Il declino secolare delle ore lavorate
Quando Keynes scriveva un secolo fa che qualunque governo di buon senso dovrebbe preoccuparsi della quantità di tempo libero che il progresso avrebbe regalato alle popolazioni probabilmente si sarebbe stupito nell’osservare la consistenza di questa quantità.
Secondo i calcoli svolti dalla Bce infatti, contenuti nel suo ultimo bollettino, fra il 1870 e il 1973 le ore annue lavorate per occupato sono diminuite di oltre mille unità in Francia, Germania, Italia e nei Paesi Bassi. E tale andamento si è osservato anche in economie molto diverse da quelle europee, come in Australia, Canada, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti. Si tratta quindi di un trend di lungo periodo: secolare come si usa dire oggi. E tuttavia si è osservato che questa tendenza si è affievolita a partire dagli anni ’70, mostrando alcune disomogeneità fra i vari paesi.
Per i non addetti ai lavori, è bene ricordare che le ore lavorate per occupato sono una misura dell’intensità dell’occupazione la cui manovra, da parte delle aziende, viene sovente utilizzata in tempi di crisi per gestire i costi del lavoro senza incidere sui livelli occupazionali. Detto semplicemente, se un’azienda ha aspettative negative sulla propria redditività, anziché licenziare taglia le ore lavorate. Per questa ragione gli economisti osservano questo dato per avere indicazioni sia sulle possibili dinamiche salariali – difficile che ci siano spinte rialziste di fronte a un calo delle ore lavorate – e quindi dell’inflazione dei prezzi, che secondo i modelli più largamente utilizzati sono collegati in qualche modo all’andamento delle retribuzioni.
Il grande calo delle ore lavorate negli ultimi 150 anni è dovuto principalmente al progresso tecnologico, che ha spostato l’attività dalla manifattura ai servizi, mentre generava aumenti di produttività che hanno consentito non solo un incremento delle retribuzioni, ma anche il calo del costo delle attività ricreative, “modificando l’allocazione ottimale del tempo fra lavoro e tempo libero”, come spiega la Bce. L’analisi della Bce non tiene conto, evidentemente, dell’effetto che hanno avuto sulle ore lavorate le vicende più squisitamente istituzionali. La seconda metà del secolo XIX, come sanno bene gli storici, sono gli anni dei grandi scioperi e della nascita del socialismo.
L’analisi, in compenso, stringendo il fuoco dell’osservazione sugli ultimi 25 anni, ci consente di ricavare alcune informazioni interessanti su come questa variabile si sia evoluta nell’eurozona e cosa ciò abbia significato per il mercato del lavoro.
La prima cosa da sapere è che tra il 1995 e il 2019 le ore annue lavorate per occupato nell’eurozona sono diminuite di oltre cento unità. In particolare, da 38,6 ore a settimana a 36,4. La pandemia ha aggravato notevolmente questa tendenza, anche se si presume in via temporanea.

Il punto interessante, però, è che questo calo delle ore lavorate “è principalmente associato all’andamento della partecipazione alle forze di lavoro e dell’occupazione a tempo parziale”. In sostanza, “il principale fattore alla base del calo delle ore lavorate per occupato nell’area dell’euro negli ultimi 25 anni è l’incremento della quota del lavoro a tempo parziale”. La variabile, insomma, disegna una evoluzione del mercato del lavoro, più che rappresentare il risultato di miglioramenti tecnologici.
Rimane da capire se questa diminuzione delle ore lavorate sia voluta dai lavoratori – qualcuno potrebbe scegliere di lavorare di meno – o “imposta” dai datori di lavoro. Se, vale a dire, ad essere carente sia l’offerta di lavoro piuttosto che la domanda. Si è osservato ad esempio che “l’aumento della partecipazione alle forze di lavoro e della quota del lavoro a tempo parziale sono stati principalmente determinati da un più elevato tasso di partecipazione femminile alle forze di lavoro, dal momento che le donne sono coloro che più probabilmente assumono impieghi a tempo parziale”.
Al tempo stesso nell’arco di tempo osservato sono intervenuti fenomeni straordinari come la Grande Crisi finanziaria, durante la quale “il mantenimento dei livelli occupazionali attraverso la riduzione delle ore lavorate ha limitato l’aumento della disoccupazione nell’area dell’euro”. Le imprese, insomma, hanno “tesaurizzato” il lavoro.

Questi effetti, combinandosi a quelli strutturali, hanno disegnato la fisionomia di un mercato del lavoro con una percentuale più elevata di occupati nel settore dei servizi, una maggiore partecipazione femminile, un aumento della quota del lavoro a tempo parziale e un certo invecchiamento della popolazione.
Si sono verificati anche fenomeni con effetti opposti: da una parte l’aumentata partecipazione al lavoro, che incrementa le ore lavorate totali e le ore pro capite; dall’altra la circostanza che i nuovi assunti lavorano meno ore, contribuendo così a ridurre le ore pro capite. La sintesi degli economisti della Bce è che “la principale determinante del calo registrato nelle ore lavorate è la maggiore partecipazione al mercato del lavoro da parte delle donne, che si riflette anche in un aumento del rapporto fra occupazione e popolazione”.

Se guardiamo al dato settoriale, osserviamo che tutti i settori hanno sofferto un calo delle ore lavorate, la parte più rilevante è stato il commercio all’ingrosso e al dettaglio.

Se invece guardiamo alle differenze fra i vari paesi dell’eurozona, osserviamo che tutti i paesi dell’area hanno registrato un calo di lungo periodo.

Interessante osservare che “diminuzioni più consistenti dell’orario medio tendono a essere
associate a maggiori incrementi del rapporto tra occupazione e popolazione”. Ciò significa che è aumentata la partecipazione al lavoro, ma per meno ore. Infine, ” gran parte del calo osservato nella media delle ore lavorate nell’area dell’euro negli ultimi 25 anni (circa il 78 per cento) è ascrivibile a Francia, Germania e Italia”.
Insomma: in Europa si lavora meno ore, ma in più persone. Si potrebbe pensare che si sta realizzando uno degli slogan più gettonati del nostro passato. Se non fosse che il “lavorare meno, lavorare tutti”, in molti casi è subìto, più che richiesto. Il 10% dei lavoratori, secondo l’indagine sulla forza di lavoro nell’Ue citata dalla Bce, dice che vorrebbe lavorare di più, solo che la loro offerta non incontra una domanda. Tra i lavoratori a tempo parziale, poi, questa tipologia arriva al 20%.
Keynes aveva ragione quando diceva che qualunque governo avrebbe dovuto preoccuparsi di una popolazione con una quantità crescente di tempo libero. Specialmente se magari queste persone preferirebbero lavorare.