Etichettato: TTIP

Il commercio europeo dopo la crisi

Per farvela semplice, la crisi non ha giovato al commercio europeo. Malgrado l’Ue conservi ancora la maggior posizione relativa, quanto alla sua quota di mercato, la sua posizione si è deteriorata molto più che negli Stati Uniti, essendo stato eroso parte del suo vantaggio competitivo sui beni ad alto know how. E poi c’è la Cina, che ha fatto la parte del leone nel commercio globale degli ultimi vent’anni, e ancora sembra attrezzata per continuare a sottrarre quote di mercato alle economie avanzate.

Mi convinco perciò che gli europei dovranno lottare con le unghie e con i denti per restare nel grande gioco, e mi solleva giusto l’osservazione, che leggo nell’articolo diffuso dalla Commissione Ue (“Has the EU’s leading position in global trade changed since the crisis?”) che c’è qualche ragione d’ottimismo, motivata dalla circostanza che nel 2013, per la prima volta dalla crisi, la zona europea ha riguadagnato spazi di mercato. O forse, dato il contesto internazionale, sarebbe più giusto osservare che li hanno perduti gli altri.

L’analisi tuttavia è articolata e vale la pena leggere la dozzina scarsa di pagine che la illustrano.

L’autore osserva che alcuni fattori hanno modificato sostanzialmente il pattern degli scambi internazionali. Alcuni di origine istituzionali: l’arenarsi del Doha round guidato da WTO, che ha provocato la proliferazione di una serie di accordi bilaterali, ma soprattutto l’avvio del negoziato Ue-Usa, che coinvolge anche Canada e Giappone, per il Transpacific Trade and Investment Partnership (TTIP).

Ma è opportuno ricordare anche il Transpacific Partnership Agreement (TPP), le cui negoziazioni sono inziate nel 2005 e che al 2014 ha visto partecipare ai tavoli per la liberalizzazione di commercio e investimenti dodici paesi, segnatamente l’Australia, il Brunei, il Canada, il Cile, il Giappone, la Malaysia, il Messico, la Nuova Zelanda, il Perù, Singapore, gli Usa e il Vietnam.

Da questa rapida illustrazione emerge con chiarezza che la globalizzazione, seppure con la lentezza tipica del suo burocratico dispiegarsi, procede sul molti tavoli pure se il WTO sembra essere rimasto sullo sfondo.

Altri sviluppi sono arrivati direttamente dai mercati. E fra questi ovviamente primeggia il furioso affermarsi delle economie emergenti, Cina in testa, che hanno segnato la fisionomia dei commerci internazionali dell’ultimo ventennio, suscitando grandi speranze e altrettanto gradi timori, specie adesso che i loro prodotti, tenuti in vita artificialmente col credito facile, iniziano a rallentare.

Rimane il fatto però che, secondo le stime del WTO, la quota degli emergenti nell’output globale è passata dal 23% al 40% fra il 2000 e il 2012, e la loro quota sul commercio globale è passata dal 33 al 48%, senza considerare il fatto che sono diventate grandi calamite per gli investimenti diretti globali (FDI). Secondo i dati UNCTAD del 2014 il 54% degli afflussi totale di FDI sono andati a queste economie. Tanto che dieci paesi dei 20 al top degli afflussi di FDI sono emergenti.

Una tabella, costruita su dati WTO, esemplifica bene la situazione al 2013. L’Ue a 28, escludendo i commerci intra area, aveva una quota del 15,3% delle esportazioni globali di beni, primo esportatore globale, appena un filo sotto la Cina, con il 14,7%.

Interessante notare come la classifica speculare, ossia quella degli importatori di beni, veda primeggiare gli Stati Uniti, con il 15,4% e poi l’Ue28 con il 14,8%, seguita dalla Cine con il 12,9%. Il Giappone, con il 4,9% di esportazioni e il 5,5% di importazioni, si classifica al quarto posto. La Cina, quindi, non è solo un forte esportatore, ma anche un notevole importatore, e ciò spiega perché il suo conto correnti delle merci sia diventato via via più sottile col passare del tempo, somigliando in ciò al Giappone.

Se dai beni passiamo ai servizi, lo scenario cambia un poco. l’Ue28 è sempre la prima esportatrice, con il 25,2% di quota di mercato, ma è anche la prima importatrice, con il 19,7% di quota globale. Gli Usa stanno al secondo posto, sia dell’export che dell’import, rispettivamente con il 18,7% e il 12,7, e la Cina al terzo, sia dell’export che dell’import, con un risicato 5,8% di export e un 9,7% di import.

Quindi è sulla partita dei servizi che il blocco occidentale avanza compatto, mostrandosi quindi come il suo autentico punto di forza. Non a caso l’articolo della Commissione Ue parla di “forte vantaggio sui suoi competitors dell’Ue nei servizi commerciali”.

E tuttavia le cose andavano meglio prima. Un grafico, che mostra la quota aggregata del commercio europeo prima della crisi, lo colloca intorno al 20% fino al 2009, quando si inabissa fino a sfiorare il 15%. Da allora l’andamento è stato piatto, salvo appunto la lieve ripresa nel 2013.

Gli Usa hanno vissuto una dinamica molto simile, ma diversi anni prima. Dal 15% di quota globale che ancora detenevano nel 2001, si sono trovati al 10% nel 2004, quindi dopo l’ingresso ufficiale della Cina nel Grande gioco, che infatti stava sotto il 5% nel ’99 e aveva già raggiunto il 10% nel 2007.

Altri dati mostrano con chiarezza “il ruolo prominente dei paesi emergenti nel commercio europeo”. Un ruolo che prima era degli Usa. Ancora nel 1999 il 27% dei commerci extra Ue erano indirizzati verso di loro, a fronte del 14% del 2013. Al contrario il 5% di commerci verso la Cina del 1999 è arrivato al 12,5% nel 2013.

Questa sommaria illustrazione ci riporta al punto di partenza, ossia il contesto istituzionale. Se pare difficile che l’Ue28 possa recuperare la quota di commercio che aveva prima della crisi, bisogna chiedersi se, nello stipulare accordi, sarebbe ragionevole favorire i vecchi partner, ormai lontani, o quelli nuovi, che hanno pure il vantaggio di essere assetati di servizi in cui l’Ue eccelle.Insomma: America o Cina?

Peraltro lo studio nota come la Cina di recente abbi sviluppato vantaggi comparativi nella produzione intensiva di beni e sia diventata un driver globale nel settore ricerca e sviluppo.

In un momento in cui si torna a parlare di accordi commerciali la domanda se puntare sulla Cina o sulla America non mi pare oziosa.

Il problema è che l’Ue28 è solo un’espressione geografica.

L’ultima sfida della globalizzazione

Evviva il commercio, dicevano i vecchi liberali, convinti che tale pratica fosse la panacea d’ogni male e il viatico di ogni bene.  Il commercio, quindi scambi sempre più fitti, con lo stato a regger la cornice del quadro idilliaco in cui l’operoso mercante, col sostegno del banchiere avveduto, portava la sua roba di là del mondo per tornare al suo più ricco e cosmopolita, e perciò cittadino più degli altri del grande luogo che si chiama mercato internazionale.

Questa utopia, germinata secoli fa in quella che Polanyi chiamò mercato autoregolato, ha conosciuto la sua seconda o terza giovinezza da un trentennio a questa parte, e in particolare negli ultimi venti, quando la fine della guerra fredda ha trasformato il mondo in una bancarella globale dove le merci, denaro in testa, provano a circolare liberamente per la gioia dei mercanti, appunto, e dei cittadini che così, dice la vulgata possono comprare mercanzie estere a prezzi convenienti, poiché è facile importarli laddove è conveniente produrle, come insegnavano gli economisti classici.

Il nuovo eden in cui tutto si scambia, perciò, è divenuto il mito contemporaneo e di conseguenza la costituente della narrazione collettiva che l’economia sostanzia con i suoi astrusi algoritmi. Siamo cresciuti e cresciamo a pane e globalizzazione, con, come sottofondo, i raglii stonati di quelli che si dicon contrari, salvo poi esibire smartphone coreani, mangiare sushi, fumare Camel, vestire indiano e riempirsi la bocca della Cina, magari guidando una bella Bmw.

D’altronde non bisogna stupirsi: l’utopia della globalizzazione genera la contro-utopia del no logo, esattamente come il capitalismo ha generato il comunismo. Peraltro global e no global hanno in comune una semplice circostanza: entrambi sono mode assai remunerative per chi le pratica.

Quest’allocuzione che a molti parrà fuori luogo in realtà me l’ha ispirata la lettura della sempre interessante relazione annuale della nostra banca centrale che con grande acume dedica un paio di paginette alla grande scommessa (forse l’ultima) del futuro prossimo venturo: ossia il rilancio in grande stile del processo di globalizzazione guidato stavolta non più dai soliti accordi bilaterali fra stati, redatti sotto lo sguardo benigno del Wto, ma direttamente dai grandi accordi regionali, fra i quali spicca quello che dovrebbe siglarsi fra Usa e Ue, destinato per sua stessa natura a fungere da apripista agli altri.

Tale accadimento, spiega Bankitalia, non è certo un incidente della storia, ma risponde a una precisa logica economica.

“Sulla scelta delle principali economie di investire in accordi di liberalizzazione a elevato potenziale – scrive – hanno influito anche fattori congiunturali. In una fase di stringenti
vincoli alla spesa pubblica, questi accordi rappresentano strumenti di stimolo all’attività economica e al commercio internazionale che non incidono direttamente sulle finanze statali”.

Senonché il problema è quel “direttamente” che chiude il ragionamento. Perché gli stati, con le loro gelosie e i loro protezionismi, da sempre bestie nere dei mercanti, sono gli stessi che dovrebbero abbattere le barriere che hanno costruito. E proprio in fase di “stringenti vincoli alla spesa pubblica”, ossia di malumori nazionali, non è certo semplice gestirne altri che necessariamente derivano dall’infliggere una robusta dose di globalizzazione al mercato interno. Non è certo un caso che il commercio internazionale si sia ridotto a causa della crisi.

Come esempio basti quello che già ha prodotto il primo veto nel negoziato Usa-Ue: la normativa sugli appalti pubblici.

Gli Usa, notori campioni del liberalismo (altrui) proteggono le proprie imprese nazionali riservando loro una corposa quota della spesa pubblica stanziata per gli appalti e quindi non hanno alcuna intenzione di aprire il loro ricco mercato interno alle imprese estere che, hai visto mai, potrebbero persino competere in casa loro.

Non vi stupisca questa ipocrisia: dire una cosa e praticare il contrario è prassi comune nel pensiero liberale applicato, coi liberali puri a lagnarsi degli stati che dicono che bisogna liberalizzare ogni cosa, ma col quasi fra parentesi.

Nel 2013 perciò, sulle ali della timida ripresa che fa vagheggiare altrettanto timidi balzi del prodotto, è ripartito l’impeto globalizzante al grido: riforme a costo (fiscale) zero e ad alto valore aggiunto.

Il commercio, perciò, innanzitutto.

“Il 2013 – scrive Bankitalia – ha rappresentato un anno di svolta per le iniziative di liberalizzazione commerciale, contraddistinto dall’avvio dei negoziati per la Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), ambizioso accordo bilaterale fra Stati Uniti e Unione europea, dall’avanzamento di quelli per il Trans-Pacific Partnership Agreement (TPP), che interessa oltre agli Stati Uniti e al Giappone numerosi paesi dell’Asia – a esclusione della Cina – e alcuni dell’America latina, e dalla conclusione del primo accordo multilaterale in seno al Doha Round, lo scorso dicembre a Bali”.

Tanta effervescenza è stata sospinta dalla crisi che ha fatto ripensare le strategie della politica commerciale globale. Dopo il fallimento del Doha round, degradato a congerie di accordi bilaterali da quel mega accordo globale che si immaginava sarebbe diventato agli albori del XXI secolo, Usa, Ue e Giappone hanno deciso di intraprendere la difficile sfida degli accordi regionali che, nota la Banca, “rispondono alle esigenze di un sistema produttivo ormai sempre più organizzato su scala globale”. D’altronde che senso avrebbe per un tedesco produrre in Cina se poi non potesse vendere negli Stati Uniti?

Senonché tale logica meravigliosa contrasta con una delle costituenti stessa del pensiero economico-liberale, ossia con gli stati. Gli stati hanno inventato i mercati, a cominciare da quelli interni, gli stati possono distruggerli, a cominciare da quelli internazionali, che peraltro hanno sempre subìto più che apprezzato e con i quali oggi sono costretti a fare sempre più i conti, dovendoseli pure far piacere. Ciò spiega perché ognuno mantenga intero il suo potere di contratto.

“Le negoziazioni tra economie di pari rilievo, tuttavia, sono particolarmente delicate e difficili – nota Bankitalia –  richiedendo una maggiore disponibilità a scendere a compromessi. Vi è quindi un concreto rischio che le trattative si protraggano oltre gli orizzonti previsti, come testimoniato dalle difficoltà emerse finora in seno ai negoziati per il TTIP e il TPP”.

Difficoltà non facili, anche per la vastità dell’ambizione del processo di globalizzazione che ormai vuole estendersi a qualunque scibile, sia esso finanziario, regolatorio, normativo o merceologico. Vuole esser tutto per tutti, e per ognuno allo stesso modo.

Quest’ansia omologante trova la sua ragion d’essere nel miraggio dei guadagni, che in epoca di cresci asfittica vengon promessi abbondanti. I “numerosi studi” concordano nel calcolare i benefici derivanti dal liberalizzare nell’ordine dei tre decimi/un punto di Pil, anche se la stessa Bankitalia rileva quanto siano aleatorie e incongruenti tali stime.

Sicché rimane da osservare che di certo c’è solo che il commercio internazionale cala, con grande scorno dei buoni propositi, anche nel primo trimestre del 2014. “Secondo le più recenti previsioni del Fondo monetario internazionale, il volume degli scambi si espanderebbe del 4,3 per cento nel 2014, una crescita ancora contenuta in relazione alla dinamica del PIL mondiale (3,6 per cento), rispetto all’elasticità storicamente osservata”.

Perciò la massima scomessa della globalizzazione viene giocata nel momento di massima debolezza dei commerci internazionali. Proprio per questa ragione, sottolinea la vulgata: per rilanciarla.

Proprio come si fece negli anni Venti del XX secolo, quando tutti i paesi si sottoposero alla cura da cavallo del gold standard proprio per rilanciare il commercio internazionale, a cominciare da quello dei capitali, che sul gold standard, si basava e allo stesso tempo gli stati aumentavano la loro dotazione di gelosie protezionistiche, visto che l’adozione dello standard finiva col deprimere le loro economie.

Poi arrivarono gli anni Trenta.