chiamano il puzzle della produttività inglese, e che viene usualmente spiegato con la circostanza che l’aumento dell’occupazione si sia registrato in attività a basso valore aggiunto, o tramite meccanismi di impiego flessibili che rendono poco dal punto di vista della produttività.

In sostanza: si lavora di più ma si produce meno di prima.

Infatti l’Ocse nota che “le riforme strutturali hanno rinforzato l’offerta di lavoro”, circostanza che un profano come me interpreta come una chiara perdita per il fattore lavoro. “Le riforme del welfare, delle pensioni e dell’immigrazione hanno abbassato la quota salari – sottolinea l’Ocse – e il declino della sindacalizzazione ha ridotto il potere contrattuale del lavoro”. Che è come dire che poiché i lavoratori sono più flessibili, e quindi più economici, è stato più semplice aumentare l’occupazione.

C’è sempre il lato oscuro della forza. E nel caso inglese ciò ha coinciso con la stagnazione della produttività. “La recente crescita del lavoro – sottolinea – è stata parzialmente concentrata fra gli individui che hanno una produttività minore della media o che hanno accettato lavori che richiedono meno skill o che si son auto-impiegati”.

Insomma: gli inglesi lavorano (per) meno ma lavorano (quasi) tutti. Tanto è vero che la produttività è rimasta sottotono anche se l’occupazione ha pressoché recuperato il livello pre-crisi e il totale delle ore lavorate pure, pur con rilevanti differenze fra i vari settori.

Che questo fosse l’esito delle economie occidentali post-crisi qualcuno lo aveva già sospettato.

Ma quel che qui conta osservare è quale sia la risposta che l’economia inglese dovrebbe mettere in campo per invertire questa tendenza “secolare”.

La risposta è semplice (a dirsi): il primo punto è sviluppare l’economia basata sulla conoscenza. Insomma: puntare su un lavoro di qualità, quindi per sua natura estremamente produttivo.

“Sono necessarie riforme per sviluppare l’offerta e liberare la produttività”, osserva l’Ocse. Che nel caso dell’UK significa migliorare il sistema educativo, ma anche la qualità dell’accesso finanziario alle start up. “Politiche a favore di un’economia della conoscenza potrebbero incoraggiare gli immigrati altamente qualificati a lavorare e vivere in UK. E ciò potrebbe compensare la mancanza di competenze aumentare la produttività”.

Un discorso che ho sentito ripetere più volte, non solo in UK. L’import di cervelli come soluzione per la crisi dell’Occidente, senza neanche pensare a una qualche forma di contropartita per gli esportatori, ossia quei paesi dove quei cervelli sono nati, cresciuti e hanno studiato, che hanno solo da perderci.

Mi chiedo che futuro abbiano i lavori non skillati, se mi passate il termine, che almeno una volta potevano emigrare.

Ma ancor di più mi colpisce scoprire come nella classifica Doing business mentre in generale il Regno Unito conquista un ottimo ottavo posto sui 189 disponibili, si trova 45esimo in quella che misura la facilità di iniziare un’impresa, 68esimo il quello che misura la facilità di registrare una proprietà e 70esimo in quella che misura la facilità di avere l’elettricità.

Insomma, gli inglesi hanno tanto lavoro da fare per diventare produttivi.

Ma al momento sembrano distratti.

(2/segue)

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Memorie d’Albione: L’inutile svalutazione della sterlina

Mi torna in mente che è buona prassi diffidare delle speculazioni della teoria economica mentre guardo alcuni grafici dell’ultimo survey dell’Ocse dedicato al Regno Unito che illustrano l’andamento delle esportazioni di questo paese che più di tanti, in questi anni tormentati ha svalutato la moneta.

Emerge con chiarezza che il deprezzamento del cambio non ha per nulla migliorato la performance dell’export inglese, che anzi è peggiorata.

L’indice 100, che misurava la performance delle esportazioni inglesi nel 1977, oggi quota meno di 80, a voler significare che il commercio internazionale, che certamente ha a che fare con il cambio, è un filo più complesso nel suo determinarsi di quanto si possa credere pensando che il cambio è capace di determinarne gli esiti.

Detto in altre parole, è vero, perché è logico, che il tasso di cambio può influenzare il commercio estero. Ma ciò non vuol dire che sia necessariamente reale.

Non è così semplice imprigionare la realtà nella logica. E la realtà del Regno Unito ce lo conferma.

Alcuni dati sul cambio della sterlina con le principali valute gioveranno all’analisi.

Cominciamo dal cambio euro/sterlina. Fino alla metà del 2008 servivano circa 0,675 sterline per un euro. L’esplodere della crisi porta a una sostanziale svalutazione della sterlina, che il 29 dicembre 2008 arriva a sfiorare la parità, raggiungendo il suo minimo storico di 0,979 pound per un euro. Parliamo di una perdita di valore di circa il 45%.

Da allora il trend si è invertito e la sterlina si è molto ripresa, ma non poteva essere diversamente visto dov’era arrivata. Ma ancora nel 2010-11 viaggiava fra 0,8 e 0,9 e solo a metà del 2011 ha iniziato a rivalutarsi fino a 0,77, da dove è tornata a perder valore fino a circa 0.875 di inizio 2013. Ora siamo intorno a 0,73-75, quindi sempre un 7-10% meno rispetto al livello del 2008.  E solo perché la Bce ha di molto rilassato la sua politica monetaria, QE incluso.

Se guardiamo al cambio sterlina/dollaro lo schema è simile. ancora nel luglio del 2008 ci volevano quasi due dollari per una sterlina. A gennaio del 2009 ne bastavano 1,4. Oggi siamo nell’ordine di 1,55 dollari per una sterlina, che significa oltre il 20% in meno rispetto al livello pre crisi.

Guardiamo anche al cambio sterlina/yen, comunque istruttivo, visto che la BoJ non è una mammoletta quanto a capacità di svalutazioni.

Bene. A fine luglio 2007 servivano 210 yen per una sterlina. A gennaio 2009 ne bastavano 120. La sterlina ha ricominciato ad apprezzarsi sul serio solo nel 2013, non appena la BoJ ha annunciato il suo QQE. Ora ci vogliono circa 180-85 yen. siamo comunque circa al 10% in meno del picco pre crisi.

Noto infine che la sterlina ha subito una sostanziale svalutazione anche nei confronti del renmimbi cinese di circa il 28% dai 13,5 yuan di luglio 2008 ai poco più di 9 del febbraio 2015.

Questo dato è interessante sottolinearlo. E non ci avrei pensato se non avessi notato un grafico della Survey dove si vede con chiarezza il divaricarsi della performance fra l’export inglese, in costante calo, e quello dei Brics, piatto dal 2008 in poi, malgrado la forte svalutazione della valuta inglese.

Degno altresì di nota è che il declino dell’export britannico vada di pari passo con quello dei paesi del G7, Uk escluso.

Ma se osserviamo più da vicino notiamo un’altra cosa: la Gran Bretagna ha fatto assai peggio di Austria, Svezia, Germania e Olanda. La Germania, peraltro, è l’unico paese che ha un indice in crescita da livello del 1977.

Constatare che la svalutazione non abbia aiutato per nulla l’export inglese ci direbbe poco se ciò si limitasse al fatto che non bisogna farsi suggestionare dalle seduzioni logiche dell’economia. In ogni caso è buona cosa chiedersi perché l’assioma “svaluto quindi esporto” non abbia funzionato per gli inglesi.

La risposta la trovo in due grafici, messi a disposizione da Ocse, dove si misura l’andamento del valore aggiunto dei settori cosiddetti “tradable”, ossia orientati allo scambio a distanza, e i flussi di export netti che essi hanno originato.

Degna d’attenzione, in particolare, l’andamento della curva del settore manifatturiero, che nel 1992 viaggiava sopra il 14% del valore aggiunto globale lordo e nel 2013 è arrivata sotto il 10%. Andamento declinante anche per il settore Oil&gas, che stava intorno al 6% e ormai viaggia sotto il 2%. In controtendenza, il settore dei servizi finanziari, poco sopra il 6% nel 1992, è arrivato a sfiorare il 10% nel 2009 per poi anch’esso declinare fino a circa l’8%.

Se dal grafico del valore aggiunto andiamo a vedere quello dell’export netto, notiamo un’altra singolarità. Il reer (real effective exchange rate) fatto 100 il livello del 1992, ora quota intorno a 85, a significare una svalutazione reale della moneta di circa il 15%. A fronte di ciò il settore manifatturiero ha perso circa il 40% del suo valore aggiunto globale, in termini di export netto, così come anche quello Oil&gas. Al contrario, il settore finanziario ha visto crescere il suo peso specifico fino a circa il 30%.

Ciò mi lascia sospettare due cose, ossia che gli effetti della svalutazione sull’export netto dipendano dalla composizione dei settori dell’economia nazionale. Nel caso inglese, ad esempio, il calo generale dei prezzi energetici può aver impattato sull’export netto assai più della svalutazione. Poi che la svalutazione sembra abbia giovato a banche e broker, più che ai produttori di beni o materie prime. Poiché però il manifatturiero ha ancora un peso rilevante sull’economia inglese, il saldo per l’export è stato comunque negativo.

Insomma: se qualcuno pensava che svalutando la sterlina le esportazioni sarebbero migliorate ha sbagliato i suoi conti.

Forse non conosceva l’economia inglese.

(1/segue)

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