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Adesso Eurolandia si allarga per via bancaria
Poiché in questi tempi perigliosi è difficile trovare qualcuno che abbia voglia di entrare nell’euro, ossia nell’Unione monetaria, i cervelloni che guidano l’Europa hanno escogitato una straordinaria scorciatoia: l’adesione all’Unione bancaria.
In pratica così facendo si salta un passaggio.
Non c’è da stupirsi. I tempi sono quelli che sono, e i saldi fiscali pure. Meritarsi la leggendaria convergenza verso i principi dei Trattati è praticamente impossibile per mezzo mondo, figurarsi per i paesi europei. E quelli – pochissimi – che hanno i numeri si tengono ben lontani dal caravanserraglio.
A proposito, per chi non lo ricordasse, l’Unione Europea ha guadagnato da poco il 28 stato, la Croazia, mentre Eurolandia guadagnerà presto il suo 18, la Lettonia. E potrebbe finire qui per un bel pezzo.
Gli esperti, infatti, pensano che si sia esaurita la spinta propulsiva dell’Unione. Anche perché l’andamento della crisi nell’eurozona, ha fatto perdere parecchio del suo appeal al carro dell’euro.
L’Islanda, per dire, che pure aveva avviato i colloqui per entrarci si è momentaneamente sfilata. Quanto alla Turchia, la storia infinita dei negoziati per il suo ingresso nell’Ue dovrebbe conoscere un’evoluzione quest’autunno, ma per il momento è tutto bloccato. Mantengono ancora lo status di paese candidato la Serbia, la Macedonia e il Montenegro, ma per il momento non si è andati oltre le buone intenzioni.
Che fare?
In tempi di crisi è buona norma approfittarne per serrare le fila. E così hanno fatto i nostri leader che, spinti proprio dalla crisi, vararono nel 2010 l’Eba, european banking association, ossia l’ennesimo organismo tecnico, cui si affidò l’incarico di sorvegliare il settore bancario europeo, producendo anche manuali di buone regole e suggerimenti, in perfetto stile common law.
All’Eba partecipano tutte le autorità di sorveglianza di tutti i paesi membri dell’Ue, non soltanto quelli di Eurolandia.
Dopo poco più di due anni di attività, la storia dell’Eba è cambiata lo scorso 12 settembre, quando l’europarlamento ha approvato il primo pilastro dell’Unione bancaria, ossai quello che affida alla Bce la vigilanza su 130 banche dei paesi aderenti all’Unione monetaria. Il regolamento che affida alla Bce tali compiti è stato approvato insieme a quello che ridisegna compiti e attribuzioni dell’Eba. Ed è in questo binomio che viene tracciato il solco degli allargamenti a venire dell’Unione: la convergenza sulle pratiche bancarie.
“L’attuale crisi – recita la narrativa della norma approvata – ha mostrato che l’integrità della moneta unica e del mercato interno potrebbe essere minacciata dalla frammentazione del mercato finanziario. Per rilanciare la crescita economica nell’Unione è essenziale mantenere e approfondire il mercato interno dei servizi finanziari. La realtà dei fatti indica che l’integrazione dei mercati bancari nell’Unione sta subendo una battuta d’arresto, nel contempo l’esperienza maturata insegna che, oltre all’adozione di un quadro regolamentare rafforzato, le autorità di vigilanza devono intensificare l’attività di controllo ed essere in grado di vigilare sui mercati complessi e interconnessi”.
Senonché, ricorda “nell’Unione la competenza a vigilare sui singoli enti creditizi resta principalmente a livello nazionale” e sebbene “il coordinamento tra autorità di vigilanza sia essenziale”, la crisi “ha dimostrato che non è sufficiente”. Ben venga l’Eba, insomma, ma bisogna mettere in campo un grosso calibro. La Bce, appunto.
Tutto questo lo sapevamo già. La novità è che tale analisi sia contenuta in una norma che coinvolge tutta l’Unione, non soltanto l’Unione monetaria.
Altrattanto interessante è leggere nella narrativa della norma che “il 29 giugno 2012 il Consiglio europeo ha invitato il presidente del Consiglio a sviluppare una tabella di marcia per la creazione di un’autentica unione economica e monetaria“. Come se fino ad ora avessimo scherzato.
“E’ opportuno – aggiunge – che l’Unione bancaria si applichi almeno a tutti gli stati membri della zona euro, ma nella prospettiva di mantenere e approfondire il mercato interno, l’unione bancaria dovrebbe essere anche aperta, per quanto possibile sul piano istituzionale, alla partecipazione di altri stati membri”.
Eccola qui la porticina d’ingresso nel magnifico mondo dell’eurozona bancaria.
Ma perché uno stato membro dell’Ue ma non partecipante all’euro dovrebbe accettare di entrare nell’Unione bancaria?
Anche qui valgono gli argomenti che furono usati all’epoca dell’ingresso nell’euro: entrare a fra parte di un club rassicurante, perché vigilato dalla Bce, non può che giovare al settore finanziario di uno stato, specie se dai fondamentali incerti. Tanto più quando si tratta di paesi che gravitano nell’orbita dei paesi core dell’eurozona, come ad esempio i paesi del centro-est europeo.
Detto in altre parole, entrare nel progetto di Unione bancaria può essere un ottimo viatico per entrare, più avanti, nell’Unione monetaria.
Non è un caso che durate il vertice di Vilnius dell’Ecofin il ministro delle finanze svedese anders Borg, si sia affrettato a dire che per la Svezia l’ingresso nell’Unione bancaria è ancora lontano nel tempo. La Svezia, magari un po’ ottimisticamente, può vantare un sistema finanziario forte abbastanza da vedersela da sola. Ma gli altri?
Rimane il fatto che il percorso dell’Unione bancaria rimane ancora accidentato. L’approvazione del primo pilastro segna solo l’inizio del percorso, e quello più accidentato rimane l’individuazione della fisionomia dell’organismo di risoluzione, ossia di quello che può decidere il fallimento di una banca. La materia è finita sul tavolo dei colloqui di Vilnius, ma non si sono fatti progressi.
Secondo la Reuters, che ha raccolto alcune indiscrezioni, la Germania, che finora aveva sollevato alcune eccezioni giuridiche all’idea della commissione Ue di accentrare su di sé tale responsabilità, sarebbe al lavoro su una proposta da presentare dopo le elezioni che potrebbe trovare un comporomesso fra l’esigenza di mettere al sicuro le banche e tutalare al contempo il proprio orticello finanziario, magari tendendo fuori dall’Unione bancaria le Casse di risparmio (Sparkassen) spesso nell’alveo della politica.
Ancora una volta le esigenze nazionali dei paesi più forti, tendono a primeggiare su quelli comuni. Gli stati sono assai riluttanti a “disfarsi”, cedendone prima la vigilanza e poi la risoluzione, dei propri istituti finanziari.
D’altronde, chi non vorrebbe una banca?
Si prepara la mutazione politica della Bce
Il problema, con la Banca centrale europea, è che è troppo forte, come direbbe Verdone.
Sono talmente bravi a Francoforte che ormai tutti i dossier dell’eurozona finiscono sul loro tavolo. Col risultato che quello che doveva essere il mestiere più noioso del mondo, come ebbe a definirlo un banchiere centrale inglese, è diventato estremamente interessante e di moda.
Oggi i banchieri centrali sono le rockstar della finanza.
Senonché a tanti onori corrispondono altrettanti oneri. E i tempi difficili che ci aspettano saranno il vero banco di prova per la tenuta dell’intero sistema, che nelle banche centrali trova la sua pietra angolare.
Ciò spiega perché in questa sofferta epoca storica i banchieri centrali parlino così tanto. Potranno sempre dire: noi vi avevamo avvisato.
Tale interessantissima logorrea non poteva certamente risparmiare la Bce. Anche perché la banca centrale europea non è semplicemente la pietra angolare del sistema finanziario dell’eurozona.
Sta diventando qualcosa di molto più determinante: la levatrice dell’Unione europea. lo dimostra chiaramente il dibattito in coso sull’Unione bancaria, che vede la Bce attivissima contributrice.
In questa storica evoluzione, la Bce può contare sul solido supporto dei giuristi, ossia coloro che hanno inventato il diritto comunitario, che sono chiamati ogni volta a valutare la congruità delle scelte della Bce con il dettato dei trattati, e sulla sostanziale ignavia dei politici.
Ma soprattutto può contare sull’inesauribile e inesaurito contributo della crisi economica.
E’ stata la crisi a constringere le banche centrali a interventi non convenzionali. E sarà la crisi, in modalità exit strategy, a costringere la banche centrali a dover gestire il deflusso.
Il concetto lo spiega bene Jörg Asmussen, componente del board della Bce, che ha parlato di recente al meeting annuale di Bruegel a Bruxelles.
Per farsi capire, il nostro banchiere centrale parte da un aneddoto. Ossia la fine dei soldi facili decretata nel 1994 dagli americani, che coincise con un robusto rialzo dei tassi.
All’epoca, ricorda Asmussen, bastò che le notizie macronecomiche orientassero le aspettative verso un rialzo dei tassi affinché i mercati obbligazionari crollassero a picco. Prima ancora che la Fed alzasse i tassi, gli operatori economici iniziarono a temere un rialzo dell’inflazione, cui sarebbe seguito (come poi è accaduto) il rialzo dei tassi e di conseguenza dei rendimenti sui mercati obbligazionari. Con la conseguenza che il valore capitale dei bond esistenti crollò, mentre si originarono corposi deflussi di capitali dai paesi emergenti. Ne seguirono crisi in America Latina e in Asia.
“Il mercato dei bond non crollò solo in America – ricorda – ma in tutto il mondo. E se le esternalità furono importanti nel 1994, possiamo aspettarci che lo saranno ancor di più oggi, visto che il mondo è ancora più interconnesso”.
Per dare un’idea, basti considerare che si calcolano flussi di risorse verso i mercati emergenti per circa 1,1 trilioni dal 2008 ad oggi.
Questo per dare un’idea di che razza di bomba ha innescato la Fed con la sua politica monetaria.
E’ interessante il passo successivo.
“Dal mio punto di vista ci sono due importanti lezioni che emergono dall’episodio del 1994: primo serve chiarezza sulle ‘funzioni di reazione’ delle banche centrali, perché i rendimenti dipendono dalle aspettative dei mercati sulle reazioni delle BC. Secondo, serve che le aspettative di inflazione siano ben ancorate, visto che la paura dell’inflazione amplifica gli impatti degli sviluppi economici”.
Siccome il nostro banchiere ama andare sul tecnico, proviamo a semplificare il suo messaggio: la lezione del 1994 insegna sostanzialmente una cosa: servono buone banche centrali.
E qui torniamo all’incipit: bisogna essere troppo forti.
E la Bce è già avanti nel suo lungo cammino di mutazione genetica, vissuta sul filo dei trattati.
Non è mai diventata, né mai probabilmente diventerà, prestatrice di ultima istanza, perché i trattati lo vietano, però si è inventata dei programmi speciali (OMT, SMP, LTRo) che sostanzialmente hanno ottenuto gli stessi risultati: far arrivare soldi agli stati indirettamente tramite le banche commerciali finanziate all’1%, e diminuire i rendimenti.
In più si trova al centro del progetto di Unione bancaria, sia lato supervisione che lato risoluzione.
Per dirla con le parole di Asmussen, “dopo la crisi, l’opinione prevalente suggerisce di assegnare nuovi poteri alle banche centrali, nella forma di un maggiore coinvolgimento nelle politiche macro-prudenziali e di vigilanza bancaria”.
Semplifichiamo anche qui: significa farsi dire dalle banche centrali, sia a livello macro (sistema finanziario nel suo complesso), sia a livello micro (singole aziende bancarie), cosa sia giusto e cosa sia sbagliato.
A chi poi obietta che ci possa essere qualche conflitto di interessi fra la tutela del sistema finanziario e quella della stabilità dei prezzi (che dovrebbe essere l’unica cosa di cui dovrebbe occuparsi la Bce), Asmussen replica che la Bce adotterà una governance adatta a prevenire conflitti fra le due funzioni (ricordate le muraglie cinesi delle banche d’affari?).
Quindi i trattati assegnano alla Bce il compito di occuparsi di stabilità dei prezzi, ma la realtà la obbliga ad occuparsi anche d’altro.
Sempre perché è troppo forte.
Talmente forte che ormai non ha più neanche il pudore di celarlo.
“E’ in corso una discussione per pubblicare le minute del consiglio dei governatori”, dice il nostro. “Il ruolo crescente della banca centrale nella gestione delle crisi richiede una sempre maggiore responsabilità (accountability) che richiede maggiore trasparenza. Il consiglio dei governatori sta ora valutando come arricchire la strategia di comunicazione della Bce”.
Guidare il mercato grazie alla comunicazione (la famosa ” forward guidance” che ha già conquistato i giornali) è l’atto finale della mutazione genetica della Bce. Il suo primo punto di contatto con la politica, che il potere della comunicazione l’ha scoperto da tempo.
Peccato la Bce non disponga di televisioni e giornali.
Finora.
Il Capitale conquista il mercato comune europeo
Se il denaro è una merce, come postula (senza mai dirlo) il mainstream economico del nostro tempo, allora sembra del tutto logico che sia trattato alla stregua di tutte le altri merci.
Se far girare il denaro è un servizio, come sottintende la forsennata liberalizzazione dei movimenti di capitali in auge da un trentennio nei nostri paesi, allora è del tutto logico che chi gestisce i servizi finanziari sia assimilato a tutti gli altri.
Perché stupirsi, allora, se nel dibattito, finora ristretto, sul futuro dell’Unione europea ormai si chieda a gran voce che si traggano le dovute conseguenze? Ossia che anche il Capitale entri nel sistema generale generale che regge il mercato comune europeo per le altre merci e servizi, che vede la Commissione europea, e non gli stati nazionali, nel ruolo di governante capace anche di comminare sanzioni.
Nessuno può far nulla se la Commissione europea sanziona uno stato che magari non rispetta la direttiva sulle quote latte. Perché dovrebbe sembrare strano se la Commissione, o chi per lei, conquista il potere di decidere di far fallire una banca?
Questo è il punto esatto in cui ci troviamo. L’Unione europea si trova di fronte a un bivio cruciale per il suo sviluppo: la definitiva integrazione, in prospettiva anche fiscale, o la definitiva disintegrazione.
La migliore cartina tornasole di cui disponiamo per monitorare tale processo è il dibattito sull’Unione bancaria, che abbiamo già visto porta con sé alcune significative implicazioni.
Adesso possiamo fare un passo in avanti. Possiamo leggere ad esempio le illuminanti parole di Yves Mersch, componente del board della Bce, che di recente ha parlato all’European Forum di Alpbach proprio sul tema “Il mercato unico e l’unione bancaria”. Un intervento che, aldilà di come la si pensi, ha il pregio di fare chiarezza su come la vedano i nostri banchieri centrali.
Può sembrare strano che ci sia un nesso fra mercato unico europeo, che conosciamo ormai da oltre 50 anni, e Unione bancaria. Quest’ultima è diventata d’attualità solo in conseguenza della crisi, mentre il Mercato comune europeo è ormai pacificamente acquisito. Ma i cultori della materia ricorderanno che di Unione bancaria, o meglio di supervisione bancaria, parlò per la prima volta Wim Duisenberg, già presidente della Bce e componente di quel Comitato Delors che fissò le regole del trattato di Maastricht, sollecitandone l’attuazione. Ma i suoi appelli caddero nel vuoto.
All’epoca, come oggi, gli stati nazionali erano poco restii a cedere sovranità su una materia tanto delicata.
Oggi però, a differenza di allora, i tempi sembrano più propizi.
Il terremoto provocato dalla crisi, che ha sconquassato le economie europee, ha reso gli stati nazionali più disposti ad ascoltare i consigli dei banchieri centrali, chiamati a “fare tutto quanto sarà necessario” per salvare l’euro e, di conseguenza la costruzione europea.
Lo dimostra il fatto che l’Unione Bancaria è entrata di prepotenza nelle cronache economiche, proprio su sollecitazione dei banchieri centrali, anche se il dibattito è ancora lontano dalle orecchie del grande pubblico.
Ma il grande pubblico scopre sempre troppo tardi la posta in gioco. Oggi le opinioni pubbliche europee sono impelagate nel dibattito euro sì/euro no, mentre l’Internazionale dei banchieri centrali è già andata oltre.
Si prepara a varare l’Euro 2.0.
Il mese di settembre sarà fondamentale per capire quanto tale lavorio sia concreto.
Quando si parla di settembre, la prima cosa che viene in mente sono le elezioni tedesche. Ma, sebbene importanti, non saranno queste (o almeno non subito) a determinare il futuro dell’Unione bancaria.
Sarà molto più importante, infatti, la riunione plenaria del Parlamento europeo che si terrà fra il 9 e l’11 di questo mese, che dovrebbe approvare il regolamento che istituisce la supervisione bancaria nell’Eurozona, quello che viene denominato con l’acronimo SSM, della quale si sa già dovrebbe occuparsi la Bce. Se il parlamento darà il suo via libera, ci vorrà almeno un semestre prima che la burocrazia faccia il suo corso, calcola Mersch, e almeno un altro anno perché la supervisione diventi davvero operativa.
Arriviamo dunque ai primi del 2015, quando dovremmo avere un Supervisore europeo pienamente attivo.
Ma il tempo non sarà trascorso invano. Ricorderete che prima dell’estate il Consiglio europeo ha trovato l’accordo sulla direttiva sul salvataggio delle banche e che la Commissione europea ha già elaborato una proposta di attuazione che ha fatto storcere il naso ad alcuni stati, Germania in testa, perché giudicata formalmente in contrasto con i trattati, ma sostanzialmente troppo sbilanciata verso le autorità sovranazionali.
Evidentemente gli stati non hanno problemi a delegare alla commissione le regole per la cottura della pizza o della pesca del salmone, al contrario di quanto accade per la gestione delle banche. Persino i politici devono aver capito che se perdono la possibilità di contare sulle banche che risiedono nei loro stati, il loro potere sarà ridotto all’equivalente di un amministratore di condominio.
L’accordo trovato nel consiglio europeo, che ha originato la Bank Recovery and Resolution Directive (BRRD) dovrà essere a sua volta ratificato dal Parlamento europeo, e l’auspicio del nostro banchiere centrale è che si arrivi al gennaio 2018 (“Troppo tardi”, dice Mersch) con il meccanismo del bail-in (ossia della responsabilità dei fallimenti bancari in prima battuta in capo agli azionisti e agli obbligazionisti) pienamente operativo.
Ciò renderà operativo un altro meccanismo, quello di risoluzione. Quindi dovrebbe essere creata un’entità, ancora non si sa bene composta da chi, che abbia il potere di far fallire in maniera ordinata una banca qualora le segnalazioni del Supervisore lo suggeriscano.
Sulla fisionomia del Risolutore si gioca un’altra importante partita che influenzerà il destino europeo. Sarà un’entità sovranazionale, come suggeriscono i banchieri centrali e vorrebbe la Commissione Ue, o sarà “annacquata” dagli stati nazionali come vorrebbero i tedeschi e i francesi?
Per capire perché sulla partita dell’Unione bancaria si decida il futuro dell’Europa basta leggere Mersch. Con l’Unione bancaria, spiega, si ottengono tre risultati:
1) si incoraggia l’integrazione trans-frontaliera delle banche europee, e quindi si crea un sistema bancario europeo che, spiega, faciliterebbe l’emissione di credito;
2) si aumenterebbe la fiducia nelle banche europee, supervisionate dalla Bce e “punite” dal Risolutore quando sbagliano. Questo migliorerebbe gli scambi di capitale all’interno dell’eurozona;
3) si spezzerebbe il collegamento fra stati e banche nazionali, vista la tendenza di queste ultime a riempirsi di bond del proprio stato di residenza, magari con i soldi della Bce. A tal punto che hanno finito col sostituire le vecchie banche centrali, che finanziavano lo stato, ma con la differenza che, diversamente dalle banche centrali, lucrano corposi rendimenti, specie nei PIIGS, favorendo indirettamente l’indisciplina fiscale. E poi magari se falliscono devono essere salvate dagli stessi stati che prima hanno spremuto.
Per la cronaca, questo link fra stati e banche è la bestia nera di tutti i banchieri centrali europei.
Ma il fine ultimo del progetto è ancora più ambizioso.
Grazie alla costruzione di un’appropriata Unione bancaria, ossia più sovranazionale possibile, si arriverà al risultato, davvero storico, di costruire un mercato unico del capitale. Ossia la naturale evoluzione e il completamento del mercato unico europeo nato negli anni ’50.
“Noi abbiamo un mercato unico dei beni e dei servizi, dove le regole sono stabilite dalla legislazione comunitaria che dispone di diversi strumenti, come la procedura di infrazione, per far rispettare le sue decisioni”, spiega Mersch.
Adesso serve un passo avanti: “Abbiamo bisogno di costruire un regime altrettanto efficace per il mercato unico del capitale. Abbiamo già alcune nuove norme in vigore, per esempio sui requisiti patrimoniali. Siamo sul punto di accettare di un nuovo meccanismo per la supervisione. Ma ora dobbiamo fare in modo di creare una forte autorità per la risoluzione che abbia gli strumenti adeguati per fare il suo lavoro, come il bail-in, già a partire dal 2015”.
In pratica una nuova Unione Europea che integri sotto l’egida protettiva e rassicurante di una burocrazia opaca e democraticamente irresponsabile tutto ciò che si può scambiare, denaro compreso. Il dispotismo nella sua forma euroasiatica e il trionfo dell’egemonia monetaria.
Tutta la nostra economia sarà finalmente liberata dalla politica e dalle sue storture e sarà totalmente finanziarizzata, con le merci in balia delle borse valori.
La migliore delle economie possibili, a quanto pare.
Tutto ciò nel nome di futuri benefici di cui potranno godere i cittadini, “che avranno un settore bancario più sicuro”, le banche, “che agiranno in un contesto più ordinato”, e i governi, “che non dovranno più preoccuparsi di salvare le banche con i soldi pubblici”.
Quindi sicurezza, ordine e parsimonia pubblica.
Questa è la proposta valoriale sottintesa nel progetto economico di Europa che abbiamo davanti.
Siamo tutti convinti?
Allora diamo ai banchieri centrali, o a chi per loro, le chiavi della macchina dell’economia, come facciamo in Italia da vent’anni, e penseranno loro a guidarla.
Ecco come la logica del denaro come merce conduce al dominio del Capitale sulle merci.
Trionfa il Berliner consensus sugli eurosalvataggi bancari
Ci siamo, dunque. Al termine di una faticosissima trattativa, i ministri economici dell’Ue a 27 hanno raggiunto un accordo sui meccanismi da attivare qualora ci si trovi di fronte alla necessità di salvataggi bancari.
Il risultato, come sempre, è un compromesso, ma segna comunque una rivoluzione. In cambio di una certa flessibilità riconosciuta agli stati nell’applicazione delle nuove regole – la Germania avrebbe voluto un sistema di regole automatico e sovranazionale – i tedeschi portano a casa un obbiettivo storico: il passaggio dalla logica del bail-out a quella del bail-in.
La differenza non è da poco. Mentre con i bail-out il costo dei salvataggi bancari dovevano pagarlo gli stati, che dal 2007 in poi hanno speso migliaia di miliardi per salvare le banche, con il bail-in questo costo lo pagheranno direttamente i “clienti” della banca, secondo un ordine di priorità che vede in prima linea gli azionisti, quindi gli obbligazionisti e infine i depositanti.
E’ il modello Cipro riveduto e corretto.
E poi dicono che le crisi siano inutili.
Non è ancora chiaro fino a quanto si spingerà la difesa dei depositi, visto che alcune direttive europee dovrebbero tutelare quelli sotto i 100 mila euro. Tuttavia l’accordo per essere operativo dovrà avere l’ok dal parlamento Ue entro il 2013, e diventare quindi effettivo l’anno prossimo. Quindi avremo tempo per capire.
Fin qui la cronaca.
Quello che però è interessante rilevare è un’altra cosa: ovvero il trionfo del Berliner consensus nella gestione delle cose bancarie. Proprio come accadde nel 1989, quando le fertili menti americane partorirono il famoso Washington consensus, che fissava precise direttive di politica economica per gestire le crisi dei paesi in via di sviluppo, la Germania ha proposto/imposto la sua personalissima visione sulle modalità di gestione dei salvataggi bancari.
Visione che poi è quella della Bundesbank.
Non si tratta di essere prevenuti, ma di aver letto il pregevole intervento di Sabine Lautenschläger, vice presidente della Bundesbank, all’Istituto degli affari internazionali ed europei di Dublino il 25 giugno scorso. Proprio il giorno prima dell’Ecofin.
Il titolo dell’intervento di Frau Lautenschläger è alquanto icastico: “From supervision to resolution – a German perspective”. Come dire: dalla semplice supervisione alla decisione diretta.
La nostra Frau non ha peli sulla lingua. Comincia con un’ampia ricognizione sullo stato dell’arte dell’unione bancaria, lanciata a giugno 2012, che ha trasferito la supervisione bancaria alla Bce, e alla quale si aggiunta, a dicembre, la creazione di due meccanismi, il SSM (Single Supervisory Mechanism) e il SRM (Single Resolution Mechanism), mentre si è iniziato a discutere di uno schema europeo di assicurazione dei depositi.
La filosofia di queste scelte è chiara, dice la nostra Frau: “Controllo e responsabilità devono camminare mano nella mano”.
Interessante anche il passaggio sull’assicurazione dei depositi che “al momento non è considerato un compito prioritario”. “Dopotutto – dice – uno schema di assicurazione dei depositi è la promessa di un governo ai depositari di indennizzarli fino a un certo punto, e questo significa mettere in comune la responsabilità con i contribuenti degli stati”. Quello che insomma si vuole fare uscire dalla porta, il salvataggio a spese dei contribuenti, entra dalla finestra (con assicurazione depositi).
Ma al di là di tali sottigliezze, quello che conta è che si arrivi a supervisione transfrontaliera delle banche, visto che “gli ultimi cinque anni hanno mostrato come le crisi non si fermino ai confini nazionali”. Il rafforzamento della supervisione dovrebbe consentire di fare politiche di prevenzione, individuando a monte le linee di business di rischio delle banche.
Senonché, pare che non sia sufficiente, secondo la Frau. Il meccanismo SSM presenta “grandi debolezze”. A cominciare da quello che prevede che “la decisione finale spetti al consiglio direttivo della Bce”. Ciò in quanto spesso le varie anime della banca centrale sono in disaccordo e questo “conflitto di obiettivi può minare l’indipendenza interna della Bce”.
Il meccanismo SRM, spiega Frau Buba, è stato invece pensato per dar sostanza al principio che una struttura sovraordinata di supervisione deve “condividere anche una disciplina comune di ristrutturazione e risoluzione”. Bene, al momento “la cornice di regole che stabilisca un’autorità speciale di risoluzione per l’eurozona con estesi poteri di intervento è insufficiente”.
Non basta, insomma, il superpoliziotto Bce, che supervisioni. Serve anche un mister X che prenda le decisioni conseguenti.
E chi sarà mai, questo mister X?
Intanto vediamo chi non può essere. “Trasferire questa funzioni alla Commissione Ue, anche se magari a un comitato ristretto di Stati e per un periodo transitorio non è una buona idea”. E allora chi?
“I politici – suggerisce la Frau – devono legiferare per arrivare a un’autorità indipendente”. Come d’altronde è indipendente la Bce. D’altronde, “il progetto di creazione di un’unione bancaria è simile alla creazione di una politica monetaria unica”.
E chi ha orecchi intenda.
Infine, c’è la questione della gerarchia delle responsabilità sui debiti bancari. “Dobbiamo definirla chiaramente e in anticipo”.
Eccola qua: “Gli azionisti devono essere i primi ad affrontare le perdite, e se questo non è sufficiente non dobbiamo esitare a coinvolgere il debito junior e senior. La grande questione è se coinvolgere o no i depositi. Alcuni stati membri vorrebbero farlo, o almeno coinvolgere quello sopra i 100 mila euro”.
Quelli dell’Ecofin devono aver fatto un rapido copia-e-incolla.
