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2014: la sindrome giapponese che minaccia l’eurozona
Da quando l’inflazione nella zona euro ha cominciato a scendere, i nostri banchieri centrali hanno iniziato a darsi un gran daffare per spiegare urbi et orbi che non c’è da preoccuparsi.
La prospettiva che si finisca in deflazione, dicono pressoché unanimi, è assolutamente infondata. E ancor di più lo è la paura che anche da noi si ripeta il copione già visto in Giappone negli anni ’90, quelli che nella storia economia sono stati definiti “il decennio perduto” dell’economia del Sol Levante.
Per chi non lo ricordasse, dopo la crisi di fine anni ’80 il Giappone entrò in una spirale deflazionaria durata vent’anni provocata da scelte politiche sbagliate e ritardi nell’azione di riforma del sistema finanziario. Una spirale che, forse, solo con la politica monetaria ultra espansiva varata nei mesi scorsi dalla BoJ troverà la strada per una normalizzazione.
Nel frattempo il governo giapponese ha dovuto caricarsi un debito che ormai supera il 240% del Pil per pagare il prezzo dei tanti stimoli varati nel corso del ventennio.
Capirete perché appena i nostri banchieri centrali sentono parlare di “decennio perduto” in Europa, mettano mano al loro arsenale teorico per ricordare che mai e poi mai la Bce permetterà che l’inflazione crolli sottozero.
“Molti strumenti rimangono a nostra disposizione per evitare che tale rischio si materializzi”, ha detto di recente Christian Noyer, governatore della Banca di Francia, al Wall Street Journal. Persino in un contesto, ricordato dallo stesso Noyer, in cui “moneta e credito stanno crescendo molto lentamente nell’eurozona”.
Senza dimenticare, sottolinea, che “una bassa inflazione è molto differente dalla deflazione” e che “nell’area euro l’inflazione è prevista rimanga intorno all’1,5% l’anno prossimo”, seppure “il tasso di inflazione vari all’interno delle singole economia dell’area”.
“In alcune economie periferiche – conclude – l’inflazione è particolarmente bassa e questo, da una parte, è una buona cosa perché contribuisce a migliorare la competitività”. Dall’altra, appesantisce il valore reale del debito. Ma questo il banchiere non lo dice.
Si limita a osservare che “più è bassa l’inflazione è più è alto il rischio che uno shock inaspettato spinga l’economia nella deflazione”.
Esattamente quello che è successo in Giappone.
Sarà per questo che Jorg Asmussen, componente del board della Bce, ha dedicato al tema il suo intervento del 21 novembre scorso al Council of Foreign relations di New York, intitolato pudicamente “Europe 2014, an outlook from the Ecb”.
Il banchiere spazza subito via l’equivoco dal tavolo. Abbiamo imparato la lezione giapponese, dice. “I cambiamenti adottati nell’euro area ci consentiranno di prendere una strada diversa da quella del Giappone, sebbene, aggiunge – occorra perseverare per essere sicuri di evitare che il rischio di un “decennio perduto” sia evitato”.
Siamo salvi, insomma.
Quasi.
Già, perché quello che ci differenzia dal Giappone è che l’eurozona ha messo subito mano alle riforme strutturali. Quindi il decennio peduto giapponese va letto, secondo il banchiere, come l’effetto del ritardo col quale i giapponesi misero mano ai loro problemi, a cominciare da quelli finanziari provocati dalla cosiddette “banche zombie”.
Le banche europee, a contrario, sono state oggetto delle amorevoli cure degli stati, che dal 2008 all’ottobre scorso, hanno iniettato nelle loro pance ben 275 miliardi di euro di fondi freschi. Dal canto loro le banche, nello stesso periodo, hanno raccolto altri 225 miliardi di capitale. “Il risultato – dice – è che il Tier 1 capital ratio delle banche dell’euro zona ora è intorno al 12%”.
E tuttavia non è che sulle banche europee splenda il sole.
“Possiamo vedere – dice – che gli investitori non sono ancora ancora convinti che il settore bancario sia sano”. A convincerli dovrebbe servire l’asset quality review annunciato dalla Bce e, soprattutto, il completamento del processo di Unione bancaria, sul quale la finanza europea ha fondato tutte le ragione del suo ottimismo.
Aldilà delle questioni finanziarie, Asmussen nota che, sempre a differenza del Giappone, l’eurozona ha compiuto riforme importanti sul lato dell’economia reale “in particolare nei paesi sotto stress”. A spagnoli, greci e portoghesi, farà di sicuro piacere sapere che “secondo gli indicatori Ocse”, i mercati del lavoro in questi paesi “sono più flessibili che quello francese, tedesco od olandese”.
“In Giappone, invece, le riforme strutturali non partirono prima del 2001”, osserva.
E anche sul lato monetario il rischio più temuto, quello deflazionario, viene bollato come inesistente nel medio termine.
Nessuno decennio perduto per l’eurozona, quindi, ma un decennio impegnativo sì.
L’aggiustamento, infatti, spiega Asmussen, ha avuto un costo che oggi, paradossalmente, si estrinseca nel surplus di conto corrente del 2% previsto nel 2013.
“Ci hanno accusato di avere adottato un approccio ‘beggar-thy-neighbour’, visto che l’eurozona sta importando domanda globale, ma trovo questo atteggiamento contraddittorio. Gli osservatori non possono chiederci di evitare gli errori giapponesi, da una parte, e dall’altra criticarci per le inevitabili conseguenza economiche che evitare tale rischio comporta”.
Traduco: per evitare la sindrome giapponese abbiamo dovuto farci un po’ di sani fatti nostri (come eurozona).
Anche perché “prima delle crisi la domanda europea, cresciuta con troppo debito a livello aggregato, aveva contribuito alla domanda globale”.
Nel futuro l’Europa farà a sua parte, dice, “ma in una maniera sostenibile”. E a tal fine sarebbe opportuno accelerare gli accordi regionali di commercio, e in particolare la Trade and investment partnership (TTIP) fra Usa ed Europa, “che potrebbe portare a una crescita di prodotto di circa 119 miliardi di euro l’anno a a creare 400mila posti di lavoro”.
Al proprio interno tuttavia, l’eurozona dovrà imparare a regolare bene i propri conti.
La questione tedesca, ossia il grosso surplus sulle partite correnti, cela secondo il nostro banchiere alcune circostanze.
“Il surplus tedesco verso l’euro area si è più che dimezzato dal 2007, dal 4% al 2%, e quello con i paesi sotto stress è virtualmente scomparso, cadendo dal 2% allo 0,5%. Questo è stato guidato in larga parte da una domanda domestica più elevata”. Ma probabilmente anche dal fatto che è crollata quella estera dei Piigs, visto che il 2% su surplus in meno nei loro confronti ha dimezzato il surplus complessivo.
Soprattutto, dice Asmussen, “la soluzione per riequilibrare è che i paesi sotto stress diventino più competitivi, non che la Germania lo diventi di meno, come dimostrano i risultati ottenuti, dal 2011, da Portogallo e Spagna”. Un vecchio refrain.
E tuttavia, la Germania dovrà fare la sua parte innanzitutto innalzando il suo tasso di investimento interno, che “è l’1% più basso del livello del 2007 e che quest’anno è il più basso dell’eurozona”.
L’aumento degli investimenti interni contribuirà a riassorbire il surplus, sottolinea.
L’eurozona non conoscerà il suo decennio perduto, giura Asmussen. “Il decennio di aggiustamenti di fronte al quale ci troviamo (quindi almeno fino al 2017, ndr) sta correggendo gli errori del precedente decennio. Ma io sono convinto che risolveremo i nostri problemi alla radice”.
Nessuna sindrome giapponese per l’eurozona, quindi.
Al limite quella tedesca.
Si prepara la mutazione politica della Bce
Il problema, con la Banca centrale europea, è che è troppo forte, come direbbe Verdone.
Sono talmente bravi a Francoforte che ormai tutti i dossier dell’eurozona finiscono sul loro tavolo. Col risultato che quello che doveva essere il mestiere più noioso del mondo, come ebbe a definirlo un banchiere centrale inglese, è diventato estremamente interessante e di moda.
Oggi i banchieri centrali sono le rockstar della finanza.
Senonché a tanti onori corrispondono altrettanti oneri. E i tempi difficili che ci aspettano saranno il vero banco di prova per la tenuta dell’intero sistema, che nelle banche centrali trova la sua pietra angolare.
Ciò spiega perché in questa sofferta epoca storica i banchieri centrali parlino così tanto. Potranno sempre dire: noi vi avevamo avvisato.
Tale interessantissima logorrea non poteva certamente risparmiare la Bce. Anche perché la banca centrale europea non è semplicemente la pietra angolare del sistema finanziario dell’eurozona.
Sta diventando qualcosa di molto più determinante: la levatrice dell’Unione europea. lo dimostra chiaramente il dibattito in coso sull’Unione bancaria, che vede la Bce attivissima contributrice.
In questa storica evoluzione, la Bce può contare sul solido supporto dei giuristi, ossia coloro che hanno inventato il diritto comunitario, che sono chiamati ogni volta a valutare la congruità delle scelte della Bce con il dettato dei trattati, e sulla sostanziale ignavia dei politici.
Ma soprattutto può contare sull’inesauribile e inesaurito contributo della crisi economica.
E’ stata la crisi a constringere le banche centrali a interventi non convenzionali. E sarà la crisi, in modalità exit strategy, a costringere la banche centrali a dover gestire il deflusso.
Il concetto lo spiega bene Jörg Asmussen, componente del board della Bce, che ha parlato di recente al meeting annuale di Bruegel a Bruxelles.
Per farsi capire, il nostro banchiere centrale parte da un aneddoto. Ossia la fine dei soldi facili decretata nel 1994 dagli americani, che coincise con un robusto rialzo dei tassi.
All’epoca, ricorda Asmussen, bastò che le notizie macronecomiche orientassero le aspettative verso un rialzo dei tassi affinché i mercati obbligazionari crollassero a picco. Prima ancora che la Fed alzasse i tassi, gli operatori economici iniziarono a temere un rialzo dell’inflazione, cui sarebbe seguito (come poi è accaduto) il rialzo dei tassi e di conseguenza dei rendimenti sui mercati obbligazionari. Con la conseguenza che il valore capitale dei bond esistenti crollò, mentre si originarono corposi deflussi di capitali dai paesi emergenti. Ne seguirono crisi in America Latina e in Asia.
“Il mercato dei bond non crollò solo in America – ricorda – ma in tutto il mondo. E se le esternalità furono importanti nel 1994, possiamo aspettarci che lo saranno ancor di più oggi, visto che il mondo è ancora più interconnesso”.
Per dare un’idea, basti considerare che si calcolano flussi di risorse verso i mercati emergenti per circa 1,1 trilioni dal 2008 ad oggi.
Questo per dare un’idea di che razza di bomba ha innescato la Fed con la sua politica monetaria.
E’ interessante il passo successivo.
“Dal mio punto di vista ci sono due importanti lezioni che emergono dall’episodio del 1994: primo serve chiarezza sulle ‘funzioni di reazione’ delle banche centrali, perché i rendimenti dipendono dalle aspettative dei mercati sulle reazioni delle BC. Secondo, serve che le aspettative di inflazione siano ben ancorate, visto che la paura dell’inflazione amplifica gli impatti degli sviluppi economici”.
Siccome il nostro banchiere ama andare sul tecnico, proviamo a semplificare il suo messaggio: la lezione del 1994 insegna sostanzialmente una cosa: servono buone banche centrali.
E qui torniamo all’incipit: bisogna essere troppo forti.
E la Bce è già avanti nel suo lungo cammino di mutazione genetica, vissuta sul filo dei trattati.
Non è mai diventata, né mai probabilmente diventerà, prestatrice di ultima istanza, perché i trattati lo vietano, però si è inventata dei programmi speciali (OMT, SMP, LTRo) che sostanzialmente hanno ottenuto gli stessi risultati: far arrivare soldi agli stati indirettamente tramite le banche commerciali finanziate all’1%, e diminuire i rendimenti.
In più si trova al centro del progetto di Unione bancaria, sia lato supervisione che lato risoluzione.
Per dirla con le parole di Asmussen, “dopo la crisi, l’opinione prevalente suggerisce di assegnare nuovi poteri alle banche centrali, nella forma di un maggiore coinvolgimento nelle politiche macro-prudenziali e di vigilanza bancaria”.
Semplifichiamo anche qui: significa farsi dire dalle banche centrali, sia a livello macro (sistema finanziario nel suo complesso), sia a livello micro (singole aziende bancarie), cosa sia giusto e cosa sia sbagliato.
A chi poi obietta che ci possa essere qualche conflitto di interessi fra la tutela del sistema finanziario e quella della stabilità dei prezzi (che dovrebbe essere l’unica cosa di cui dovrebbe occuparsi la Bce), Asmussen replica che la Bce adotterà una governance adatta a prevenire conflitti fra le due funzioni (ricordate le muraglie cinesi delle banche d’affari?).
Quindi i trattati assegnano alla Bce il compito di occuparsi di stabilità dei prezzi, ma la realtà la obbliga ad occuparsi anche d’altro.
Sempre perché è troppo forte.
Talmente forte che ormai non ha più neanche il pudore di celarlo.
“E’ in corso una discussione per pubblicare le minute del consiglio dei governatori”, dice il nostro. “Il ruolo crescente della banca centrale nella gestione delle crisi richiede una sempre maggiore responsabilità (accountability) che richiede maggiore trasparenza. Il consiglio dei governatori sta ora valutando come arricchire la strategia di comunicazione della Bce”.
Guidare il mercato grazie alla comunicazione (la famosa ” forward guidance” che ha già conquistato i giornali) è l’atto finale della mutazione genetica della Bce. Il suo primo punto di contatto con la politica, che il potere della comunicazione l’ha scoperto da tempo.
Peccato la Bce non disponga di televisioni e giornali.
Finora.