Il blog va in vacanza. Ci rivediamo a settembre con la nuova stagione: Reglobalisation

Il Reboot, al quale è stato dedicata la stagione del nostro blog che si conclude oggi, c’è stato e prometteva anche benino fino a quando la guerra ucraina ha reso chiaro ciò che non si poteva dire: ossia che galleggiavamo sopra a un mare instabile di liquidità incendiaria che ha finito col prendere fuoco. L’incendio, appiccato dal rincaro dell’energia, si esteso a tutta la filiera dei prezzi riportandoci a un tempo nel quale molti di noi erano bambini o neanche erano nati: l’età dell’inflazione.

Il Reboot, insomma, c’è stato, ma ha finito col consegnarci uno scenario che minaccia di trasformare la ripartenza in un palude fatta di bassa crescita, o addirittura decrescita – è di questi giorni la notizia della prima recessione tecnica degli Usa – e inflazione.

Sulle ragioni di quest’esito sono stati versati i classici fiumi d’inchiostro e altri se ne verseranno, specie adesso che andiamo incontro a una campagna elettorale che, come ormai di consueto, si connota come l’ennesima lotta del bene contro il male. E ognuno scelga quale sia l’uno e l’altro. Un contesto che è inflazionario per definizione, se per inflazione si intende non solo il fenomeno monetario, ma un certo atteggiamento nei confronti del futuro.

La guerra ucraina, alla quale si aggiungono le recenti tensioni fra Cina e Usa osservate su Taiwan, ha fatto tornare attuale anche certi ragionamenti sul futuro della globalizzazione, che oscillano fra i vaneggiamenti – tipici di quelli che pensano che la globalizzazione si possa fermare – o le scorciatoie vagamente furbette di chi promette una globalizzazione solo fra “amici”, ossia paesi in qualche modo conformi dal punto di vista valoriale. Che sarebbe possibile se la geografia economica non cospirasse contro certe pretese.

Il paese autoritario che ieri era un fornitore di energia affidabile proprio di recente si è dimostrato tutt’altro, e non si capisce perché dovrebbe essere diverso per altri. Il fatto, puro e semplice, è che è difficile fare affari con chi non dà importanza alla vita delle persone per chi invece mette il rispetto della vita dei cittadini al centro della propria azione politica. E’ difficile se hai un’opinione pubblica alla quale dover dare conto. Ma in fondo finora gli affari con i “cattivi” li abbiamo fatti comunque e anche domani continueremo a farli. Il progetto di una globalizzazione fra amici odora vagamente di ipocrisia.

Ciò non vuol dire che non ci saranno sommovimenti. La nuova stagione del blog, perciò, si incaricherà di osservare questi tentativi di ridefinire gli equilibri della globalizzazione, con la consapevolezza che qualcosa si è rotto definitivamente, col conflitto ucraino, e che questa polarizzazione dovrà necessariamente condurre a una forma rinnovata di ordine internazionale.

La Russia, con la sua guerra incomprensibile, si è definitivamente messa fuori dall’Europa, che vuol dire fuori dal mondo Occidentale, seguendo la sua chiara vocazione asiatica, peraltro avendo una lunga consuetudine in tal senso alle spalle. Oggi Mosca si siede ai tavoli con l’Iran e la Turchia, che fa quello che le riesce meglio: tenere il piede in due staffe sfruttando il suo essere una delle porte d’ingresso dell’Europa in Asia e un membro della Nato.

E questo ci riporta al problema europeo, del quale si osserva il livello crescente di complessità al quale contribuiscono in maniera determinante alcune scelte miopi del passato. L’Europa, assecondando il suo desiderio di espansione, ha puntato sul concetto novecentesco di prossimità geografica anziché su quello contemporaneo della prossimità culturale, e così incorporando paesi – l’Ungheria è solo uno degli esempi – che subiscono la seduzione asiatica verso la tirannide assai più di quella occidentale verso la società aperta.

E’ stato, col senno di poi, un errore di prospettiva che sconta l’età avanzata delle nostre élite, che guardano al planisfero fisico invece che allo spazio dell’immaginazione. Oggi, piuttosto che inseguire vaghe prospettive di autonomia strategica l’Europa dovrebbe chiedersi come costruire un’alleanza più profonda con chi condivide i propri valori, pure se si trova dall’altra parte degli oceani. Questo è molto più “europeo” che continuare a “ingurgitare” territori che di europeo, quanto a spirito e vocazioni, hanno ben poco e che manifestano le proprie pulsioni profonde ogni volta che si sviluppa una crisi, rendendo la risposta europea inevitabilmente debole.

Perciò: reglobalisation. Ossia l’osservazione di nuovi percorsi, speriamo migliori e più fantasiosi di quelli che abbiamo osservato finora, pure se le prospettive non incoraggiano all’ottimismo. Anzi, proprio per questo.

Buone vacanze a chi le fa.

Ci rivediamo a settembre.

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  1. Eros Barone

    Il dott. Sgroi pone due problemi fondamentali: quello della costruzione di un nuovo ordine globale e quello del ruolo dell’Europa. Sennonché è lecito domandarsi se l’Unione Europea, dopo aver clamorosamente mancato tutte le possibilità di una composizione diplomatica del conflitto, armandosi in tale misura e armando la stessa resistenza ucraina, come ha fatto e come sta facendo, non finirà col fare le spese della nuova spartizione dell’ordine globale che si sta giocando nella guerra fra l’imperialismo russo e il nazionalismo ucraino. Occorre riconoscere infatti che alla potenza militare ed economica di cui dispongono i paesi della Nato non corrisponde alcun progetto, giacché tale non è la narrazione del “conflitto di civiltà” tra Oriente ed Occidente. Anzi, questo è propriamente il tallone di Achille dell’Occidente (cfr. il ruolo bifronte della Turchia, giustamente sottolineato da Sgroi). Si intende qui per progetto un disegno di ordine globale che sia allo stesso tempo riconoscibile e condivisibile da parte dell’umanità. La pura esibizione di potenza e la declamata volontà di imporre il proprio dominio restano semplicemente tali. Ottengono nel breve periodo obbedienza formale, accettazione forzosa, non adesione convinta. In realtà, in Russia, piaccia o non piaccia all’Occidente, è sorto un gruppo dirigente fortemente qualificato, per il quale la ‘revanche’ è diventata, nelle mutate condizioni di un capitalismo di Stato, un obiettivo da perseguire. Ma proprio questa considerazione mostra come la volontà di potenza statunitense bruci i gruppi dirigenti “alleati” anziché consolidarli (cfr. Johnson e Draghi). In quanto politica imperialista non ce ne può essere una così poco lungimirante. E’ chiaro che senza un progetto la tenuta dell’imperialismo occidentale è altamente problematica. Che debba farlo notare, con Kissinger e poche altre menti illuminate, la diplomazia “classica” di tradizione liberale, quella attenta agli equilibri e alle conseguenze controproducenti delle proprie stesse vittorie, è un paradosso della politica “progressista”. Sono le antinomie di cui si nutre il pensiero borghese. Vedremo se la ‘reglobalization’ propugnata da Sgroi e fondata sull’alato soggettivismo delle affinità valoriali (una sorta di neo-wilsonismo) sarà in grado di sconfiggere la dura e possente oggettività della geopolitica fondata sulle prossimità spaziali e sulle affinità economiche.

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    • Maurizio Sgroi

      Salve
      Vedremo infatti. E sarà interessante osservare con le dita incrociate. Perché il neo-wilsonismo non degeneri in nuove catastrofi. (Forse se stavolta il Wilson lo facciamo europeo non succede)
      Grazie per il commento e buone vacanze (se le fa).

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