Cartolina. Le tasse degli immigrati

Un’altra di quelle cose che non si dice, un po’ perché non si può dire, un po’ perché s’ignora, è che in tutti i paesi Ocse il rapporto fra le tasse pagate dagli immigrati e i servizi che ne traggono è più alto di quello dei residenti indigeni. L’immigrato, insomma, dà al fisco più di quello che prende. Nel nostro paese questo rapporto, riferito al periodo 2006-18, vale addirittura 2,5, il livello più elevato del club. I motivi sono diversi, ma in gran parte ciò dipende dalla giovane età degli immigrati, che quindi non sono titolari di pensioni, ma semmai pagano i contributi ai nostri anziani, e utilizzano mediamente meno alcuni servizi, tipicamente quelli sanitari legati all’invecchiamento. Certo, un bel giorno anche questi immigrati invecchieranno e cominceranno a chiedere anche loro più sanità e pensioni. C’è da sperare che nel frattempo avremo capito che prima degli italiani vengono i diritti di chi vive e paga le tasse in Italia. E che perciò è saggio incoraggiare chi vuole venire da noi con buoni propositi. Fosse pure marziano. L’alternativa è avere, domani, sempre meno concittadini e ancor meno servizi pubblici. Questo non si dice un po’ perché non si può dire, un po’ perché s’ignora. Ma questo non impedisce che sia vero.
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Come è noto, la maggior parte di quelli che sono considerati “migranti economici” di fatto non lasciano mai l’Europa. Inoltre, nel suo discorso sul rapporto tra le tasse che pagano gli immigrati e i servizi che ne traggono Lei ignora la funzione calmieratrice dei salari operai svolta da questo settore della forza-lavoro come esercito industriale di riserva, e questo è un fattore essenziale e decisivo (non a caso la Confindustria invoca da un governo sovranista un aumento dei flussi di immigrati per coprire i vuoti del mercato del lavoro (e per calmierare i salari operai!). Infine, una volta che consistenti comunità di immigrati si sono stabilite in un certo paese, il diritto alla ricongiunzione familiare alimenta un flusso ininterrotto. La conclusione più probabile, allora, è che l’Europa rimanga una destinazione allettante e, nonostante gli sbarramenti che i sovranisti cercano di interporre, largamente accessibile per le popolazioni povere di tutto il mondo, che aspirano a una vita migliore. Dal canto loro, gli europei sono oggi profondamente confusi e divisi su come rispondere a queste nuove sfide: talvolta, l’apertura indiscriminata del cosmopolitismo e la chiusura altrettanto cieca del nazionalismo si alternano, senza trovare un punto di contatto, negli atteggiamenti e nei comportamenti delle stesse persone. Nell’età del primo imperialismo, non era difficile giustificare gli insediamenti in terre straniere con la convinzione che il “fardello dell’uomo bianco”, cioè la sua missione, fosse quella di esportare i benefici della civiltà nelle aree più arretrate del mondo. L’Europa dell’“imperialismo benigno” di oggi è molto più prudente, dopo gli eventi epocali della seconda guerra mondiale, nel sostenere la superiorità della propria cultura e ha sostituito la fede biblica nella sua missione civilizzatrice con la narrazione sui valori universali, sui diritti individuali e sui trattati internazionali. E però, in attesa che un nuovo internazionalismo proletario si faccia valere riproponendo, in forme adeguate all’attuale congiuntura politico-sociale, la grande parola d’ordine del “Manifesto”: ‘Proletari di tutti i paesi, unitevi!’, la domanda cruciale che va formulata è la seguente: che cosa ci si deve attendere dal conflitto fra cosmopolitismo globalizzatore e nazionalismo nativista, conflitto tutto interno alle classi dominanti borghesi anche quando coinvolge vaste masse della popolazione?
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