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Dal dilemma al trilemma, ovvero da Mr. Hyde al dottor Jekill
La tragedia del nostro tempo è scoprire la sostanziale schizofrenia del sistema finanziario. La follia dei big player del Grande Gioco della Finanza che dicono una cosa e ne fanno un’altra. Sembra quasi loro malgrado.
Questa malattia trasforma in terribili mister Hyde tanti buonissimi mister Jekill.
L’ultima vittima acclarata è Haruhiko Kuroda, governatore della Banca centrale giapponese, che qualche tempo fa abbiamo conosciuto nella sua più efferata versione di mister Hyde. Niente di meno che come l’artefice di quell’allentamento monetario già finito sui manuali del central banking.
Da bravo mister Hyde il governatore Kuroda teorizza l’aumento esponenziale del rischio via stimolo monetario, fissa target inflazionistici minimi, e giura che mai fermerà la pressa del torchio finché l’economia giapponese non tornerà a crescere, lasciandosi alle spalle un ventennio di deflazione.
Finora Kuroda/Hyde è riuscito a ottenere quello che la Bce, nel suo ultimo bollettino rilasciato in queste ore, ha registrato come il più marcato aumento di volatilità finanziari degli ultimi anni. Tanto per darvi un’idea, la volatilità implicita dei mercati azionari giapponesi è passata dal 15 al 35% da dicembre a giugno. In pratica un ottovolante.
Questo è quello che fanno i mister Hyde.
Poi però abbiamo scoperto un’altra versione di Kuroda. Proprio negli stessi giorni in cui magnificava la sua spada di samurai della moneta, il governatore partecipava a una conferenza del Japan institute of monetary and economics studies (Imes) sul tema “Financial Crises and the Global Financial System”.
E qui è venuto fuori il dottor Jekill, un appassionato teorico della stabilità, che ben conosce i mali dell’età della turbolenza di greenspaniana memoria.
“Ho sempre lottato con problemi apparentemente insolubili, come ad esempio le grandi fluttuazioni del tasso di cambio e grandi oscillazioni nei flussi di capitale”, ha detto. I famosi squilibri globali. “Ho visto diversi tentativi ed errori – ha sottolineato – e attraverso questi errori ripetuti l’economia ha accumulato saggezza: quando si affronterà il formidabile compito di ricostruire il sistema finanziario internazionale, duramente colpito dalla recente crisi finanziaria, le prove e gli errori del passato sicuramente ci forniranno preziose informazioni”.
Il problema principale, spiega il nostro dottor Jekill nipponico, è “il ruolo del trilemma della finanza internazionale nell’evoluzione del globale sistema finanziario”. Per superare il dilemma fra squilibri globali e depressione, insomma, bisogna affrontare questo trilemma.
Il trilemma, ossia un dilemma con tre corni anziché due, è uno problema micidiale. Peggio del dilemma, che ha solo due corni, perché propone tre alternative che è impossibile contemplare insieme.
Il trilemma di cui parla Kuroda-Jekill e quello teorizzato per la prima volta da Robert Mundell e Marcus Fleming che, in breve, afferma che nessuna economia aperta può allo stesso tempo raggiungere l’obiettivo di avere capitali liberi di circolare, tassi di cambio fissi e indipendenza della politica monetaria.
“I sistemi finanziari globali – spiega Kuroda – sono stati adottati sulla base dei vincoli di questo trilemma”. “Ma quando un sistema diventa insostenibile – aggiunge il samurai – e una crisi finanziaria ne è la prova, ciò conduce verso un nuovo sistema finanziario globale”.
Quindi, dice Kuroda, serve una riforma del sistema finanziario globale. Ancora una volta bisogna ripartire dal trilemma per superare il dilemma.
Serve un po’ di storia per capire. E infatti Kuroda-Jekill non si fa pregare. “Alla fine della seconda guerra mondiale – racconta – fu introdotto il sistema di Bretton Woods per risolvere alcuni problemi intercorsi nel periodo fra le due guerre, incluso le svalutazioni competitive. Con i controlli dei movimenti dei capitali (rinuncia al primo corno del trilemma, ossia la libera circolazione dei capitali), il sistema consentì insieme il perseguimento di una politica monetaria indipendente e il cambio fisso delle altre valute sul dollaro, convertibile in oro”.
In sostanza, si accettò di finire infilzati da un corno per creare un equilibrio sulla base degli altri due.
Vale la pena rilevare che l’unica politica monetaria era quella degli Usa. Solo gli Usa erano obbligati a una parità con l’oro. Il resto del mondo doveva fissare il cambio rispetto a dollaro, ma non aveva obblighi di convertibilità. La politica monetaria degli altri paesi era palesemente subordinate a quella americana, che in cambio del diritto di sbilanciare la sua bilancia dei pagamenti forniva a tutti i suoi alleati i dollari che servivano per rimettere in piedi le loro economie. L’equilibrio si basava su una violazione delle stesse regole che tale equilibrio avrebbero dovuto garantire. D’altronde le fragile economie uscite dalla guerra avevano bisogno di pane e liquidità per crescere sane e robuste, dovendo anche alimentare e nutrire la marea montante dei diritti sociali chiesti a gran voce dalle popolazioni stremate dai conflitti.
Il sistema prevedeva che sarebbero stati decisi interventi internazionali qualora fossero emersi, a livello globale, degli squilibri strutturali. Solo che in sede di redazione dei trattati si sorvolò sulla definizione di squilibrio. Tanto è vero che le svalutazione e le rivalutazioni furono rarissime fino alla fine degli anni ’60.
Senonché, lo abbiamo già visto, è proprio accettare che gli Stati Uniti siano in costante squilibrio che genera gli squilibri globali. In sostanza, la fame di liquidità, che garantisce negli anni del boom lo sviluppo del mondo occidentale, è il “peccato dell’Occidente”, come ebbe a definirlo l’economista francese Rueff, che alla lunga ci ha condotti dove siamo adesso.
Non a caso Rueff scrive nel 1972, quando ormai Bretton Woods è collassato dopo la decisione di Nixon del 15 agosto 1971 di sganciare il dollaro dall’oro e rinunciare perciò al secondo corno del trilemma, quello dei cambi fissi. “Di conseguenza – dice Kuroda – le economie avanzate mantennero una politica monetari indipendente, pur rinunciando ai cambi fissi e adottando un’ulteriore liberalizzazione mobilità dei capitali”.
Ulteriore perché già negli anni ’60 il sistema degli eurodollari aveva di fatto eluso anche il principio del controllo sui movimenti di capitale. Quello era un corno spuntato.
Ricapitoliamo. Il controllo sui movimenti di capitali era stato eluso dalla creazione indiscriminata di eurodollari negli anni ’60, il sistema dei cambi fissi terminò nel 1971. L’economia internazionale iniziò a basarsi solo sull’ultimo corno del trilemma: la politica monetaria indipendente.
Comincia l’età vera delle banche centrali. A queste entità fu affidato più o meno consapevolmente il ruolo di grandi regolatrici del sistema finanziario internazionale che ormai andava verso una impetuosa liberalizzazione. Finita l’epoca della repressione finanziaria, iniziava quella del “greed is good”, celebrata dal film Wall Street degli anni ’80, ossia dell’amore per l’avidità.
Finisce che gli squilibri aumentano a rotta di collo, sull’onda dell’espansione montante del credito seguita alle riforme liberalizzatrici degli anni ’80.
Il peccato originale dell’Occidente diventa la sua regola di vita.
Kuroda-Jekill ci dice anche un’altra cosa, ossia che “la crisi che stiamo vivendo è differente”. “Primo perché l’epicentro della crisi è stato nelle economie avanzate e la crisi si è diffusa da questa alle economie emergenti. Secondo perché questa crisi è stata innescata e poi amplificata dalle disfunzione dei sistemi finanziari”.
Quelli dove lavora mister Hyde.
La conclusione è davvero stupefacente: “Credo che la comunità finanziaria globale debba, nel suo sforzo di ricostruzione del sistema finanziario globale, fare i conti con due problemi: il controllo dei movimenti di capitali e la regolamentazione e supervisione finanziaria”. Traduzione: se vogliamo cambi flessibili e politiche monetarie indipendenti, dobbiamo rinunciare alla libertà di movimento dei capitali perché genera squilibri.
Niente più tana libera tutti.
Niente più facciamo come ci pare.
Ma mentre Kuroda/Jekill parlava, Kuroda/Hyde, ormai furioso, arrotava i tassi e controllava gli spread.
Da lì a poco avrebbe aperto New York.
Il Rischiatutto di Kuroda-san
Chi non risica non rosica, è proprio vero. Lo dice anche il governatore della Bank of Japan Haruhiko Kuroda, che ha deliziato tutti noi spiegando in un discorso alla Japan society of monetary economics la filosofia nascosta nel suo Quantitative and qualitative monetary easing. Ossia lo strumento che dovrebbe mettere fine ai 15 anni di deflazione che hanno spezzato le reni al Giappone.
Il succo, appunto, è quello dei proverbi: bisogna rischiare per guadagnare. O, per dirla col linguaggio della finanza, bisogna far salire il rischio, se si vuole veder crescere i rendimenti. E se proprio il popolo giapponese non c’è portato, al rischio, vivaddio: basta manovrare qua e là e il gioco è fatto.
O almeno questo è l’auspicio.
Il problema, Kuroda-san lo spiega così: al momento il sistema finanziario giapponese è abbastanza stabile, tuttavia le istituzioni finanziarie sono alle prese con un continuo declino del margine collegato alle operazioni di prestito, ossia la loro principale fonte di profitto. “Negli anni – sottolinea – l’ammontare del credito di rischio a carico delle istituzioni finanziarie è diminuito, mentre è aumentato il rischio da tasso di interesse sopportato dai possessori di bond”. In pratica, le banche, ma anche le famiglie, preferiscono detenere depositi e bond, pubblici in testa, piuttosto che rischiare col credito.
Quello che succede in Europa da qualche anno, succede da quasi venti in Giappone.
Per uscire da questa terribile “trappola” della liquidità, il nostro filosofo banchiere ha una ricetta semplice. Da un parte influenzare la curva dei rendimenti dei bond, guidandola sempre più al ribasso. Dall’altra aumentare il premio associato al rischio, ossia il guadagno, stimolando i mercati finanziari. L’obiettivo finale è un “riequilibrio del portafoglio”, ossia uno scambio di asset meno rischiosi, e quindi meno profittevoli, con asset più allettanti.
In pratica uno straordinario adescamento per via monetaria.
D’altronde, come fare a uscire da un situazione in cui, malgrado lo straordinario calo dei tassi, i soldi rimangono bloccati nei conti correnti e nei titoli di stato? Un dato basta a comprendere l’entità del problema: il gap fra l’ammontare dei depositi bancari e i prestiti erogati è aumentato dai 60 trilioni di yen del 2000 ai 230 trilioni di fine 2012. Soldi praticamente inutili.
Se il fine è stimolare l’appetito per il rischio, i mezzi sono quelli ampiamenti illustrati dalla stampa in queste ultime settimane. Innanzitutto la BoJ smette di preoccuparsi di operazioni di mercato sui tassi di interesse, ma agirà direttamente sulla base monetaria, che dovrebbe crescere al passo di 60-70 trilioni di yen l’anno. Per la cronaca è già cresciuta del 25% in pochi mesi.
A tal fine la Boj comprerà bond governativi (JGB) per almeno 50 trilioni di yen l’anno lungo tutta la curva dei rendimenti, anche sul 40ennale. Poi comprerà ETF, quindi strumenti quotati, per almeno 1 trilione di yen l’anno, e quote di fondi immobiliari giapponesi (J-Reits) per 30 miliardi di yen l’anno. Tutto ciò contribuirà a far scendere ancor di più i tassi, e quindi farà aumentare la voglia di indebitarsi.
Ma quel che più farà la differenza – la BoJ non è certo nuova a operazioni di espanzione monetaria – è la determinazione con la quale la Banca renderà intellegibila la sua filosofia. Quello che deve risultar chiaro, dice Kuroda, è che le strategia di allentamento monetario è e sarà anche in futuro “aggressiva”.
Inutile che ci ostini alla prudenza, pare di capire, la BoJ tirerà dritto.
Intanto la BoJ si aspetta che i massicci acquisiti di JGB convinceranno famiglie e banche a lasciar perdere questo strumento, tradizionalmente uno dei più amati dai giapponesi, che infatti finanziano in casa il loro mostruoso debito pubblico che ormai svetta verso il 240% del Pil.
Poi Kuroda è convinto che l’indicazione di un target inflazionistico, fissato al 2%, servirà a favorire la propensione a far debiti, visto che l’inflazione al contrario della deflazione si “mangia” i debiti. E indebitandosi, famiglie e imprese, potranno far ripartire i consumi e gli investimenti.
Il combinato disposto fra riequilibrio dei portafogli e spinta inflazionistica, insomma, dovrebbe garantire quel “vigoroso” rilancio dell’economia auspicato da Kuroda.
Ma siccome c’è sempre un ma, ecco che anche il Rischiatutto di Kuroda-san portà con se qualche controindicazione. “Ovviamente ci sono rischi di rialzi e ribassi per l’attività economica”, concede Kuroda. Ma la banca vigilerà, assicura, e sarà pronta a intervenire.
Inoltre, poiché “è probabile che tali politiche aumenteranno la domanda di finanziamenti di famiglie e imprese – dice il governatore – è necessario che il sistema finanziario rimanga stabile e sano”. Insomma: che non collassino le banche.
Tuttavia la Boj è convinta che il sistema finanziario sarà in grado di reggere eventuali shock, “come un aumento dei tassi di interesse”, senza che si ripeta il disastro degli anni ’90, quando proprio la sovraesposizione bancaria e l’esplosione delle sofferenze provocarono la crisi giapponese e la deflazione durata fino a oggi.
La garanzia che tale passato non si ripeta (errare è umano, perseverare..) arriva dagli stress test che la BoJ compila scrupolosamente, anche se, ricorda il governatore “dobbiamo ricordare che tali analisi quantitative vengono fornite con molte riserve e limitazioni, e che le stime devono essere interpretate con una certa libertà”.
Capito?
Inoltre, sottolinea ancora, “per evitare preoccupazioni per la sostenibilità fiscale, è importante che il governo proceda costantemente con riforme strutturale”.
Insomma, la scommessa di Kuroda-san è tutta qua: scongelare trilioni di yen fermi in banca e fornirne altri, far ripartire il credito (e quindi i debiti) per rilanciare l’economia tramite consumi e investimenti, visto che peraltro il saldo commerciale va maluccio. Tutto ciò al rischio di una crisi bancaria stile anni ’90 e il collasso dei conti pubblici.