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La Consulta e la (im)previdenza non riformabile
La morale della storia mi appare evidente non appena finisco di leggere la lunga sentenza della Corte Costituzionale che ha imposto al governo di restituire con gli interessi le somme non erogate ai pensionati, in virtù dell’obbligo di rivalutazione, per gli anni 2012 e 2013.
La morale della storia è che quelli sulle pensioni sono risparmi con l’elastico. E quando tornano indietro fanno molto male, come dimostra la cronaca dei nostri giorni.
E questo non succede perché la Corte Costituzionale sia cattiva o insensibile. Ma perché abbiamo costruito nei decenni un sistema di regole, giuridiche o giurisprudenziali, che di fatto vanifica ogni possibilità di agire sulle pensioni. Se anche il governo decidesse di agire, come pure dice di voler fare, troverà sempre un giudice, sia esso civile, contabile, amministrativo o costituzionale (dulcis in fundo), che potrà invalidare quanto deciso. Per la semplice ragione che l’edificio della (im)previdenza pubblica è tanto barocco quanto inespugnabile. E la sentenza della Corte Costituzionale ne è preclaro esempio.
Oggetto del contendere, nella fattispecie, è il meccanismo della perequazione automatica che fu impiantato nel sistema previdenziale nei generosi anni ’60, che proseguirono la fase incrementale e profondamente diseguale del welfare italiano impiantata negli anni ’50.
La Corte Costituzionale traccia un breve storia di questo istituto, che vale la pena riportare qui, per far capire l’andazzo delle vicende previdenziali nel nostro Paese.
“La perequazione automatica, quale strumento di adeguamento delle pensioni al mutato potere di acquisto della moneta, – ricorda la Corte – fu disciplinata dalla legge 21 luglio 1965, n. 903, con la finalità di fronteggiare la svalutazione che le prestazioni previdenziali subiscono per il loro carattere continuativo. Per perseguire un tale obiettivo, in fasi sempre mutevoli dell’economia, la disciplina in questione ha subito numerose modificazioni.
Con l’art.19 della legge 30 aprile 1969, n. 153 nel prevedere in via generalizzata l’adeguamento dell’importo delle pensioni nel regime dell’assicurazione obbligatoria, si scelse di agganciare in misura percentuale gli aumenti delle pensioni all’indice del costo della vita calcolato dall’ISTAT, ai fini della scala mobile delle retribuzioni dei lavoratori dell’industria”.
Questo regime andò avanti fino al 1992, anno di grandi cambiamenti, quando fu varato il decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 che stabilì la periodicità annuale degli adeguamenti perequativi e si stabilì che gli adeguamenti fossero calcolati sul valore medio dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di
operai ed impiegati. In tal modo si sganciò la perequazione dalla dinamica salariale, che si era rivelata parecchio onerosa, collegandola al livello medio dell’inflazione. Ma sempre con l’elastico, visto che all’articolo 11 della stessa norma si previde che “ulteriori aumenti potessero essere stabiliti con legge finanziaria, in relazione all’andamento dell’economia”.
Un altro cambiamento intervenne nel 1998 (legge 23 dicembre 1998, n. 448). All’epoca i politici si preoccuparono persino di “di tutelare i trattamenti pensionistici dalla erosione del potere di acquisto della moneta, che tende a colpire le prestazioni previdenziali anche in assenza di inflazione”.
Non riesco a capire quali possano essere queste “erosioni del potere di acquisto anche in assenza di inflazione”, e mi chiedo se tanta premura sia stata adoperata anche per il calcolo delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti.
Quindi si decise che le pensioni dovessero aumentare a prescindere dall’inflazione. In pratica un meccanismo di rivalutazione automatico che funziona “in misura proporzionale all’ammontare del trattamento da rivalutare rispetto all’ammontare complessivo”.
Dovrei stupirmi poi quando vedo che l’unica classe che ha visto crescere significativamente il proprio reddito equivalente in Italia fra il 1991 e il 2012 siano i pensionati (vedi grafico)?
Tanta generosità fu emendata due anni dopo (legge 23 dicembre 2000, n. 388), che dispose come la rivalutazione automatica spettasse per intero “soltanto per le fasce di importo dei trattamenti pensionistici fino a tre volte il trattamento minimo INPS. Spetta nella misura del 90 per cento per le fasce di importo da tre a cinque volte il minimo ed è ridotto al 75 per cento per i trattamenti eccedenti il quintuplo del minimo”.
Nessuno si lamentò, ovviamente.
Tantomeno quando nel 2007 (l’art. 5, comma 6, del decreto-legge 2 luglio 2007, n. 81) si previde per il triennio 2008-2010 una perequazione al 100% anche per la fasce di importo fra tre e cinque volte il minimo (prima era il 90%).
La Corte ne deduce che “soltanto le fasce più basse siano integralmente tutelate dall’erosione indotta dalle dinamiche inflazionistiche o, in generale, dal ridotto potere di acquisto delle pensioni”.
La storia delle sospensioni degli adeguamenti perequativi è altrettanto articolata.
Sempre nel 1992, ma a settembre e quindi prima della riforma di dicembre, quando fu varata la mitica finanziaria Amato (casualmente oggi giudice costituzionale) si dispose il blocco degli adeguamenti “in attesa della legge di riforma del sistema pensionistico e, comunque, fino al 31 dicembre 1993”. E tuttavia in sede di conversione del decreto, a novembre, “si provvide a mitigare gli effetti della disposizione, che dunque operò non come provvedimento di blocco della perequazione, bensì quale misura di contenimento della rivalutazione, alla stregua di percentuali predefinite dal legislatore in riferimento al tasso di inflazione programmata”. Si arrivò così al provvedimento di dicembre ’92 che abbiamo visto.
Ma anche stavolta si trattò di un risparmio con l’elastico.
A dicembre 1993 (legge 24 dicembre 1993, n. 537) si provvide “a restituire, mediante un aumento una tantum disposto per il 1994, la differenza tra inflazione programmata ed inflazione reale, perduta per effetto della dell’art. 2 della legge n. 438 del 1992”.
Di conseguenza “il blocco, originariamente previsto in via generale e senza distinzioni reddituali dal legislatore del 1992, fu convertito in una forma meno gravosa di raffreddamento parziale della dinamica perequativa”.
Quando finalmente entrò in vigore il sistema contributivo, si decise (art. 59, comma 13 della legge 27 dicembre 1997, n. 449) un azzeramento della perequazione automatica, per l’anno 1998. Norma peraltro che la stessa corte Costituzionale definì legittima (ordinanza n. 256 del 2001) forse perché limitava il campo di applicazione ai soli trattamenti superiori a cinque volte il minimo.
Prima della norma ora bocciata dalla Consulta c’era stato un altro tentativo (nell’art. 1, comma 19, della legge 24 dicembre 2007, n. 247) di fermare temporaneamente la rivalutazione delle pensioni, limitato però ai trattamenti superiori a otto volte il minimo.
Anche allora qualcuno di questi signori con pensioni superiori a otto volte il minimo, evidentemente poco inclini alla generosità, aveva fatto causa. La Corte ha deciso con sentenza 316 del 2010, ponendo in evidenza “la discrezionalità di cui gode il legislatore, sia pure nell’osservare il principio costituzionale di proporzionalità e adeguatezza delle pensioni”.
Ma in quell’occasione non la spuntarono, perché “le pensioni incise per un solo anno dalla norma allora impugnata, di importo piuttosto elevato, presentavano margini di resistenza all’erosione determinata dal fenomeno inflattivo”.
Nella stessa sentenza del 2010 la Corte aveva “indirizzato un monito al legislatore, poiché la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, o la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, entrerebbero in collisione con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità”. Ciò in quanto “le pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta”. Il che, con tutto il rispetto per la Corte, mi fa sorridere.
La norma bocciata però “realizza un’indicizzazione al 100 per cento sulla quota di pensione fino a tre volte il trattamento minimo INPS, mentre le pensioni di importo superiore a tre volte il minimo non ricevono alcuna rivalutazione. Il blocco integrale della perequazione opera, quindi, per le pensioni di importo superiore a euro 1.217,00 netti”.
Ed è questo che la Corte contesta: “Le modalità di funzionamento della disposizione censurata sono ideate per incidere sui trattamenti complessivamente intesi e non sulle fasce di importo”, con l’aggravante che “non solo la sospensione ha una durata biennale: essa incide anche sui trattamenti pensionistici di importo meno elevato”.
Il che, mi pare ovvio, è una constatazione delle Corte, che perciò definisce lei quanto sia elevato un trattamento pensionistico.
A peggiorare il danno la constatazione che non solo la norma bocciata si differenzia dal passato, ma anche da quello che è venuto dopo.
A dicembre 2013 (legge 27 dicembre 2013, n. 147) si previde per il triennio 2014-2016, l’azzeramento della perequazione automatica per le sole fasce di importo superiore a sei volte il trattamento minimo INPS e per il solo anno 2014, mentre per le altre tornò a valere il principio della perequazione per fasce. “Anche tale circostanza conferma la singolarità della norma oggetto di censura, commenta la Corte.
Quindi la conclusione “la perequazione automatica dei trattamenti pensionistici è uno strumento di natura tecnica, volto a garantire nel tempo il rispetto del criterio di adeguatezza di cui all’art. 38, secondo comma, della Costituzione”.
La tecnicalità della perequazione dipende “dalle scelte discrezionali del legislatore, cui spetta intervenire per determinare in concreto il quantum di tutela di volta in volta necessario”, ma sempre in aderenza con i principi costituzionali. Tanto è vero che “questa Corte ha tracciato un percorso coerente per il legislatore, con l’intento di inibire l’adozione di misure disomogenee e irragionevoli”.
Da qui la decisione finale: “Sono stati valicati i limiti di ragionevolezza e proporzionalità, con conseguente pregiudizio per il potere di acquisto del trattamento stesso e con «irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività».
Quindi due anni di mancata rivalutazione delle pensioni superiori a tre volte il minimo ha pregiudicato il potere d’acquisto dei pensionati, frustrando le loro aspettative di vita.
Ma è la premessa alla bocciatura che bisogna tenere a mente: “Questa Corte si era mossa in tale direzione già in epoca risalente, con il ritenere di dubbia legittimità costituzionale un intervento che incida «in misura notevole e in maniera definitiva» sulla garanzia di adeguatezza della prestazione, senza essere sorretto da una imperativa motivazione di interesse generale.
E attenzione: non basta fare un generico riferimento, qualora si decidesse di tagliare, alla “contingente situazione finanziaria”, senza che “emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi”. Perché sennò il diritto dei pensionati ad avere una pensione adeguata viene sacrificato “nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio”.
Forse un bel default della previdenza convincerebbe i nostri supremi giudici.
(2/fine)
Pensioni, la Corte costituzionale presenta il conto degli anni ’60
Leggo sinceramente interessato la lunga sentenza della Corte Costituzionali che ha sganciato una bomba a frammentazione sulla nostra contabilità pubblica, e provo a mettere a tacere i miei istinti belluini che mi urlano nella pancia che no, non è giusto che adesso, come peraltro avevo immaginato in tempi non sospetti, mi toccherà pagare il conto dell’ennesima lotteria sulle pensioni.
In fondo che ne so: non sono un giurista né un tecnico della materia. E poiché sono stato educato al rispetto dei valori repubblicani, del principio della separazione dei poteri e tutte quelle belle cose che ci ripetono ogni giorno, mi impongo di essere ragionevole e leggo cercando di non rimane impigliato nella ragnatela giuridica tessuta dai giudici costituzionali.
La prima informazione utile che ne traggo è che la Corte Costituzionale è stata chiamata in causa dal Tribunale di Palermo, sezione lavoro, chiamato a decidere su una causa intentata da un qualcuno, e poi dalla Corte dei Conti, sezione giurisdizionale Emilia Romagna e sezione Liguria, che fra il maggio e il luglio scorso hanno sollevato questione di legittimità costituzionale sul comma 25 dell’articolo 24 del decreto legge 6 dicembre 2011, poi convertito con legge 22 dicembre 2011.
Si tratta del famoso “Salva Italia” del governo Monti che dispose “in considerazione della contingente situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai
trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100 per cento”.
Nella narrativa leggo anche che il giudice palermitano aveva rilevato “che la discrezionalità di cui gode il legislatore nella scelta del meccanismo perequativo diretto all’adeguamento delle pensioni, fondata sul disposto degli artt. 36 e 38 Cost., ha trovato il proprio meccanismo attuativo nel sistema di perequazione automatica dei
trattamenti pensionistici, introdotto dall’art. 19 della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale). Aggiunge che il blocco introdotto dalla normativa censurata reitera, rendendola più gravosa, la misura di interruzione del sistema perequativo già a suo tempo sancita dalla legge 24 dicembre 2007, n. 247, che era limitata ai soli trattamenti pensionistici eccedenti otto volte il trattamento minimo INPS, nonostante il monito rivolto al legislatore dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 316 del 2010, teso a rimuovere il rischio della frequente reiterazione di misure volte a paralizzare il meccanismo perequativo”.
Il riferimento alla legge del 1969, che poi è stata quella che insieme a quella del 1965, ha provocato l’incredibile espansione della nostra spesa pensionistica (vedi grafico), mi fa capire subito che coloro che oggi lamentano la sentenza della Corte trascurano di ricordare che i guasti provocati dall’imprevidenza politica alla nostra prevideza pubblica sono conseguenza di un passato tanto lontano quanto tremendamente attuale. E mi fa specie che oggi tutti sembrino cadere dalle nuvole.
I giudici della Corte dei Conti dell’Emilia Romagna, nel rimettere la loro ordinanza alla Corte, sottolineavano “l’illegittimità delle frequenti reiterazioni di misure intese a paralizzare il meccanismo perequativo (fissato con legge del ’65 e del ’69, ndr) sottolineando, altresì, il carattere peggiorativo della norma censurata rispetto all’art.1, comma 19, della legge n. 247 del 2007 così determinando il blocco dell’adeguamento dei trattamenti superiori a tre volte, anziché a otto volte, rispetto al trattamento minimo INPS”.
La Corte dei Conti sottolinea pure che “tale blocco incide sui pensionati, fascia per antonomasia debole per età ed impossibilità di adeguamento del reddito, come evidenziato dalla Corte costituzionale” e come “l’intervento legislativo evidenzi il carattere sempre più strutturale del meccanismo di azzeramento della rivalutazione e non quello di misura eccezionale, non reiterabile, senza osservare il monito espresso dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 316 del 2010”, deducendone che “la norma censurata si presenta lesiva anche del principio di affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, giacché i pensionati adeguano i programmi di vita alle previsioni circa le proprie disponibilità economiche, con conseguente pregiudizio per le aspettative di vita di questi ultimi”.
Quindi bloccare per due anni la rivalutazione delle pensioni tre volte sopra il minimo incide sulle aspettative di vita dei pensionati.
Non paga, la Corte dei Conti ha anche invocato la Convenzione europea dei diritti dell’uomo “richiamando poi il principio della certezza del diritto, quale patrimonio comune degli Stati”,e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Per attimo vorrei tanto essere pensionato anch’io.
La Corte dei Conti della Liguria, fra le altre cose osserva che “la pressante esigenza di rivalutazione sistematica del correlativo valore monetario (delle pensioni, ndr), che garantisce il soddisfacimento degli stessi bisogni alimentari, sarebbe irrimediabilmente frustrata”. Quindi bloccare per due anni la rivalutazioni delle pensioni tre volte sopra il minimo espone i pensionati al rischio di patire la fame.
Dulcis in fundo, la Corte dei Conti sottolinea che “la Corte costituzionale ha riconosciuto, con la sentenza n. 316 del 2010, la legittimità di temporanee sospensioni della perequazione, anche se limitate alle pensioni di importo più elevato”.
L’INPS, costituitosi in giudizio, ha ricordato che “che la norma censurata si limita a sospendere l’operatività del meccanismo rivalutativo esistente per un breve orizzonte temporale e a salvaguardare le posizioni più deboli sotto il profilo economico, evidenziando, altresì, come la Corte, con la sentenza n. 316 del 2010, abbia già deciso, respingendola, analoga questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 19, della legge n. 247 del 2007 ed
aggiungendo che la mancata perequazione per un tempo limitato della pensione non incide sulla sua adeguatezza, in particolare per le pensioni di importo più elevato”.
Scusate la prolissità, ma credo dica molto della sostanza la qualità degli argomenti.
La Corte Costituzionale, dopo aver riunito i vari giudizi, è entrata nel merito, giudicando inammissibili alcuni dei rilievi prodotti, fra i quali quelli relativi alla violazione delle convenzioni internazionali e alla natura tributaria del prelievo che violerebbe gli articoli 2,3, 23 e 53 della Costituzione.
Laddove la Corte Costituzionale ha dato ragione ai ricorrenti è quella relativa “agli articoli 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, della Costituzione” e l’origine di tale decisione è la legge 903 del 1965, che fissò l’obbligo per i pensionati della perequazione automatica.
In sostanza, la Corte Costituzionale ci ha semplicemente presentato un conto che matura da cinquant’anni.
Questa storia merita di essere raccontata a parte.
Visto che ancora oggi siamo chiamati a pagarne le conseguenze.
(1/segue)
C’è un giudice a Berlino, ma anche a Lisbona
Chi la spunterà nell’inedita disputa ormai conclamata fra giuristi ed economisti/banchieri sulla quale si gioca il futuro dell’Unione europea?
Pochi l’hanno notato, ma nella generale debolezza della politica, che ormai ha chiaramente delegato alle banche centrali gli indirizzi della politica economica europea, si sta affermando come un vero e proprio contropotere quello delle corti costituzionali, che ormai sindacano, mettendo sul tavolo il loro notevole potere d’interdizione, sulle decisioni dei governi fino a stravolgerle.
La cosa divertente, che fa capire anche quanto tale atteggiamento sia trasversale, è che finora le corti costituzionali che hanno questionato, guadagnando l’attenzione preoccupata delle cronache finanziarie, sono state quella tedesca, ossia quella del grande creditore europeo, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell’OMT voluto da Draghi, e quella portoghese, ossia quella di uno dei grandi debitori, che è entrata a gamba tesa su alcune scelte di politica economica del governo chieste a gran voce dalla Troika, provocando anche una mezza crisi di governo.
L’ultima bocciatura ha riguardato alcune norme che si proponevano di flessibilizzare il mercato del lavoro. E la cosa ha suscitato tali apprensioni che il Fmi, nel suo ultimo staff report dedicato al Portogalloe uscito poche settimane fa, cita proprio le decisioni della Corte come uno degli ostacoli principali al proseguimento del programma di riforme che, oltre a garantire allo stato lusitano i prestiti di cui ha bisogno, viene considerato indispensabile per risanare alle fondamenta l’economia nazionale, devastata da anni di prestiti facili d’improvviso diventati debiti da onorare.
Per dare un’idea di quanto sia profonda la spaccatura che sta maturando fra i veri poteri forti dell’Unione europea, ossia i banchieri e i giuristi, vale la pena ricordare che poche settimane fa, esattamente il 25 ottobre, a Roma si è tenuto un convegno organizzato dalla Corte costituzionale italiana con quella spagnola e quella portoghese. Un incontro di routine maturato nell’ambito dell’accordo di collaborazione siglato dalle tre corti per esaminare questioni di comune interesse.
Il tema della riunione romana era “I principi di proporzionalità e ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale, anche in rapporto alla giurisprudenza delle Corti europee”. E già da questo si capisce quale sia la portata della posta in gioco. Ossia il rapporto fra la giuridizione comunitaria, che trova nella Corte di giustizia europea il suo baluardo, e quella nazionale, che trova nella corte costituzionale la stessa cosa.
La questione, semplificando, si potrebbe riassumere i questi termini: quanto è compatibile la “sovranazionalità” comunitaria con la “sovranità” giuridica di uno stato rappresentata dalla Corte costituzionale?
Il tema non è certo nuovo. Se ne parlò a lungo nei primordi dell’Unione, quando si discuteva della Ceca.
Ma poi le questioni guridiche finirono in sordina, confinate nella specialistica.
Adesso, al contrario, sembra che i giudici siano diventati parte integranti del processo dialettico che si sta consumando sul futuro dell’Ue.
Forse perché mentre è molto facile sottrarre sovranità alla politica nelle questioni economiche, fare lo stesso per le questioni giuridiche, sulle quali si fonda letteralmente l’Unione, sono assai più ostiche.
I giudici, ma in generale i giuristi, non sono mammolette che si lasciano spaventare dallo spread.
Forse perché, come dicono i maligni, i giudici costituzionali rappresentano l’aristoburocrazia del pubblico impiego, ossia ciò che le varie troike vedono come il fumo negli occhi, e quindi (dovrebbero essere) i naturali destinatari di una qualunque spending review.
Senonché le Costituzioni degli stati sono rimaste l’unica cosa considerata intoccabile e sacra dalle popolazioni europee. E’ in tale legittimazione “popolare” che i giudici trovano la forza “politica” di compiere le loro scelte che, al di là di come si considerino, sono di rottura.
Guardate cosa scrive il Fmi: “C’è stato qualche miglioramento dell’ambiente macroeconomico, ma scandito da una crisi politica e da una battuta d’arresto nel processo di riforma provocato dalla Corte costituzionale”.
Sottotitolo: la Corte costituzionale ha bloccato il processo di miglioramento macroeconomico.
Diritto (nazionale) ed economia (sovranazionale) confliggono e divergono.
Per darvi un’idea di quanto il Fmi guardi con preoccupazione a questa “battuta d’arresto” basta notare la sottolineatura che fa il Fondo delle tre volte durante le quali la Corte ha bocciato alcune riforme chiave della spesa “effettivamente limitando l’intento del governo di licenziare i dipendenti pubblici”.
“Più recentemente – aggiunge – la Corte ha rovesciato la riforma del lavoro che aveva attenuato le rigide regole di protezione del lavoro dipendente che disciplinano i licenziamenti dei lavoratori a conctratto a tempo indeterminato”.
Ciò, ovviamente. è stato sufficiente per trasformare, in molta opinione pubblica europea, la Corte di Lisbona nella paladina dei diritti dei lavoratori.
L’ennesima sconfitta della politica, viene da dire.
Il problema però non è raccogliere applausi per quello che si fa, ma pagarne le conseguenze.
Non penserete mica che l’economia non abbia le sue proprie regole?
Infatti, nota sempre il Fmi, “oggi, con l’elevata volatilità dei mercati globali, l’accresciuta incertezza politica (rectius: costituzionale, ndr) ha condotto il rendimento dei bond decennali fino al 7,5%. Nonostante recenti ritracciamenti i mercati rimangono prudenti circa le possibilità del Portogallo di uscire dalla situazione corrente entro maggio 2014 senza ulteriori supporti ufficiali”.
Quanto invece agli effetti macroeconomici dell’ultima bocciatura costituzionale, il Fmi scrive che “l’impatto fiscale è stimato relativamente basso (0,1% del Pil) ma c’è il rischio che questo possa ridurre gli incentivi alle dimissioni volontarie previste dalle norme”.
Sottotitolo: guarda che se non fai come dicono, i mercati ti tagliano definitivamente i fondi.
Che poi significa che neanche i giudici costituzioniali avranno più uno stipendio, visto che la capacità del Portogallo di pagarli dipende dai prestiti internazionali.
Come andrà a finire lo vedremo presto. Anche perché i fondamentali macroeconomici portoghesi sono a dir poco problematici.
Nel secondo quarto 2013 il Pil è cresciuto dell’1,1%, ma il tasso di occupazione è 13 punti sotto il picco raggiunto nel 2008. E ciò malgrado il costo unitario del lavoro, fatto 100 il livello nel 2008, sia sceso sotto 90 nel settore pubblico mentre è rimasto stabile nel privato. Nel suo complesso, il costo del lavoro è calato del 4,25% dal primo quarto 2009.
Ma è bastato questo per migliorare la competitività.
Sul lato estero, l’aumento dell’export nel 2013 (+4,5%) ha migliorato gli squilibri di parte corrente. Il saldo, che veleggiava verso un deficit del 15% nel 2008, nel 2013 dovrebbe chiudere con un surplus pari all’1% del Pil, ma solo perché si è praticamente azzerato il deficit sulla bilancia dei beni.
I Portoghesi non hanno importato quasi più nulla insomma. Anche perché non avevano più soldi da prendere in prestito, visto che sul lato finanziario della bilancia dei pagamenti si registrano corposi deflussi di investimenti di portafoglio dal 2010 in poi, con un picco di quasi 30 miliardi nel 2012.
Gli investimenti di portafoglio sono tornati pian pianino nel primo semestre 2013 (ma il saldo netto è previsto negativo fino al 2017), quando si ferma la rilevazione del Fmi, quindi prima che gli effetti della decisione della Corte costituzionale spiegassero i propri effetti.
A ciò si aggiunga che i problemi fiscali del Portogallo sono tutt’altro che risolti. il Deficit generale del governo, che aveva raggiunto il 9,9% del Pil nel 2010 dovrebbe restringersi al -5,9% nel 2013 a fronte di un debito pubblico previsto in crescita fino al 127,8% del Pil nel 2013.
Tutto ciò spiega bene perché il Fmi tema che “le decisioni della Corte costituzionale possano minare la fiducia”.
“Il governo – conclude – dovrà riformulare la legge di bilancio per raggiungere i target di deficit concordati, ma, data la limitata potenzialità di manovra, potrebbe essere molto difficoltoso. Ciò può condurre alla scelta di adottoare misure di scarsa qualità, aumentando il rischio sulla ripresa del prodotto e dell’occupazione, e quindi l’instabilità politica”.
Ma non è una minaccia.
E’ un avvertimento.
