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La fusione fredda delle borse cinesi dà una spinta allo Yuan
Zitte zitte quatte quatte, le borse di Hong Kong e di Shanghai sono diventate pressoché un tutt’uno, anche se rimangono assolutamente due. Con meravigliosa cineseria, i regolatori hanno creato le condizioni affinché fra i due mercati si originino e si sviluppino quei flussi di movimenti di capitali, rigorosamente espressi in renmimbi, che segnano il primo passo concreto della Cina verso la liberalizzazione del conto capitale, che così tante gioie promette ai mercanti di capitale di tutto il mondo.
L’innovazione, alla quale la Bis dedica un approfondimento nella sua ultima quaterly review, merita di essere raccontata perché segna un profondo cambiamento dei mercati finanziari cinesi, e, soprattutto, li rende assai più permeabili al capitale straniero.
La storia comincia il 10 aprile scorso, quando la China securities regulatory commission (CSRC) e la Securities and futures commission (SFC) di Hong Kong hanno annunciato la creazione dello Shanghai-Hong Kong Stock Connect, un programma pilota che si propone di rendere accessibili reciprocamente i mercati di borsa della Cina continentale con quello di Hong Kong. L’accordo è stato perfezionato il 17 ottobre, quando i due regolatori hanno firmato il protocollo d’intesa che ha condotto, il 17 novembre, al lancio ufficiale dello Stock connect.
Questo programma di collegamento, chiamato icasticamente “treno diretto”, consentirà la negoziazione di azioni fra le due borse. Il collegamento funziona da nord verso sud, quindi da Shanghai a Hong Kong e viceversa, però con diverse modalità.
Nel collegamento verso sud, gli investitori della Cina continentale possono negoziare fino a 266 azioni ammesse quotate a Hong Kong, fino a un contingente giornaliero di 10,5 miliardi di RMB di acquisti (netti) e a un contingente aggregato di RMB 250 miliardi. Le azioni ammesse alle contrattazioni rappresentano l’82% della capitalizzazione di borsa del SEHK.
Nel “collegamento verso nord”, quindi da Hong Kong a Shanghai, gli investitori internazionali possono negoziare fino a 568 azioni ammesse quotate a Shanghai, fino al raggiungimento di un contingente giornaliero di 13 miliardi RMB di acquisti (netti) e un contingente aggregato di RMB 300 miliardi. Le azioni ammesse alle contrattazioni rappresentano il 90% della capitalizzazione di borsa dell’SSE. I contingenti si applicano ai soli ordini di acquisto, mentre gli ordini di vendita sono sempre consentiti. Sono possibili adeguamenti delle quote in futuro.
L’intensa collaborazione fra le due autorità di regolazione è servita anche a creare un regime fiscale armonizzato per il trattamento delle plusvalenze che, nel caso degli investitori che vanno verso nord, saranno esenti dal prelievo per un periodo non specificato e per tre anni per gli investitori che vanno verso sud.
“Stock Connect rappresenta potenzialmente una pietra miliare nel processo di liberalizzazione dei movimenti di capitale da parte della Cina”, commenta la Bis. Ed è facile capire perché.
Lo Stock connect “ha la settima maggiore capitalizzazione di borsa al mondo, pari a $2 960 miliardi a fine ottobre 2014, eppure rimane un mercato relativamente chiuso”.
Prima di Stock Connect, infatti, gli investitori istituzionali esteri potevano accedere alla Cina soltanto tramite i programmi Qualified Foreign Institutional Investor (QFII) e RMB QFII (RQFII) sulla base di protocolli di intesa tra il loro paese e la Cina. Programmi assai rigidi sottoposti all’approvazione delle autorità di regolamentazione e a rigidi contingenti di negoziazione concessi su base individuale. Stock Connect invece “rappresenta un’importante integrazione rispetto ai programmi esistenti e comporta un’apertura senza precedenti dei mercati dei capitali cinesi”.
Il programma, infatti, “allenta le restrizioni sui flussi di capitali in entrambe le direzioni”. Le contrattazioni verso nord sono aperte a tutti gli investitori, quelle verso sud agli investitori istituzionali e agli investitori privati con titoli e disponibilità liquide di almeno 500mila RMB della Cina continentale. Le negoziazioni verso nord saranno quotate in renminbi, ma regolate in renminbi offshore, mentre quelle verso sud saranno quotate in dollari di Hong Kong ma regolate in renminbi onshore. La negoziazione e il regolamento in renminbi incentiveranno un maggiore utilizzo di questa valuta, che perciò sarà la prima a giovarsi dell’internazionalizzazione del mercato azionario che, pur non essendo formalmente integrato, lo è sostanzialmente.
Inoltre la People’s Bank of China ha deciso di abolire, con decorrenza il 17 novembre, il massimale giornaliero di 20mila RMB a persona applicato alle operazioni di cambio valuta effettuate da residenti di Hong Kong. “Tale scelta dovrebbe facilitare la partecipazione di questi ultimi e incoraggiare le istituzioni finanziarie locali a offrire più prodotti di investimento in renminbi”. Il trasferimento di renminbi verso
conti bancari onshore rimane tuttavia soggetto al massimale giornaliero di 80mila RMB a persona, contenendo il probabile impatto sui flussi di capitali tra i due territori.
La Bis ha osservato le reazioni del mercato all’innovazione, che sono state entusiastiche il primo giorno per poi calare, i flussi di scambi, intorno al 25% del contingente previsto. Forse perché, ipotizza la Bis, gli investitori non hanno ancora dimestichezza col nuovo sistema e permangono alcune incertezze in maniera di tutela degli investitori.
Ma aldilà degli esiti più recenti, è evidente che la rotta è segnata. “Nella sua forma attuale – concude la Bis – Stock connect – si applica solo alle azioni scambiate sulle due borse, ma in linea di principio i contingenti di negoziazione potrebbero essere ampliati e il programma
esteso ad altre borse, nonché ad altri strumenti e classi di attività. Stock Connect potrebbe in ultima istanza favorire la convergenza delle regole di mercato e degli standard contabili e di informativa tra SEHK e borse della Cina continentale. Esso dovrebbe inoltre rendere più trasparente il mercato continentale e migliorare il governo societario delle imprese cinesi”.
Piccoli (grandi) mercanti di capitale crescono.
Il casinò globale alle porte di Pechino (e a est del Portogallo)
Mentre i disordini di Hong Kong affollano la nostra attenzione, le cronache continuano a ignorare la piccola Macao, perfetta metafora dello spirito del tempo. Prima colonia portoghese e ora regione speciale del nascente impero cinese, Macao sperimenta su di sé croci e delizie dell’economia globale, che se ancora le garantisce rendimenti e crescite stellari, nell’ordine dell’8-10% di Pil annui, vede sorgere su di sé il tramonto incipiente dell’Occidente, gravato da debiti irredimibili, e insieme della sua Mainland, ossia la Cina, che cova grandi rischi insieme alle sue conclamate grandi opportunità.
Che poi Macao sia anche una delle capitali mondiali del gioco d’azzardo, e insieme un porto franco della finanza, ossia un paradiso fiscale, è anche questa una simpatica metafora per dire che le due principali fonti di reddito di Macao, oltre al turismo che a ben vedere è una diretta conseguenza, condividono i rendimenti e i rischi dell’economia globale, laddove una repentina contrazione del buonumore globale, per adesso sapientemente alimentato dalle politiche espansive della banche centrali, si abbatterebbe come un tifone tropicale sulla seconda Costantinopoli cinese.
Malgrado tutto ciò, Macao è assai poco frequentata dalle cronache, che sottovalutano quanto l’ex colonia possa funzionare da veicolo di contagio, da una parte, e quanto sia esposta ai malmostosi influssi che da Occidente spirano verso Oriente, e che sempre più spireranno allorquando la normalizzazione monetaria della Fed inizierà a dispiegare i suoi effetti.
Giova perciò leggere le 57 pagine che il Fmi ha di recente dedicato a Macao. Vi ritroveremo tutti i nostri vizi – dal gioco d’azzardo (finanziario o da casinò) al mercato immobiliare ormai fuori controllo – e la nostra mitologia che si nutre di grattacieli e redditi pro capite elevati, accoppiata a un tasso di fertilità fra i più bassi la mondo, che rivela uno stato dell’anima dove ognuno bada al suo conto corrente, piuttosto che a riprodursi, e dove la gente si accalca – Macao primeggia per densità abitativa – sognando ognuno il miglior posto al sole il cui sogno tale mitologia alimenta salvo poi deludere. In tal senso Macao è avanguardia, e come tale va osservata.
Dopo la “liberazione” dal Portogallo nel 1999, che aveva occupato per 400 anni il piccolo territorio a sud di Hong Kong, la Cina ha accordato a Macao lo stesso status giuridico concesso ad Hong Kong. Ossia di regione ad amministrazione speciale dove la madrepatria si occupa di difesa e politica estera, mentre Macao, fino al 2049, ha ottenuto il diritto di gestirsi da sola le politiche economiche, commerciali e monetarie.
Un porto franco, insomma, che attira capitali e scommettitori d’azzardo (ammesso che ci sia qualche differenza) come il miele le mosche. Nel territorio vivono 600mila persone su una superficie di appena 31 chilometri quadrati, cui si aggiungono i pendolari del gambling, sempre più numerosi. Nel 2013, per darvi un’idea, gli ingressi sono stati superiori a 29 milioni di persone. Il gioco d’azzardo, per darvi un’altra idea, pesa i quattro quinti dell’export e i tre quarti degli incassi fiscali del governo, un quarto dell’occupazione e la metà del Pil.
Questo meraviglioso casinò globale alle porte di Pechino si è giovato delle liberalizzazione, decisa nel 2002, del gioco d’azzardo cui è seguita, logicamente, quella degli ingressi turistici. Sicché orde di scommettitori, perlopiù provenienti da Hong Kong e dalla Cina, hanno iniziato ad affollare Macao, facendo schizzare alle stelle il reddito procapite.
Ma non è stato sempre così. All’indomani della “liberazione” Macao conobbe una crisi deflazionaria, accompagnata da un crollo dei corsi immobiliari e un rapido incremento delle sofferenza bancarie. Ma poi, a partire dai primi anni 2000, il clima è cambiato. Oggi Macao ha superato Las Vegas proprio sul terreo dei casinò. Nel 2013 gli incassi derivanti dal gioco d’azzardo sono cresciuti del 19%, arrivando a sfiorare i 40 miliardi di dollari, a fronte dei cinque di Las Vegas. In questa convergenza della timida Asia verso i valori impudici dell’Occidente, s’individua l’ennesimo passaggio di consegne fra Ovest ed Est, col suo portato inflazionario, con i prezzi stabilmente in crescita di oltre il 5% guidati dal boom del mattone, e la sua grande disuguaglianza, che “rimane una preoccupazione”, nota il Fmi, anche se non si capisce di chi.
Il secolo asiatico, insomma, individua in Macao uno dei suoi interpreti più autentici, l’ennesimo anello di congiunzione fra gli Usa e la Cina che trova nella moneta la sua più esemplare sintesi. E la circostanza poi che il boom del gioco d’azzardo sia andato di pari passo con quello dei valori azionari, rivelandosi sostanzialmente la stessa cosa, è un’altra meraviglia del tempo del quantitative easing.
La politica monetaria di Macao, infatti, è fortemente collegata a quella di Hong Kong, a sua volta legata a quella americana e ciò implica che Macao importi inflazione a seconda dell’umore degli americani. La moneta, tuttavia, è sostenuta da un’abbondante dotazione di asset esteri, forte anche della posizione netta di creditore che Macao, orgogliosamente esibisce sulla sua bilancia dei pagamenti, alimentata da un corposo surplus di conto corrente, arrivato al 44% del Pil nel 2013, controbilanciato dal deficit del conto capitale e finanziario, atteso che gli asset liquidi, compresi quelli pubblici, vengono investiti all’estero. Nessuno, d’altronde, dubiterà che il vizio sia un’ottima fonte di prosperità economica.
Sul versante fiscale, il gioco d’azzardo ha generato introiti tali da mandare in surplus il bilancio dello stato: la regione non ha debito pubblico e può contare su riserve fiscali per quasi il 60% del Pil da utilizzare in caso di torbidi contro shock esterni o interni, la cui probabilità non è affatto remota. Basta ricordare che il settore finanziario pesa il 250% del Pil, dominato da banche estere che tengono fuori dai confini circa il 60% dei loro asset, mentre le banche locali, riempite dai corposi depositi dei residenti, possono contare sull’assistenza delle banche estere residenti per pianificare la loro attività di risk management e finanziario. In sostanza, Macao è un paradiso, ma fragile. E poi c’è il mercato immobiliare, sempre più teso, che preoccupa non poco i regolatori, anche perché la bolla del mattone di Macao si aggiunge a quella di Hong Kong e, soprattutto, a quella della Mainland cinese.
Prima della crisi Macao cresceva al ritmo del 14%, poi con la crescita ha perso la doppia cifra, ma le politiche americane l’hanno in qualche modo sostenuta. I bassi tassi, immediatamente recepiti dall’economia domestica, hanno generato un boom del credito incoraggiando i debitori, interni ed esteri, a farne ancora di più. Enormi flussi di investimenti diretti sono arrivati, per lo più concentrati sul mattone, replicando un copione che ormai conosciamo fino allo sfinimento. “L’outlook è brillante – dice il Fmi – ma Macao deve prepararsi per il futuro”.
E il futuro che fa paura è sempre lo stesso: la fine della bonanza monetaria in un contesto internazionale in cui i debiti sono aumentati, anziché diminuire, e che perciò ha incrementato i rischi connessi ad una crescita del costo del denaro. Tanto più per una piccola regione stretta fra la politica monetaria americana e quella finanziaria della Cina, per lo più dovendo fare i conti con un invecchiamento della popolazione che si presume farà rallentare la domanda di gioco d’azzardo, ossia la cornucopia di Macao.
Paradossalmente, ma poi neanche tanto, la fortuna di Macao può esser anche la sua disgrazia. Se l’economia dovesse rallentare o finire in stagnazione, negli Usa come nell’Ue, tutto il castello di benessere potrebbe sgretolarsi molto rapidamente trasmettendosi dal canale fiscale a quello finanziario per il tramite di un’improvvisa mancanza di liquidità.
Ma il rischio principale rimane sempre lo stesso: il mattone. L’indice dei corsi immobiliari è passato dal livello 100 del 2008 a oltre 300, a significare prezzi più che triplicati a fronte di una ricchezza delle famiglie aumentata solo di una volta e mezzo. Qui la questione del rialzo del costo denaro ha un’influenza diretta, atteso che i sospetti di una sopravvalutazione dei corsi immobiliari è assai fondato e dato pure il deterioramento degli indici di housing affordability, ossia gli indicatori che ci dicono quanto sia possibile acquistare o affittare casa, peggiorati drasticamente dopo l’inizio della crisi. “Un calo severo del mercato immobiliare puà avere un impatto negativo significativo sulla qualità del credito, sul fisco e su tutta l’attività economica”.
Basti considerare che il settore delle costruzioni pesa il 4,7% del Pil e il 10% dell’occupazione e ha dei legami strettissimi col settore finanziario, che l’ha sostenuto, arrivando alla circostanza che il settore delle costruzioni pesa il 50% della domanda privata di credito nazionale. Quanto alle famiglie, la spesa per il servizio del debito legati ai mutui ormai si colloca al 25% del reddito, dopo che hanno assorbito il 38% del credito domestico.
Anche qui: il solito copione, che abbiamo visto a Hong Kong e in Cina, per tacere dell’Occidente.
Parrà a molti stravagante a questo punto, e forse lezioso, andare a strologare d’una terra così lontana e sostanzialmente irrilevante, quando dobbiamo vedercela con i nostri europeissimi problemi. Ma sarebbe errato crederlo, trascurando un’altra caratteristica del nostro mondo globale che prima ancora fu globale ma su scala coloniale. Perché, vedete, il problema è che Macao, oltre ad avere stretti e conclamati politici legami con la Cina, ne ha pure con un’altra controparte che già di suo soffre di salute malferma, per non dire periclitante: il Portogallo.
Solo chi creda veramente finita la colonizzazione può pensare che Macao, dopo 400 anni, non abbia tessuto legami fitti con l’ex madrepatria, ossia quel Portogallo che le nostre europeissime cronache tengono sempre in conto quando si debba tratteggiare i paesi resi disgraziati dalla crisi economica.
Non bisogna stupirsi perciò che il nostro spicchio d’Europa condivida, insieme con Hong Kong e la Cina il grande privilegio d’esser depositario dei due terzi degli asset interbancari che coinvolgono Macao. Shock legati al credito o al funding in queste tre controparti possono creare gravi danni a Macao, e viceversa, il tutto complicato dalla scarsa pubblicità che hanno i dati sull’esposizione bancaria della regione. E poi c’è anche l’Australia, di recente divenuta controparte importante di Macao.
Sarebbe una ironica chiosa della storia che il nostro Portogallo, che di recente ha subito gravi tormenti a causa di una delle sue banche, finisca col turbare la paciosa accumulazione della sua ex colonia. Ma non sarebbe l’unica.
E neanche l’ultima.
La pace impossibile fra debitori e creditori
Salgo su una macchina del tempo, gentilmente messa a disposizione dal Fmi, e mi ritrovo nel 2012, a scrutare dall’alto di una statistica le due armate dei debitori e dei creditori globali ergersi l’una di fronte all’altra come colossi e le immagino a guardarsi in cagnesco, sospettando ogni sorta d’intrigo, odiandosi persino, pur sapendosi indispensabili ognuna per l’altra.
Mi chiedo come mai il totale delle posizioni nette degli investimenti esteri dei creditori conteggiate raggiunga il 16% del pil mondiale, mentre quella dei debitori superi il 18%, ma non ho il tempo di approfondire perché la vertigine di queste commensurabili, e insensate, quantità di denaro è meno importante della loro titolarità. Sapere chi sono, i debitori e i creditori, aiuta molto più a comprendere il problema che non la semplice quantificazione del dare e dell’avere.
Nel 2012 il Giappone da solo sommava più del 4% di questi crediti, che sommati a quelli di Cina e Germania, porta le NIIP di questi tre paesi a più della metà del totale. Il resto se lo dividono la Svizzera, Hong Kong, l’Arabia Saudita, Singapore e la Norvegia, mentre la voce “altri” totalizza un altro 2% circa.
Lato debitori, la parte del leone la fanno gli Stati Uniti, con circa il 6% del pil mondiale di NIIP negativa, quasi alla pari col gruppo “altri”.
Dopo gli Usa la palma di peggiore situazione estera ce l’ha la Spagna, seguita dal Brasile, a sua volta molto esposto verso la Spagna. Poi ci sono l’Australia, la Francia, l’Italia, il Messico e la Turchia.
A fronte di questi due aggregati, si verificano situazioni di singoli paesi che soffrono di squilibri rilevanti, relativamente alla dimensione della loro economia. Fra i creditori, il caso più eclatante è quello di Hong Kong, la cui NIIP è positiva per oltre il 250% del pil, mentre Singapore sta poco sotto, un filo sopra la Svizzera. L’Arabia Saudita sta intonro al 100%, mentre nella classifica a due cifre troviamo il Giappone, il Belgio, l’Olanda, la Germania e la Cina. Positivi, ma assai meno eclatanti, le posizioni nette di Russia, Malesia e Corea del Sud.
Fra i debitori primeggia la Spagna, con una NIIP negativa per quasi il 100% del Pil, peggio persino della Polonia e della Turchia. Gli Stati Uniti, sempre nel 2012, avevano un deficit di circa il 15% del Pil, migliore di quello dell’Italia, ma peggiore di quello di Thailandia, Francia, Canada e India.
Risalgo sulla mia macchina del tempo e faccio un salto nel 2013. Ma solo per scoprire che gli squilibri sono peggiorati. Gli attivi sono aumentati a Hong Kong, a Singapore, in Giappone, in Germania e in Cina. I passivi sono peggiorati in Spagna e in Polonia, in Messico e in Brasile, negli Stati Uniti e in Italia, e sono migliorati solo di poco in Turchia e in Australia. Questi ultimi due, nel corso del 2013, hanno subito notevoli svalutazioni, e questo certo li ha aiutati.
Nell’eurozona, peggio della Spagna, hanno fatto solo Grecia, Portogallo e Irlanda che però, nota il Fmi, hanno invertito il trend al contrario di quanto accaduto per gli iberici che dovranno migliorare significativamente il conto corrente per riuscire nell’impresa. Per la cronaca, i tre che hanno “svoltato” stavano fra il 110 e il 120% del Pil di NIIP negativa.
Lato creditori osservo che i trend sono cambiati anche qui di poco. Certo, Hong Kong non registra più il 350% del pil di NIIP positiva com’era nel 2007, ma sta più vicina a 300 che a 250. La Cina è stabile e il Giappone ha pure guadagnato qualche punto percentuale. Anche i grandi creditori dell’eurozona sono stabili: Germania, Olanda e Belgio, esattamente come la Svizzera.
Poiché è irragionevole attendersi grandi cambiamenti nello spazio di un solo anno (e non c’è da augurarseli, atteso che implicherebbero sconvolgimenti gravi), m’imbarco di nuovo sulla mia macchina del tempo e arrivo fino al 2019, dove arrivano le proiezioni del Fmi.
Scopro che, fra i debitori più gravi, sempre ammesso che continui la correzione in atto, l’Irlanda dovrebbe arrivare a una NIIP negativa pari al 40% del suo pil, più o meno al livello del 2007 prima della crisi. Per allora Grecia e Portogallo dovrebbero essere ancora con un -80% del Pil di NIIP e la Spagna dovrebbe essere a -60%, a livello della Turchia, che si prevede peggiorerà, come anche l’Australia.
Fra i creditori, Hong Kong dovrebbe “fermarsi” a una NIIP positiva per il 200% del Pil Cina e Giappone si prevedono stabili al livello attuale, mentre la Germania si prevede migliorerà significativamente superando il Giappone. Quindi anche nel 2019 i magnifici tre, Cina, Giappone e Germania, continueranno a pesare più della metà della massa creditoria globale.
Stanco e un po’ deluso, abbandono la mia macchina del tempo, ormai inutile. Capisco che siamo destinati a invecchiare, a meno di capovolgimenti globali, in questa condizione, dove grandi creditori e grandi debitori, sempre gli stessi, tengono in scacco il mondo con i loro crediti/debiti irredimibili che generano enormi quantità di capitale fittizio.
Queste partite, che mai troveranno la pace del pagamento, sono destinate al contrario a creare tensioni e fibrillazioni, imponderabili, ma, di sicuro, potenzialmente catastrofiche, con ciò negandosi il fine autentico della finanza (dal latino: finis), ossia dilazionare i debiti in vista del pagamento, e trasformandola invece in una diabolica macchina che tali debiti rende infintamente commerciabili e sostenibili.
I due colossi continueranno a guardarsi in cagnesco.
La pace fra loro è assolutamente impossibile.
La resistibile ascesa della Costantinopoli cinese
Lembo estremo del nascente impero, Hong Kong è la punta orientale dell’internazionale finanziaria che regola le nostre vite con soddisfazione sua, che ormai gareggia con i grandi per pil pro capite, e nostra, che all’ombra del dispotismo cinese celebriamo i nostri carissimi diritti, incuranti della circostanza d’esser finiti nella morsa di una gigantesca tenaglia globale, all’interno della quale la piccola Europa rischia lo stritolamento.
E ciò malgrado leggiamo ammirati, sfogliando l’ultimo report del Fmi su Hong Kong, che il sistema finanziario di questa sorta di Costantinopoli cinese “è uno dei più grandi e più sviluppati del mondo”, con un sistema bancario “altamente capitalizzato, profittevole e liquido” che gestisce asset per due trilioni di dollari che equivalgono al 705% del suo Pil, di fronte al quale il 500% svizzero sembra moderato.
Stato-città ricca, perciò, come nella storia lo sono sempre stati i regni d’Oriente, e degna antagonista (ma solo in apparenza) della città-stato di New York, da cui la vicenda imperiale s’origina e si dipana, avvolgente e dondolante come una ragnatela, in tutto il mondo.
Giova perciò conoscere meglio Hong Kong, vera Mecca per i cacciatori di rendimenti, con un mercato azionario che ormai capitalizza il 1000% del Pil e un mercato assicurativo che ormai è il secondo dell’Asia, dopo il Giappone.
Come ha fatto una piccola ex colonia britannica a compiere questo miracolo?
Come fanno tutti: affrontando rischi crescenti. Perché la legge fondamentale della finanza, che vuole l’opportunità della ricchezza procedere a braccetto col rischio della miseria, non fa certo eccezione navigando verso Oriente. Anzi, semmai si estremizza.
“Il settore tuttavia – avverte il Fmi – deve affrontare grandi rischi”.
Rischi che ormai conosciamo bene. “L’uscita anticipata dalle politiche non convenzionali negli Stati Uniti può aumentare il rischio di volatilità dei capitali e ridurre la liquidità globale del sistema. Una correzione dei prezzi degli immobili, che si trovano al loro livello storicamente più elevato, pone rischi per i debitori e le banche. E l’integrazione con la Cina, che pure offre diverse opportunità di espansione, genera numerosi rischi di contagio, specialmente se si dovesse sperimentare uno scossone finanziario o un rallentamento economico”.
Hong Kong, insomma, è come un’automobile sportiva: piccola e veloce, ma difficile da guidare, qualora i curvoni dell’economia dovessero diventare troppo parabolici.
Ciò spiega bene perché la piccola ex colonia britannica sia una sorvegliata speciale. Dal Fmi, ma anche dalle sue stesse autorità. Gli stress test condotti dal regolatore hanno concluso che il sistema bancario potrebbe assorbire gravi perdite, ma al tempo stesso ha evidenziato come poche piccole banche potrebbero scoprirsi vulnerabili in caso di crisi grave. Senza contare la circostanza che a Hong Kong giocano un ruolo molto importante numerose global systemically important institutions (G-SIFIs), ossia le famose entità finanziarie troppo grandi per fallire.
Altresì le autorità sono molto preoccupate per il raddoppio del prezzo degli immobili, tanto è vero che L’Hong Kong monetary authority (HKMA) ha introdotto limiti più stringenti sugli indici del loan-to-value (LTV) e sui debt-servicing ratios (DSR). Come al solito si chiude la stalla quando i buoi sono già andati a pascolare.
Nel dettaglio, può essere utile sapere che a Hong Kong operano 201 istituzioni finanziarie, 156 delle quali sono banche. Di queste 135 sono filiali di banche estere, 14 sono sussidiarie e solo 7 sono banche locali. Sul territorio operano 29 G-SIBs, ossia banche troppo grandi per fallire e gli asset delle quattro banche più grandi pesano circa la metà degli asset globali del sistema bancario.
Questo piccolo colosso bancario convive con un mercato borsistico che è fra i più grossi del mondo, con i suoi 2,7 trilioni di capitalizzazione (dato di giugno 2013) e le sue 1.567 società quotate, 743 delle quali provengono dalla Mainland cinese, rappresentando circa il 56% della capitalizzazione totale. Altre 722 sono locali e il resto di altri paesi dell’Asia. E poi c’è il mercato assicurativo, che colloca Hong Kong al quarto posto nella classifica mondiale per densità del settore (pesa il 12,9% del Pil) e le sue 155 compagnie in larghissima parte estere.
Hong Kong, insomma, somiglia al nostro piccolo Lussemburgo: uno spicchio di terra dove si sono concentrati i finanzieri di tutto il mondo e che pompa freneticamente denaro.
A fronte di quest’enorme infrastruttura creata e gestita per far girare soldi, c’è un pil reale cresciuto del 2,9% nel 2013, per lo più grazie a consumi e investimenti, con un’inflazione stabile al 4% e un surplus fiscale del 3% del Pil e una disoccupazione intorno al 3%. “Le prospettive di medio termine sono buone – nota il Fmi – date anche le prospettive favorevoli dei principali partner, inclusi la Cina e gli Stai Uniti”. Proprio ad Hong Kong infatti, i due giganti dell’Estremo Occidente e dell’Estremo Oriente, celebrano il loro matrimonio di interesse.
La crescita a dir poco esuberante del credito ne è esempio preclaro. Nel 2013 il credito è cresciuto del 16%, e anche quello in valuta estera è cresciuto a doppia cifra, mentre i crediti denominati nel dollaro di Hong Kong sono cresciuti dell’8%. Molti di questi prestiti vanno all’estero, e segnatamente in Cina, che a Hong Kong ha trovato uno straordinario provider per il suo processo di internazionalizzazione.
Tanto è cresciuto, il credito, che nonostante il notevole incremento dei depositi l’indice del loan-to-deposit (LTD), ossia il rapporto fra prestiti e depositi è arrivato al 72% a giugno 2013. Così come è cresciuto il debito privato delle famiglie, al top della sua storia con il 62% sul reddito. Numeri bassi, per i nostri standard occidentali, ma elevatissimi, per quelli orientali.
La nostra Costantinopoli, insomma, sta imparando tutti i vizi di Roma.
Se guardiamo al settore corporate, vediamo che anche i prestiti alle imprese hanno raggiunto il loro record storico, raggiungendo il 151% del Pil a fine 2013, ben al di sopra di quanto hanno fatto i vicini. Il settore delle costruzioni e del real estate pesa il 25% di questi prestiti e l’indebitamento mediano risulta particolarmente elevato, pure se il credito al mattone ha iniziato a rallentare.
Tutto ciò spiega bene perché il Fmi tema l’irrigidirsi delle condizioni monetarie. Molte banche, infatti, dipendono dai prestiti esteri per il loro funding, e a sua volta l’immobiliare. Quindi “una correzione disordinata può condurre a un distruttivo outflows di capitali e a pressioni sulla liquidità”.
Pesa inoltre la crescente integrazione di Hong Kong con la Mainland cinese, che è insieme finanziaria e commerciale. Quindi i problemi cinesi, siano essi finanziari o di rallentamento economico, ci mettono un istante a trasferirsi ad Hong Kong. Infine, c’è sempre il rischio mattone, che è diventato troppo rilevante per non essere affrontato. L’indice dei valori immobiliari, che valeva 100 nel 1999 ormai ha superato 225.
L’analisi del network relazionale che si dipana da HK, inoltre, mostra che la piccola metropoli, è anch’essa una potenziale fote di contagio internazionale. Al di là delle ragioni che possono determinare lo shock, esso si propagherebbe immediatamente a Macao, Singapore, Giappone, Corea del Sud e ovviamente Regno Unito e Stati Uniti, essendo questi ultimi due le principali controparti occidentali della Costantinopoli cinese.
Ma questo non vuole dire che l’Europa ne sia immune. Uno shock creditizio a Hong Kong, che devasterebbe Macao, avrebbe conseguenze notevoli anche in Svizzera e, a seguire, negli Usa, e in Belgio i guasti sarebbero peggiori persino di Singapore. E anche Francia e Germania avrebbero poco da sorridere.
La piccola-grande Costantinopoli cinese, d’altronde, è una mirabile creatura europea, malgrado le apparenze. Un meraviglioso Frankestein finanziario.
E tutti conoscon la fine che ha fatto il dottor Frankestein.
La finanza islamica sbarca a Hong Kong
Ecco che l’Oriente estremo e quello medio, da sempre distanti e distinti, s’incontrano in nome degli affari, vero lievito globalizzante del nostro tempo.
La Costantinopoli cinese si candida a diventare la prima piazza finanziaria “laica” ad emettere bond governativi in versione sukuk bond, ossia i bond islamici costruiti secondo i dettati della sharia, che già tanto successo hanno mietuto anche in terra europea.
Ecco che ancora una volta il denaro, ossia la costituente stessa del lievito, si dimostra capace di superare qualsiasi barriera, anche quella religiosa, mutando come un camaleonte secondo i desideri di coloro che lo muovono.
Gli amanti dei paradossi della storia non potranno che compiacersi scoprendo che un’ex colonia dell’ex impero britannico, di recente braccio finanziario dei comunisti cinesi, ormai convertiti alle gioie del capitalismo, offra i suoi servigi agli investitori internazionali per trattare bond islamici, ossia strumenti finanziari costruiti secondo principi che dovrebbero far inorridire qualsiasi buon liberale.
Tutto fa brodo, purché faccia soldi.
E infatti i sukuk bond sembrano la miniera d’oro del capitalismo terminale. Se non altro perché, proprio in virtù del loro portato religioso, sono oggetto del desiderio di tante popolazioni, quelle islamiche appunto, e in particolare quelle del Golfo, che sempre l’astuzia della storia ha trasformato nelle uniche (insieme proprio alla Cina e alla Germania) che esibiscano corporsi surplus di conto corrente sulla bilancia dei pagamenti.
Sono gonfi di denaro in sostanza. E assai impazienti di farne qualcosa.
Ma perché proprio i sukuk?
Ce lo spiega bene Peter Pang, nome meraviglioso. Un Peter Pan – metafora di chi non vuole crescere, e quindi perfetta rappresentazione della nostra finanza contemporanea – ma orientale. La deriva del capitalismo. Il suo punto d’approdo.
Peter Pang di mestiere fa il vice chief executive dell’autorità monetaria di Hong Kong e nel suo poco tempo libero svolge istruttive allocuzioni, come quella che ha tenuto lo scorso 14 aprile alla conferenza dedicata proprio alla finanza islamica (“Sukuk as a viable fund-raising and investment instrument”).
Ebbene, mister Pang ci ricorda che “la finanza islamica sta diventando sempre più importante nel mercato finanziario globale, poiché registra crescita esponenziali negli ultimi anni”.
Vi sembra un’esagerazione? Macché: nel 2008, dice Pang, l’industria finanziaria islamica valeva 700 miliardi di dollari. Nel 2013 si stimava valesse 1,8 trilioni, “rappresentando una crescita al tasso annuale del 21%”, commenta Pang, mentre mi immagino i suoi occhi ruotare come le testine di una vecchia calcolatrice.
“E si stima che per il 2020 gli asset islamici arriveranno a 6,5 trilioni”, conclude sicuramente per nulla inesausto, ma anzi rinfrancato dalla teoria di dollari a venire che potenzia la sua immaginazione.
Il combinato disposto fra calcolo e immaginazione, che è un po’ lo spirito degli ultimi secoli in Occidente, ormai è dilagato come una pestilenza.
Il grosso di questa crescita di asset islamici è prevista proprio per i sukuk bond. Dieci anni fa le emissioni di questi strumenti quotavano appena 5 miseri miliardi di dollari l’anno, che oggi sono diventati oltre venti volte tanto: 117 miliardi. A spingere questa domanda la forte richiesta di investimenti sicuri da parte di investitori islamici, visto che “negli anni la regione del Golfo ha accumulato un notevole ammontare di ricavi petroliferi”.
“L’anno scorso – nota sempre più compiaciuto e calcolatore Pang – il surplus di conto corrente nel Gulf cooperation council (GCC) è stato stimato intorno ai 300 miliardi di dollari, mentre gli asset gestiti dai fondi sovrani di questi paesi ammontano a oltre due trilioni di dollari”. E poiché questi investitori hanno preferenza per gli strumenti finanziari islamici, ecco l’uovo di Colombo: emetterli a Hong Kong, forti peraltro del rating a tripla A dell’ex colonia.
“Per il suo ruolo di centro finanziario internazionale e quello, unico, di gateway verso la Cina, Hong Kong è ben posizionata per fornire una piattaforma di scambio dove l’offerta di questi surplus dal mondo islamico possa incontrare la grande domanda di finanziamenti che arriva dalle economia asiatiche in crescita. La nostra infrastruttura potrà consentire agli investitori arabi di accedere alle opportunità di investimento in Asia, e in particolare in Cina, consentendo allo stesso tempo ai fund raiser di attingere alla liquidità del mondo islamico”.
E tutti vissero felici e contenti.
Diplomazia dei prestiti esteri: L’impero di Nylonkong
Che si vada verso un Medievo di fatto, se non di diritto, è stata una felice intuizione del filosofo russo Nikolaj Aleksandrovič Berdjaev, che ne discusse in un testo (“Nuovo Medioevo”) pubblicato nel lontano 1923 a Berlino, dove preconizzava la fine della modernità e l’inizio di un tempo dove “tutti gli aspetti della vita andranno a collocarsi sotto il segno della lotta religiosa, esprimeranno principi religiosi estremi”.
Uno di questi “principi religiosi estremi” è senza dubbio il denaro, che ha creato una diplomazia assai potente e parallela a quella che i giuristi chiamano global polity, ossia la congerie di organizzazioni, statali, sovrastatali e interstatali che regolano le sorti della globalizzazione, idea neo-medievale anch’essa, a ben vedere.
La diplomazia del denaro, che viene declinata con gli investimenti esteri, a cominciare da quelli di portafoglio, ci racconta in conclusione di un nuovo Impero assolutamente coerente con lo scenario del “Nuovo Medioevo”, che ovviamente ha anche una sua capitale: Nylonkong.
La scoperta di Nylonkong si deve ai redattori di Time, e risale al 2008. Coniarono questa fortunata crasi delle capitali dei tre continenti economici che costituiscono l’Impero: New York per gli Usa, Londra, per l’Eurasia occidentale, Hong Kong per l’Oriente, la migliore declinazione possibile della vecchia capitale d’Oriente, Costantinopoli. La lingua ufficiale dell’Impero, quindi, è l’inglese, anche se a Hong Kong (che comunque è un ex territorio britannico entrato nell’Impero inglese ai tempi della guerra dell’oppio) si parla il Mandarino. Il lavoro principale dell’Impero è muovere quantità incredibili di denaro che, come un ponte fatto d’oro, sovrasta e incanta l’Asia e il resto d’Europa, lasciandone tracce assai visibili nei paradisi fiscali più conosciuti.
Le Cayman, ad esempio, anche questo territorio inglese, tanto per cambiare, dove gli Usa, a metà 2013, avevano portato 870 miliardi di dollari di investimenti esteri di portafoglio, oltre dieci volte tanto rispetto ai 71 miliardi del 2001.
Non inganni la circostanza che Nylonkong sia tripartita. La connessione di interessi che lega le tre capitali è talmente fitta che non esagerato parlare di unità nella trinità. La città stato di Hong Kong, che evoca lontani tempi andati, declina il suo spirito in skyline simili allo stato-città di New York, con la vecchia Londra in mezzo, quasi fosse una stazione di servizio dove far ristorare gli inesausti spalloni internazionali. Sosta dalla quale trae notori benefici.
Anche qui, basta far parlare la statistica.
Se si somma il totale degli investimenti di portafoglio delle tre nazioni si superano i 12 trilioni di dollari, che come una morbida ragnatela, avvolgono l’Impero. Le tre città s’imprestano vicendevolmente, si prestano soccorso e condividono affari, costringendo il resto del mondo a mercanteggiare denaro secondo le loro regole. Non a caso le tre città hanno assunto lo status di principali centri finanziari del mondo, traendone ognuna l’evidente beneficio di un Pil pro capite elevatissimo, malgrado le numerose milioni di abitanti che esse ospitano.
Ma ancor più del dato aggregato, è l’esame dei flussi che ci racconta come il denaro spieghi la sua incredibile potenza nei vasti dominion imperiali.
Hong Kong, ad esempio, dedica oltre un terzo dei suoi investimenti di portafoglio, quasi mille miliardi di dollari (966, per la precisione) alla madrepatria cinese. Parliamo di oltre 300 miliardi, che è più di trenta volte di quanto fossero nel 2001. Da notare come tali investimenti siano raddoppiati dal 2009. Ma salta all’occhio come il paradiso fiscale dei cinesi, che il Fmi individua come una delle principali basi d’appoggio dello shadow banking cinese, non disdegni di localizzare 207 miliardi alle solite Cayman, dove evidentemente gli interessi cinesi e quelli americani s’incrociano amorevolmente sotto l’egida benedicente del capitale.
Ma ancora più degni di nota gli investimenti di Hong Kong in Australia, che dopo la madrepatria, le Cayman e il Lussemburgo (il nostro paradiso fiscale) si classifica in quarta posizione fra i luoghi di interesse degli investimenti della città-stato con una trentina di miliardi di dollari, persino più della Corea del Sud (17 miliardi).
Sarà merito della solidarietà anglofona, come lascia supporre anche il corposo flusso di investimento che l’Australia attrae dal Regno Unito (94 miliardi) e, ovviamente, dagli Stati Uniti (336 miliardi).
Ciò spinge la longa manus dell’Impero fino all’estremo del Pacifico e ne sintetizza bene la pervasività. L’Australia, dal canto suo, ricambia affettuosamente, visto che la gran parte dei suoi investimenti di portafoglio (536 miliardi) si distribuiscono fra Stati Uniti (per lo più sul mercato azionario) e Gran Bretagna.
La posizione geografica delle tre capitale, inoltre, è squisitamente strategica. La città stato asiatica è il ponte ideale con il Giappone, antesignano della deriva asiatica del capitalismo americano. Il Giappone, infatti, è uno dei più grandi compratori di asset americani fin dagli anni ’80. Ma non solo. Oggi, dei suoi 3.224 miliardi di investimenti di portafoglio all’estero (giugno 2013) l’America ne assorbe 1.042, la Gran Bretagna 183,278 e l’Australia un’altra ventina. Un po’ più della Francia e della Germania. Noi italiani appena 3,3 miliardi, al livello dell’India e dell’Indonesia.
Le solite Cayman un altro centinaio, concentrati nel mercato azionario.
E’ in questo sposarsi per interesse, intrecciando legami finanziari nei quali le banche anglossasoni sono insieme officianti e controparti, che l’Impero trova la sua ragion d’essere, di fronte alla quale i goffi tentativi europei, culminati nell’eurozona, sono un pallida emulazione. L’Asia e l’America sono l’enorme tenaglia rispetto alla quale l’eurozona è poco più di una nocciolina. Una provincia dell’Impero. Un luogo di villeggiatura.
Tralasciamo per un attimo i flussi finanziari, in fondo sono solo soldi. Assai più importante per capire quanto siano intime le tre città osservare la ragnatela di collegamenti sotterranei che le compagnie di telecomunicazioni hanno steso sotto gli oceani e che tessono le connessioni di Nylonkong.
La sola Hong Kong è il punto di snodo di dieci cavi sottomarini (FLAG Europe-Asia (FEA), SeaMeWe-3, FLAG North Asia Loop/REACH North Asia Loop, APCN-2, Asia-America Gateway (AAG) Cable System, Tata TGN-Intra Asia (TGN-IA), Asia Pacific Gateway (APG), Asia Submarine-cable Express (ASE)/Cahaya Malaysia, EAC-C2C, Southeast Asia Japan Cable) che la collegano a maglia stratta con l’Asia che conta e a maglia larga, ma molto performante, con i centri angloamericani.
Nell’età di internet questi collegamenti valgono più dell’oro. Sono le strade ferrate della modernità.
E sarebbe bene chiedersi chi li gestisce e a chi appartengono.
Ma questa è una storia che vi racconterò un’altra volta.
(4/fine)
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