L’altra rivoluzione silenziosa: quella dei container
Abbiamo osservato, pure se fugacemente, come molta parte della nostra globalizzazione sia debitrice del lavoro silenzioso e profondo che è stato svolto negli ultimi decenni per uniformare gli standard statistici a livello internazionale. Questi ultimi hanno consentito una crescente integrazione economica, rendendo possibile il confronto delle quantità, che sarebbe impensabile se non ci fosse un’intesa di massima sul significato dei dati, e quindi sulle loro definizioni.
Adesso proviamo a sbirciare, prendendo a prestito da un ottimo lavoro svolto qualche anno fa da una economista della Fed, su un’altra rivoluzione che ha contribuito molto più concretamente alla straordinaria crescita degli scambi commerciali, che sono l’essenza stessa della globalizzazione: la diffusione dei container. C’è molto da imparare a bene vedere.
La prima cosa da comprendere è la sostanziale trasformazione che l’uso diffuso dei container ha comportato per la rete logistica internazionale. Basta osservare due mappe, che raccontano il prima e il dopo, e si comprenderà perché nel progetto cinese della Belt And Road iniziative rivesta così tanta importanza l‘investimento portuale.
La fioritura di pallini rossi, che nella legenda proposta dal paper rappresentano i porti che ospitano container racconta tutto quello che c’è da sapere. A patto però di intendersi sul significato di containerizzazione, così come definito nello studio. In particolare il termine porta con sé la diffusione di un complesso intermodale che include i mezzi di trasporto – camion, treni, navi da trasporto di container, macchinari speciali, come le gru di sollevamento e i magazzini dove vengono depositate ogni giorno milioni di tonnellate di merci che viaggiano lungo il pianeta seguendo in larghissima parte le rotte marittime.
Da un punto di vista squisitamente storico questa rivoluzione è iniziata nella seconda metà degli anni ’50, ma già un ventennio dopo si era diffusa in 68 paesi. Nel 1983 quasi il 90% dei paesi del mondo aveva adottato questa tecnologia.
Un progresso rapidissimo se lo si confronta con quello necessario per la diffusione, ad un livello paragonabile, delle ferrovie (79 anni), delle automobili (44 anni) o degli aerei e dei camion (42 e 35 anni).
Tale velocità di diffusione si è raggiunta malgrado la tecnologia dei container sia notevolmente costosa, come si può dedurre anche solo ricordando in linea di massima, come abbiamo fatto, come si compone.
Un risultato ancor più stupefacente se si considera come la diffusione di questa nuova tecnologia sia stata così capillare e veloce malgrado i notevoli aumenti del costo dei trasporti, specie i coincidenza con gli shock petroliferi. Si parla di un tasso di crescita degli scambi tramite container fra l’8 e il 9,65 l’anno espresso un TEU, che di fatto è stato il controcanto del notevole processo di globalizzazione delle merci iniziato col secondo dopoguerra.
Non a caso, uno degli “attivatori” di questa rivoluzione fu l’adozione di uno standard per questa tecnologia, che avvenne nel 1967 dopo lunghi anni di discussioni e analisi. Come abbiamo visto di recente per altri segmenti della globalizzazione, servono sempre regole condivise per sostenere un processo di internazionalizzazione.
La definizione di uno standard consentì di far diventare intermodale e diffusa una tecnologia che fino ad allora veniva usata in larga parte dagli Stati Uniti e dall’Australia per i loro trasporti interni.
Già dal 1966, quindi ancor prima che lo standard si affermasse, la tecnologia dei container iniziò ad essere utilizzata negli scambi fra Usa ed Europa. E da quel momento in poi divesse di uso sempre più comune. I partner commerciali degli Stati Uniti, ossia i primi utilizzatori di questa tecnologia, sono stati i primi ad adottarla e a trarne beneficio. Non è certo un caso che parliamo di globalizzazione Made in Usa.