I banchieri centrali del petrolio e la complessità
Il caro energia è solo una delle facce del prisma assai più complesso che rappresenta l’economia internazionale. I componenti dell’OPEC+, il tradizionale cartello di Paesi produttori di petrolio al quale da qualche anno si è aggiunta anche la Russia (è lei il “più”), ne avevano sicuramente piena consapevolezza il 5 dicembre scorso, quando a Vienna si sono trovati a decidere cosa fare della produzione di greggio, dopo il taglio di due milioni di barili annunciato ad ottobre che aveva irritato l’amministrazione statunitense, già alle prese con una restrizione monetaria. D’altronde, oggi più che mai il prezzo del greggio viene percepito come un potente fattore di instabilità monetaria.
L’inflazione, in effetti, ha molto a che vedere sia con il livello dei tassi di interesse che con i corsi dei beni energetici. La riduzione del petrolio in circolazione accompagnata alla riduzione del denaro in circolazione è capace di amplificare pro-ciclicamente la distruzione calcolata di domanda tramite la quale si vuole frenare l’accelerazione dei prezzi. Rischia però di non frenarla affatto. Anzi: rischia di esasperarla, qualora la domanda di carburanti si irrobustisca a fronte di una offerta minore del solito. L’esito è noto: stagflazione. Un fantasma o poco più, per adesso. Ma temibile. E il timore di solito consiglia prudenza.
Sarà anche per questo che i produttori hanno deciso di tenere tutto fermo, almeno fino al meeting di OPEC+ del prossimo giugno, con la promessa però di rivedersi in qualunque momento qualora fosse necessario aggiornare lo scenario. Un segnale di relativa stabilità, in un mercato che diventa sempre più instabile, come hanno mostrato le quotazioni del greggio l’indomani del vertice.
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