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Contrordine: il petrolio low cost danneggia l’economia
Nel confuso succedersi di ragionamenti che provano a dar senso a ciò che non ce l’ha, non mi stupisco più di tanto nello scoprire che ciò che fino a pochi mesi fa era stato giudicato una panacea per l’economia internazionale – il calo del petrolio – oggi viene osservato come una preoccupante fonte di problemi. Col senno di poi potevano anche immaginarlo: in un’economia che bordeggia la depressione completando spaventata l’abisso del cosiddetto New Normal, ogni spinta deflazionista aggiunge attrazione gravitazionale verso il basso. E il petrolio non poteva certo fare eccezione. Siano i corsi di borsa, o i rendimenti obbligazionari, le materie prime o quel che volete voi, ogni qual volta una classe di asset si deprime rischia di contagiarsi agli altri.
Nel caso in ispecie, l’alert lo ha lanciato di recente la Bce, nel suo ultimo bollettino economico, dove ha dedicato un box all’analisi delle implicazioni globali sostanzialmente negative del basso costo del petrolio, che fa da controcanto ai tanti che le banche centrali hanno rilasciato da inizio del 2015 per dire che il petrolio low cost era una manna dal cielo, salvo magari per gli effetti sull’inflazione, ma a quella ci avrebbero pensato loro con il QE.
Un po’ di storia recente aiuta a inquadrare il problema. Dalla metà del 2014 i prezzi del petrolio hanno iniziato a collassare raggiungendo, ai primi del 2016, il livello più basso degli ultimi dieci anni. Dal giugno del 2016 al gennaio del 2016 il prezzo del Brent, che è uno dei benchmark dei prezzi petroliferi, è diminuito di 82 dollari al barile, circa il 70%. Da allora il barile ha recuperato circa 17 dollari e i future vedono solo timidi rialzi all’orizzonte.
Il punto saliente dell’analisi della Bce è che nel frattempo sono cambiati i driver che hanno determinato questo calo. Mentre nella prima parte del periodo il calo fu guidato dall’abbondanza dell’offerta, almeno secondo la ricostruzione della Bce, mentre nella seconda fase a guidare il calo è stato l’indebolimento della domanda. combinandosi i due movimenti hanno avuto effetti sia a livello microeconomico che a livello macro.
L’abbondanza di offerta, infatti, è stata provocata dalla massiccia attività di investimenti in alcuni settori innovativi come lo shale oil, che fra le altre cose ha determinato un pesante aumento dell’indebitamento delle imprese di settore (anche se questo la Bce non lo dice). Ma ciò che conta è che il presunto effetto benefico, determinato dal trasferimento di ricchezza dal paesi produttori a quelli importatori – che nella convinzione comune avrebbero dovuto aumentare la domanda aggregata in virtù della loro maggiore propensione alla spesa – adesso si è invertito. “Dalla seconda metà del 2015 il driver del calo del petrolio è la domanda debole – spiega – e questo suggerisce un impatto meno positivo sull’economia globale”. E il fatto che la spesa degli importatori possa essere favorita da questo calo non è detto che compensi “l’effetto globale di una domanda più debole”.
Per supportare questo ragionamento è stato costruita una simulazione, secondo la quale un 10% di calo dei corsi petroliferi guidato da un eccesso di offerta aumenterebbe il Pil mondiale fra lo 0,1 e lo 0,2%, mentre lo stesso declino, guidato però da un calo di domanda, diminuirebbe il Pil di più dello 0,2%. “Se ipotizziamo che il 60% del calo iniziato nel 2014 sia stato guidato dall’offerta e il resto dalla domanda, il modello suggerisce che l’impatto combinato di questi due shock sarebbe vicino a zero per il pil mondiale o leggermente negativo”. Il che sarebbe comico, se non fosse tragico. O il contrario, se preferite.
Peraltro l’esperienza di questi anni, aggiunge ancora, “potrebbe aver danneggiato le aspettative che ipotizzavano un impatto positivo del basso costo del petrolio sull’economia”. Forse perché “l’impatto avverso del calo del petrolio sui paesi esportatori appare esser stato piuttosto grave, ed è stato accompagnato da ricadute negative su altre economie di mercato emergenti” e al tempo stesso “la ripresa della domanda in diversi paesi importatori di petrolio causata dai prezzi del petrolio più bassi è stato finora piuttosto limitata”. Ciò perché non è accaduto, come era stato ipotizzato, che il maggior reddito si trasformasse in consumo. Il modello, evidentemente, non prevedeva che quella maggiore disponibilità fosse risparmiata o venisse utilizzata per pagare i debiti. “Per esempio – osserva ancora – un aumento dei risparmi personale in alcuni paesi potrebbe essere collegata al bisogno di deleveraging che può aver spinto le famiglie a risparmiare di più”.
Al tempo stesso alcuni governi dei paesi esportatori, che hanno risparmiato risorse diminuendo i sussidi, hanno utilizzato questi risparmi non per stimolare la domanda, ma per consolidare la situazione fiscale. E gli esempio potrebbero continuare.
Vale la pena intrattenersi solo sull’ultimo, che riguarda gli Usa, che per stazza economica e geopolitica si può dire faccia la differenza. Ebbene, negli Usa “uno dei più grandi importatori di petrolio”, i benefici per il consumo derivanti da un costo del petrolio “sono stati più piccolo di quanto inizialmente anticipato e largamente controbilanciati dalla drastica caduta negli investimenti energetici” che sono crollati del 65% generando un impatto avverso significativo sul Pil (vedi grafico). Tuttavia, in termini netti, conclude, l’impatto del calo petrolifero è stato “modestamente positivo”.
Se pensate che sulla convinzione che il petrolio low cost avrebbe giovato all’economia gli stati (e i privati) ci hanno costruito i bilanci, presenti e futuri, queste osservazioni della Bce dovrebbero restituirci una maggiore consapevolezza del tempo in cui viviamo. Un tempo bugiardo.
Il calo del petrolio salva (per ora) i conti commerciali italiani
La buona notizia è che il saldo commerciale italiano continua a migliorare. Quella meno buona è che la salute dei nostri conti dipende in larga parte dai ribassi del petrolio, mentre continua la nostra robusta crescita delle importazioni. Ciò significa che siamo esposti a rischio rialzi petrolio che in poco tempo potrebbe prosciugare i nostri attivi.
Per osservare questa interessante evoluzione della nostra bilancia commerciale bisogna incrociare i dati dal 2013, quando il petrolio quotava fra i 90 e poco più di 100 dollari al barile, con quelli del 2015, quando è gradualmente sceso dai 50-60 dollari a poco più di 30. L’effetto sui nostri conti commerciali è visibile osservando innanzitutto i conti del commercio estero con i paesi extra Ue – dove si concentra la nostra bolletta energetica – nei due anni e, successivamente osservare tutta la bilancia commerciale, sempre nei due anni considerati.
L’occasione per il confronto ce la offre l’ultima release dell’Istat uscita pochi giorni fa, dove si danno i numeri del commercio estero extra Ue nel periodo gennaio-dicembre 2015. Il saldo è ampiamente positivo, con un surplus di 33,658 miliardi. Se guardiamo i dati del surplus nello stesso periodo del 2013 osserviamo che quell’anno il saldo superava di poco i 20 miliardi di attivo. Quindi in due anni il nostro commercio extra Ue ha visto crescere il surplus di circa il 65%. Che è sicuramente una buona notizia.
Un po’ meno se osserviamo che nello stesso periodo il petrolio è calato di oltre la metà. L’effetto sui conti commerciali extra Ue si può osservare sul deficit energetico. Nel 2013 i dodici mesi hanno cumulato un saldo negativo di oltre 50 miliardi, mentre nel 2015 tale saldo è stato di poco superiore a 30: un risparmio di 20 miliardi. Ciò significa che l’andamento dell’energia, a noi favorevole (pure se esportiamo prodotti energetici), ha consentito di tagliare il deficit energetico di circa il 40%.
Il dato assoluto, tuttavia, ne nasconde un altro. Se prendiamo lo stesso saldo al netto dell’effetto energia, osserviamo che nel 2013 il saldo sarebbe stato positivo per oltre 70 miliardi. Se facciamo la stessa operazione nel 2015, vediamo che il saldo rimane positivo per poco più di 64 miliardi. Ciò significa che le importazioni sono notevolmente cresciute in tutti gli altri settori. “Al netto dell’energia, l’incremento delle importazioni (+10,2%) è pari a oltre il doppio di quello delle esportazioni
(+4,5%). In particolare – spiega Istat – la crescita dell’import è molto sostenuta per i beni di consumo durevoli (+16,4%) e i beni strumentali (+15,3%)”. E’ ragionevole ipotizzare, quindi, che una buona parte degli incrementi di reddito che gli italiani hanno avuto fra il 2014 e il 2015 sia stata spesa in beni esteri.
Il problema è che questa crescita rigogliosa delle importazioni, che procede a questi tassi già dal 2014, non viene bilanciata da quella delle esportazioni.
Se dallo spaccato extra Ue guardiamo all’intera bilancia commerciale, il dato cambia poco. Poiché il dato di dicembre non è ancora disponibile, ho confrontato quello del periodo gennaio-novembre 2013 con lo stesso del 2015. Emerge che nel 2013, nei mesi cumulati, la nostra bilancia energetica mostrava un deficit di oltre 50 miliardi, sostanzialmente in linea con quello extra Ue dell’intero anno, con un surplus, al netto di questa componente di poco più di 26 miliardi. Nello stesso periodo del 2015 il deficit della bilancia energetica è sceso a 31 miliardi, anche qui più o meno in linea con quello extra Ue dell’anno, mentre il surplus superava i 39 miliardi. Ma se guardiamo il saldo al lordo della componente energetica osserviamo che a novembre 2013 era di 76 miliardi a fronte dei 70 del 2015. Quindi abbiamo avuto un aumento strutturale delle importazioni a fronte di una diminuzione congiunturale della spesa energetica. Se nel 2015 avessimo pagato la stessa bolletta energetica del 2013, il nostro saldo sarebbe stato quasi di venti miliardi più basso.
Detto in soldoni: importiamo di più ma spendiamo di meno, almeno finché dura il ribasso del petrolio. Ciò fa apparire i nostri conti commerciali buoni. Ma la loro composizione suggerisce che sarebbe poco saggio farci affidamento.
The day after (Fed): conto da dieci trilioni per i debitori in dollari
Sicché la Fed, per una volta, non ha deluso gli osservatori, anzi ha fatto esattamente quello che si aspettavano. Ha alzato di 25 punti base i tassi, praticamente a zero dal 2008, e i mercati, per ora festeggiano. I mercati, si sa, amano avere ragione. Salvo poi pentirsene. Anche perché ci sono alcuni fattori che sembrano proprio favorire i ripensamenti. Fra questi una situazione di debito internazionale denominato in dollari che non solo non si è normalizzata, ma anzi si è aggravata.
Gli ultimi dati diffusi dalla Bis, che al tema del credito denominato in dollari ha dedicato un interessante approfondimento nella sua ultima quaterly review, mostrano che la montagna di debito in valuta americana del settore non finanziario è cresciuta ancora da nove trilioni a quasi dieci; 9,8 per la precisione nel secondo trimestre del 2015. Una buona parte, circa 3,3 trilioni, sono debiti delle economie emergenti, non a caso divenute la principale preoccupazione degli osservatori internazionali, specie adesso che il calo del petrolio mette a rischio buona parte dei loro incassi fiscali e che la Fed ha avviato il rialzo i tassi. Evento quest’ultimo che, per quanto ampiamente previsto, condurrà questo debito lungo la terra incognita di un dollaro destinato ad apprezzarsi.
Sicché, giocoforza, gli osservatori aguzzano la vista e provano a far due conti. La prima cosa che viene fuori è una tabella molto analitica che riepiloga la situazione di 12 economie emergenti che da sole pesano oltre 2,8 trilioni di debiti in dollari, che sommano sia l’esposizione bancaria che quella derivante da emissioni obbligazionaria. Se considerate che il debito estero complessivo di questo paesi quota circa 3,8 trilioni, potrete dedurne che gran parte dei debiti esteri di queste economie sono denominati in dollari, pur se con grandi differenza fra l’uno e l’altro. Il che non è certo un buon viatico per la solidità finanziaria.
Vale la pena sottolineare che la partita dei debito in valuta si inserisce in quella più ampia del debito totale che queste economie hanno cumulato dall’esplodere della crisi in poi e che, solo per il settore corporate – e sempre per le 12 economie considerate – vale oltre 22 trilioni, la gran parte dei quali, più di 17 trilioni, sono di imprese cinesi.
Tutto ciò pone degli evidenti rischi di sostenibilità, visto che questi debiti dovranno essere serviti, in un contesto internazionale che vede i tassi (e il cambio) americano orientati al rialzo. Che poi è l’esatto opposto della ragione che negli anni ha spinto questi paesi a indebitarsi in dollari: ossia il cambio favorevole e i tassi bassi.
Ad aggravare le cose la circostanza che gli studiosi non sono neanche sicuri che le cifre stimate siano esaustive, visto che per ragioni tecniche le statistiche non tengono conto di alcune partite. Ciò implica la possibilità che il rischio da exit strategy sia persino sottostimato.
Un’altra circostanza utile da osservare è che solo una piccola parte di questa montagna di crediti risiede in banche americane. Tale circostanza si può riscontrare osservando il caso cinese. Dalle statistiche Bis emerge, valga come esempio, che l’esposizione delle banche del Regno Unito nei confronti del paese è praticamente il doppio di quello Usa. Ciò significa che gli Usa, manovrando la loro politica monetaria, svolgono un effetto diretto sul costo del debito degli emergenti e uno indiretto su chi detiene tale credito e che in gran parte si trova fuori casa loro. Quest’effetto indiretto è positivo finché il debitore paga, sennò diventa un problema che però si scarica in gran parte fuori dal paese che l’ha originato.
Un’altra complicazione deriva dalle diverse strategie che i diversi paesi hanno adottato per garantirsi i fondi bancari in dollari di cui hanno bisogno per i loro prestiti. Cina e Russia, spiegano gli studiosi della Bis, si affidano a depositi domestici in dollari per prestare in casa propria, similmente a quanto fanno l’Indonesia e le Filipine. “Si potrebbe dire che queste economie – spiegano – hanno parzialmente dollarizzato le loro economie, col risultato che le statistiche sul debito estero possono sottostimare la loro vulnerabilità alla crescita del tasso sui dollari o del valore del dollaro”. Altri paesi, come la Turchia emettono bond in dollari e raccolgono fondi il dollari da banche estere per finanziare prestiti in dollari a casa propria, Quindi oltre a importare un rischio di cambio e di tassi, si espongono anche a quello di duration, visto che usualmente i prestiti a lungo vengono finanziati con debito a breve.
Altre singolarità si osservano vedendo come si è evoluta l’emissione in bond denominati in dollari a partire dal 2009, cresciuta persino più di quella dei prestiti bancari, visto che dopo la crisi le grandi banche chiusero i rubinetti., e favorita dai rendimenti più favorevoli assicurati dagli emergenti rispetto ai bond delle economie avanzate. Nel 2015 si è osservato un certo rallentamento nelle emissioni, rispetto al passato. Ma sappiamo che uno dei più grandi emittenti di bond in dollari è la brasiliana Petrobras, che com’è noto agisce nel settore delle commodity, e che “ha visto crescere notevolmente il suo debito fra il 2009 e il 2014”. E adesso che le commodity vanno giù questa compagnia, semi-statale, dovrà faticare non poco a far quadrare i conti.
C’è un’altra particolarità. I cinesi, gli indiani, i russi e i sudafricani usano entità sussidiarie off shore per emettere i bond in dollari. Anche in questo caso, perciò, le statistiche sul debito estero possono sottostimare l’impatto di un apprezzamento del cambio o dei tassi sul dollaro. Per la cronaca, la quota maggiore dello stock di questo bond off shore, pari a 243 miliardi di dollari, è stata emessa da affiliati di istituzioi finanziarie non bancarie residenti in Cina.
Così il cerchio si chiude. Tutti paesi, seppure attraverso canali diversi e con tutte le peculiarità dei singoli casi, dovranno vedersela con l’inizio della normalizzazione monetaria americana. Ovviamente ne sono perfettamente consapevoli, e i mercati con loro.
Il problema è che la consapevolezza non salva dalle brutte sorprese.
