Come gli accordi commerciali hanno fatto crescere gli Usa

Un lungo approfondimento pubblicato dal PIIE ci ricorda un’elementare verità che spesso viene dimenticata nei variopinti dibattiti che animano il nostro discorso pubblico: il commercio è una fonte di sviluppo delle società, non un elemento dello sfruttamento capitalista. Vale la pena ricordarlo, in un’epoca in cui si tende a mettere sotto accusa la globalizzazione, per la semplice ragione che il mondo non è il migliore di quelli possibili, senza comprendere che senza commercio internazionale sarebbe probabilmente peggio. E peraltro ignorando che nella storia il commercio internazionale c’è sempre stato.

Stando così le cose, gli accordi commerciali, che per loro natura incardinano il processo economico in un quadro istituzionale, così stabilizzando le aspettative e quindi gli investimenti di lungo termine, sono lo strumento ideale per trasformare la naturale tendenza degli uomini a commerciare in un’attitudine governata. Ossia ciò che serve per mutarla nel carburante ideale di una crescita di lungo periodo.

Ciò che è accaduto negli Usa lo conferma. Gli accordi internazionali esaminati dall’Autorità americana per la promozione del commercio (Trade Promotion Authority, TPA) hanno giovato allo sviluppo dell’economia statunitense, e in particolare al settore dei servizi. L’analisi è stata svolta dall’United States International Trade Commission (USITC), un ente indipendente, che ha pubblicato un ampio rapporto dove si analizzano gli effetti di 12 accordi di libero scambio bilaterali e due accordi di libero scambio regionali, ossia il NAFTA, che regolamenta il commercio nel Nord America, e il CAFTA, accordo con l’area della Repubblica Domenicana e l’America Centrale.

Da un punto di vista quantitativo, questi accordi hanno permesso all’economia Usa di essere mezzo punto percentuale più grande di quanto sarebbe stata senza, che può sembrare poca cosa, se non fosse che questa crescita ha creato mezzo milioni di posti di lavoro e indirettamente favorito ulteriori scambi bidirezionale degli Usa con il resto del mondo. Tradotto in soldoni, significa che in media ogni famiglia statunitense ha potuto contare su un reddito superiore di 800 dollari annui (anno 2017), che sembra poco se non si considera che “anche prima della pandemia il 40% delle famiglie americane non poteva disporre di 400 dollari per coprire una spesa di emergenza”.

Aldilà delle quantità, è utile sottolineare che i canali attraverso i quali operano gli accordi commerciali sono la riduzione degli “attriti” degli scambi, per lo più tramite la riduzione delle tariffe. Di conseguenza sono diminuiti in media del 10% per i servizi finanziari, del 12% quelli aziendali, del 18% quelli di comunicazione. E così arriviamo alla sintesi dei risultati: “La maggiore integrazione dei mercati ha portato a un aumento della produzione del settore dei servizi negli Stati Uniti di quasi $ 100 miliardi e ha creato oltre 440.000 posti di lavoro: oltre il 90% del guadagno netto di occupazione rilevato nello studio. L’aumento della produzione di servizi è pari al 40 per cento della dimensione del surplus commerciale complessivo degli Stati Uniti nei servizi con il mondo nel suo insieme”. Dulcis in fundo, “il commercio può essere utilizzato per rafforzare le alleanze geopolitiche”. E scusate se è poco.

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