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Il digitale è l’ultima frontiera dello sviluppo africano

Nella lunga ricognizione che abbiamo iniziato sullo stato di saluta delle infrastrutture strategiche africane il digitale è sicuramente l’ultimo arrivato, ma il primo in un’economia che si vuole sempre più smaterializzata. Il che sembra a dir poco ironico per un continente che manca di molte cose essenziali, o ne è molto poco dotato.

Ma che si tratti di una necessità, quella di dotare l’Africa di una infrastruttura digitale di ultima generazione, non lo dicono solo il buon senso e la demografia, che vede una marea di giovani africani. Lo illustrano anche con chiarezza anche i corposi investimenti che il capitale internazionale, ma anche quello africano, stanno dedicano alla costruzione di queste infrastrutture, a cominciare dalla dotazione di cavi sottomarini, che il grafico che apre questo post riassume.

Ma prima di parlare di cavi ci sono ovviamente le reti mobili. L’ultimo rapporto dell’Africa Finance Corporation (AFC) ci racconta che ormai la copertura di reti mobili ha raggiunto il 90% della popolazione, anche se la copertura 5G è ancora quasi assente, ma al tempo stesso permangono gravi ritardi nell’adozione digitale. Solo quattro africani su dieci sono on line a causa di una persistenza mancanza di mezzi. Nel senso che non ha abbastanza soldi per comprare un device pagare una connessione. Non solo. Ci sono grosse carenze nell’alfabetizzazione digitale e permangono diversi vincoli regolatori nei mercati di riferimento che complicano non poco la diffusione delle tecnologie.

Il risultato è che esiste un profondo divario fra le aree rurali e la città, dove si concentra la gran parte del traffico digitale e quindi la crescita del settore. Un pattern che abbiamo già osservato guardando anche al resto della dotazione infrastrutturale. L’Africa rischia di trasformarsi in un’enorme ciambella con dentro l’enorme buco delle aree rurali.

I cavi infatti, com’è ovvio, arrivano nelle zone costiere, dove sorgono anche i data center. Da lì in poi bisogna stendere chilometri di fibra terrestre e al tempo stesso potenziare la rete mobile, trovando anche il modo di attrezzare la popolazione con gli strumenti necessari per cavalcare questo sviluppo.

Al momento Nigeria, Egitto e Kenya stanno emergendo come hub digitali, ma AFC stima che servano almeno sette miliardi l’anno di investimenti per colmare il divario all’interno del continente. Uno sforzo quanto mai necessario. “La collaborazione pubblico-privato in materia di DPI (ad esempio, ID digitale, pagamenti elettronici) e condivisione delle infrastrutture (ad esempio, fibra su linee elettriche o ferrovie) offre opportunità scalabili e ad alto impatto. Questi modelli riducono i costi, ampliano la portata dei servizi e stanno guadagnando terreno in tutto il continente”, scrive l’AFC.

Ma alla base di questo sviluppo ce n’è un altro che osserveremo in un altro posto: quello delle infrastrutture energetiche. “L’energia è la spina dorsale invisibile del futuro digitale dell’Africa. Data center, torri e piattaforme cloud richiedono energia stabile, pulita e a basso costo. L’attuale deficit energetico dell’Africa, e la dipendenza dal gasolio, aumentano i costi e limitano l’espansione. Ma con il settore ICT che ora è il principale acquirente di energie rinnovabili a livello globale, il potenziale di energia pulita dell’Africa rappresenta un vantaggio competitivo”.

Il digitale, insomma, è l’ultima frontiera dell’Africa, per la semplice ragione che porta con sé lo sviluppo di una serie di infrastrutture complementari e accessorie. L’energia, intanto, Ma costruire una infrastruttura energetica significa avere una infrastruttura di trasporto e disponibilità di beni e servizi quindi stare dentro le catene commerciali del valore.

Per dirla semplicemente, una volta che tutti gli africani saranno on line, l’Africa avrà fatto il suo balzo in avanti. E dopo chissà.

Le opportunità nascoste nel digital divide africano

L’unico vantaggio ad essere gli ultimi è che si può arrivare a diventare i primi. Gli ultimi, infatti, hanno un vantaggio che sarebbe errato sottovalutare: possono usare le conoscenze dei primi utilizzandole ex novo senza dover scontare il prezzo della loro conquista. Proprio perché non hanno nulla, possono costruire ex novo avendo già a disposizione le tecnologie più moderne, senza dover fare i conti con i residui del passato.

Da questo punto di vista l’Africa, che non è esagerato definire l’ultima frontiera dello sviluppo economico, ha lo svantaggio di avere una dotazione di capitale molto scarsa e il vantaggio che, di conseguenza, può costruirsene uno stock di qualità contemporanea. Che vuol dire, ad esempio, usare macchinari che consumano meno energia, o fonti di energia rinnovabili che prima semplicemente non c’erano o erano troppo costose per essere realizzate.

Tutto ciò, ovviamente, a patto di avere le risorse finanziarie. Servono quindi investimenti, e soprattutto investimenti esteri, visto che la dotazione di capitale africano è ancora carente. E da quanto si legge nell’ultimo rapporto dell’AFC, Africa finance corporation, questi investimenti non mancano, specie in quelle infrastrutture che per l’Africa sono nientemeno che vitali: la logistica fisica (abbiamo già accennato ai porti) e i collegamenti digitali.

Il grafico che apre questo post elenca sommariamente i cavi sottomarini sviluppati e in corso di sviluppo in Africa dal 2022 al 2026. A ognuno di queste corrispondono cordate di investitori di diverse nazionalità. Dal cavo PEACE, che raccoglie capitali cinesi, francesi, pakistani e di diverse telco africane, ad Equinao, finanziato da Google: tutto il mondo che conta sta circondando l’Africa di cavi dati, che ovviamente favoriscono la fioritura di data center, che vedono in prima linea il Sudafrica. Ma non solo. Ci sono hub regionali emergenti, per i data center, ad esempio in Kenya, Nigeria, Egitto e Marocco. “Il Kenya ha ottenuto grandi successi in questo senso ospitando i suoi Internet exchange point all’interno di data center che ora contano i principali fornitori di contenuti (AWS, Microsoft Azure, Meta, Alphabet)
insieme ad agenzie governative, servizi di pubblica utilità, istituzioni finanziarie e diversi fornitori di servizi Internet (ISP) locali”, sottolinea il rapporto.

Le infrastrutture, insomma, si stanno lentamente edificando. Ma vale per il digitale ciò che abbiamo visto osservando le infrastrutture portuali: lontano dalle coste i collegamenti sono molto più difficili. “Stime disponibili di Hamilton Research – scrive l’AFC – suggeriscono che 2/3 della popolazione africana si trova a più di 10 km dalle infrastrutture di rete in fibra ottica, la percentuale più alta di qualsiasi altro continente”. Grandi distanze dalle infrastrutture implica maggiore difficoltà a raggiungere i destinatari del dato. Vale per il digitale ciò che abbiamo visto per le merci: se mancano le infrastrutture di collegamento interno, o sono carenti, le merci che arrivano da fuori faticano ad arrivare sui mercati. Ciò implica che le coste prosperano e l’interno vivacchia. E questo in un continente che ha un numero elevato di paesi che non hanno sbocchi sul mare.

Questo spiega il digital divide ancora elevato all’interno del continente, che non solo soffre il vincolo infrastrutturale che abbiamo fugacemente osservato, ma anche quello economico generato dal basso livello di reddito delle popolazioni. Detto semplicemente, l’africano medio non ha i soldi né per pagarsi le connessioni, né tantomeno per comprare un qualunque device. E questo determina che l’accesso alla rete della popolazione sia ancora basso.

Gli africani hanno in percentuale il minor numero di telefonini a mondo e ancor meno sono quelli che dispongono di un computer.

E questo spiega perché nel 2024 oltre il 60% degli africani non abbia accesso ad internet. Ci sono ovviamente situazioni migliori – ad esempio in Egitto e Nigeria – ma nel complesso il continente esibisce ancora una situazione di sostanziale arretratezza su questo fronte, che contrasta visibilmente con la sua domanda potenziale di servizi digitali, vista l’enorme quantità di giovani che vivono in Africa.

Di fronte a questo stato di cose, e soprattutto in prospettiva, si capisce bene perché i grand carrier di cavi sottomarini stiano lentamente circondando l’Africa. Si capisce meno la ragione per la quale i paesi avanzati, che pure avrebbero tutto da guadagnarci a “informatizzare” il continente africano, non investano pure per aiutare gli africani ad avere almeno un telefonino di penultima generazione. Sarebbe un compito interessante per l’Europa, che magari potrebbe approfittarne per sviluppare un suo standard, sia hardware che software, invece che rassegnarsi al dominio dei produttori Usa e asiatici. Il problema è che l’Europa è bravissima a vedere i rischi. Mai le opportunità.

Il Grande Gioco della Undernet africana

Se non fossimo distratti dai rumorosi fronti di guerra che allignano per ogni dove, trovandoci per giunta al centro di una pandemia sanitaria che ne ha generato anche una informativa, forse tutti noi avremmo dedicato maggiore attenzione a quello che sta succedendo attorno all’Africa, terra da sempre al centro di svariati appetiti e per ciò stesso pretesto per generarne di nuovi mano a mano che il progresso li renda possibili, oltre che necessari.

Per meglio dire, avremmo prestato maggiore attenzione a quello che sta succedendo sotto i mari dell’Africa dove lentamente si stanno tessendo alleanze e generando corposi investimenti per dotare il continente di ciò che oggi appare assolutamente necessario: una rete di cavi sottomarini capace di collegare in maniera efficiente questa terra al resto del mondo che ieri come oggi ha bisogno dell’Africa.

Il continente nero è stato sempre al centro dei traffici internazionali, come ben sa chi frequenta la storia, e non solo per le sue infinite risorse naturali, ma soprattutto per il suo ruolo di interposizione fra le Americhe e le Asie, con l’Europa a troneggiare in cima, come una corona ormai fuorimoda. L’Africa è letteralmente al centro del mondo, come può osservare chiunque svolga una planisfero.

Perciò nulla di strano che negli abissi africani si muovano notevoli interessi che disegnano l’intrico dell’Undernet che sarà e dei quali solo di recente le cronache hanno iniziato a disegnare la fisionomia. A volte sorprendente.

E’ il caso, ad esempio, dell’annuncio del consorzio che ha presentato 2Africa, un progetto molto ambizioso che si propone di circumnavigare il continente dotandolo di una rete di bel 37 mila chilometri di cavi.

La rete dovrebbe essere attiva fra il 2023 e il 2024. Ma l’aspetto interessante è che nel consorzio che ha dato vita all’iniziativa convivono giganti del calibro di Facebook e China Mobile International. A dispetto dei capricci dell’amministrazione Trump, e di certe dichiarazioni del suo Ceo, Facebook ha tutto l’interesse a collaborare con la Cina che sull’Africa ha investito moltissimo.

La presentazione di 2Africa arriva un anno dopo l’annuncio di Google, uno dei più attivi “posatori” di cavi sottomarini degli ultimi anni, del lancio di un nuovo cavo sottomarino, Equiano, per connettere il Portogallo a Cape Town. Come ai tempi della scoperta della rotte atlantiche, il Portogallo diventa nuovamente il terminale della connettività con l’Africa.

Questo investimento, che dovrebbe condurre nel 2021 all’accensione del cavo, è destinato ad aumentare notevolmente la potenza della rete sottomarina di Google, che ormai è uno dei principali protagonisti di questo mercato.

Ma soprattutto la competizione fra i due giganti della rete attorno all’Africa si inserisce in un panorama già affollato che rende il Grande Gioco della Undernet africana un altro campo interessante da osservare per capire come si configurerà il traffico dati – che significa potere e influenza – fra il Sud Atlantico e l’Oceano Indiano.

Se guardiamo agli altri attori di cavi sottomarini che hanno a che fare in qualche modo con l’Africa, possiamo farci un’idea ancora più chiara delle caratteristiche di questo gioco.

Il cavo Ellalink collega l’Africa occidentale con la penisola Iberica e la costa orientale dell’America Latina.

Il cavo è gestito da una società indipendente che ha come principale azionista il Marguerite Fund, un’entità che ha alle spalle la l’Unione europea.

Il cavo Dare1 circonda il Corno d’Africa unendo Gibuti a Mombasa.

L’idea del cavo è venuta all’azienda di telecomunicazione di Gibuti, piccolo stato africano al centro di infinite influenze geopolitiche ed economiche. Il cavo è posseduto da un consorzio di telco dell’Africa orientale.

Il cavo Peace lo abbiamo già incontrato. Nel 2017 la Huawei ha firmato con altri soggetti un accordo per costruire la Pakistan East Africa Cable Express, che oltre ad essere un acronimo assai ammiccante (PEACE) si propone di stendere un cavo dal Pakistan al Kenya passando, ancora una volta, per Gibuti.

In sostanza si tratta di un collegamento fra Africa e Asia lungo le vie della Seta sponsorizzate dai cinesi, con l’ammiccamento europeo. Il cavo infatti ha come terminale europeo la Francia. Oltre a sembrare il perfetto complemento del cavo Equiano di Google.

Sicché abbiamo la Cina che penetra in Africa da Oriente, gli Usa, tramite le sue corporation, da Occidente, e l’Europa, democristianamente a metà, dalla cima. Ieri come oggi l’Africa è circondata. E non potrebbe essere diversamente, essendo il centro del mondo.