Etichettato: La società a costo marginale zero
Le metamorfosi dell’economia: la scomparsa della disoccupazione
Non ho fatto in tempo a leggere La terza rivoluzione industriale, pubblicato qualche tempo fa da Jeremy Rifkin, e per fortuna, mi dico, visto che nel frattempo molti dicono che è arrivata la quarta. Ne trovo traccia in epigrafe in un tomo pubblicato a gennaio scorso dal World Economic Forum (WEF) intitolato The future of jobs, che sembra faccia il verso a un altro libro di Rifkin scritto una ventina di anni fa che si intitolava La fine del lavoro. Sarà mica che la fine del lavoro preconizzata dalla terza rivoluzione industriale di Rifkin coincide col futuro ipotizzato nella quarta dal WEF?
Queste fantasiose titolazioni mi mostrano con grande chiarezza che molti percepiscano che l’economia è agli albori di un profonda metamorfosi, che il veloce procedere delle informazioni rende difficile osservare e comprendere. Ma forse ciò dipende anche dal fatto che osserviamo gli eventi anziché provare a incorniciarli in un nuovo contratto sociale, per usare una vecchia espressione.
Perciò mi aspetto che l’anno prossimo qualcuno annuncerà la quinta o la sesta rivoluzione industriale. Che però rischia di rimanere puro esercizio retorico, come in fondo è la quarta, se non ci sarà un profondo ripensamento delle fondamenta del nostro agire socio-economico. A un cambio di paradigma, come auspicano in tanti, a cominciare dal solito Rifkin.
Senonché, l’esperienza insegna che tali cambiamenti avvengono solo una volta che le società siano pronti a digerirli. A un certo momento – quello più vicino a noi è stato l’affermarsi delle idee keynesiane negli anni ’30 – qualcuno dice o scrive qualcosa che, magicamente, convince chi si trova nella posizione di decidere. Il libro giusto, scritto dall’uomo giusto, letto dalle persone giuste, diventa improvvisamente un meccanismo sociale giusto. La storia è piena di esempi del genere ed è inutile riproporli qui.
Un cambio di paradigma usualmente risponde a un preciso bisogno sociale, come fu per il sistema keynesiano l’uscita dalla depressione degli anni ’30. In quel tempo i decisori stabilirono che lo scopo della politica economica fosse la piena occupazione, perché le società avevano mostrato di non essere in grado di reggere, pena profondi scompensi, una lunga e ampia disoccupazione. Tale cambio di visuale è stata raccontata in molti scritti.
Il fatto che oltre 80 anni dopo siamo ancora a questo presupposto, vuol dire che le nostre società assegnano alla sicurezza sociale, che deriva dall’essere le persone occupate, un valore ancora rilevante. E ciò spiega il proliferare di tomi come quello del WEF, che è solo l’ultimo della lunga serie prodotta in questi decenni da parte di ricercatori e osservatori internazionali.
La questione di come risolvere il problema della disoccupazione, stando così le cose, può essere affrontata seguendo due percorsi: o si trovano nuove strategie per aumentare l’occupazione all’intero del paradigma esistente, che definisce il lavoro in un certo modo, o si cambia l’idea stessa di lavoro. Nel primo caso ci si muove all’interno di un sistema consolidato – la famosa mentalità tradizionale -, nel secondo si innova il paradigma.
Solo la storia potrà dirci se siamo maturi per un cambio di paradigma oppure no. Può essere però interessante provare a figurarsi come, tale cambio, potrebbe articolarsi. Questo sforzo di immaginazione è il sale dell’evoluzione e va esercitato con giudizio e senza deliri di onnipotenza: non si dovrebbe pretendere di cambiare il mondo, ma solo ricordare al mondo che può (e deve) cambiare.
La premessa serve a motivare una prima semplice conclusione: il futuro del lavoro cui dovremmo tendere, per citare il tomo del WEF, non può che essere un cambiamento del concetto di lavoro che conduca alla definitiva scomparsa della disoccupazione dalle nostre società. La disoccupazione, come categoria sociale prima ancora che statistica (le due cose non sono uguali), è una diretta conseguenza dell’idea di lavoro che abbiamo istituzionalizzato negli ultimi trecento anni. Un’idea figlia quindi di un paradigma economico che adesso intravede la quarta (finora) rivoluzione industriale ma che ancora non sa guardare oltre le sue stesse colonne d’Ercole.
Nel caso della disoccupazione, le colonne d’Ercole, sono la mancanza di reddito, che la disoccupazione provoca, e la mancanza di motivazione sociale di una persona senza lavoro. Superare queste colonne d’Ercole significa individuare un modello sociale – tutte le costruzioni economiche lo sono – in cui sia estremamente difficile essere privi di un reddito, che sarebbe più giusto definire potere d’acquisto, e di una motivazione sociale. Ciò implica far corrispondere al diritto a una retribuzione il dovere a una partecipazione.
Prima di andare avanti, tuttavia, dobbiamo conoscere meglio cosa ci prospettano gli osservatori per capire se nel futuro che immaginano siano già evidenti i lineamenti di un tempo capace di essere diverso. L’analisi della realtà è un ottimo spunto per immaginarne un’altra.
Leggo perciò il tomo del WEF e scopro alcune cose. A parte che siamo nella quarta rivoluzione industriale, osservo che i driver di questa rivoluzione vengono individuati nella genetica, l’intelligenza artificiale, la robotica, le nanotecnologie, le stampanti 3D “solo per dirne alcune” che insieme coopereranno per l’evoluzione di “smart system -case intelligenti, fabbriche, aziende agricole, reti o città- che contribuiranno a risolvere i problemi che vanno dalla gestione della supply chain al cambiamento climatico. La crescita dell’economia della condivisione permetterà alle persone di monetizzare tutto, dalla loro casa vuota alla propria auto”.
Questa visione vagamente new age, che ricorda sempre Rifkin nel suo ultimo libro La società a costo marginale zero, cozza con l’organizzazione economica esistente: “I modelli di consumo, produzione e occupazione rappresentano anche le principali sfide che richiedono un adattamento proattivo da parte di aziende, governi e singoli individui”. Ed è proprio sule modalità di tale cambiamento che si gioca la partita del nostro futuro.
Nella visione del WEF i cambiamenti che investiranno la società riguarderanno sostanzialmente natura e scopi del lavoro. “Mentre alcuni posti di lavoro sono minacciati dalla ridondanza e altri crescono rapidamente, i posti di lavoro esistenti sono soggetti a una modifica del set di competenze necessarie per svolgersi”. Ciò lascia immaginare che, sempre seguendo questa visione, i cambiamenti investiranno la categoria del lavoratore più che il lavoro stesso. Non a caso il dibattito si è polarizzato fra coloro che vedono un’infinità di nuove opportunità e chi invece teme una distruzione massiccia di posti di lavoro.
Tutto ciò serve a inquadrare il punto di vista degli autori. Non è l’idea di lavoro ciò di cui si discute, ma di come il lavoratore debba attrezzarsi per affrontare la sfida del lavoro del futuro. Come l’offerta di lavoro debba corrisponde all’evoluzione della domanda. Si tratta perciò di una visione puramente datoriale. “Il reskilling e l’upskilling dei lavoratori esistenti sarà critico per prevenire lo scenario peggiore”, scrivono ancora. Non siamo poi così lontani dalle questioni sollevate dal luddismo d’inizio XIX secolo.
Il dataset sul quale è stato costruito il rapporto, infatti, è stato elaborato sulla base di una survey condotta sui responsabili delle risorse umane e altri manager di numerose grandi aziende che danno lavoro a circa 13 milioni di persone, articolate lungo nove diversi settori industriali e in quindici economie avanzate. Quindi parliamo di opinioni dell’industria. O meglio, di cosa l’industria pensa di aver bisogno per continuare a garantire occupazione. Sottolineo che fare affidamento sui produttori per avere occupazione è uno dei capisaldi teorici del nostro modello economico da almeno tre secoli. Questo non vuol dire che debba essere l’unico, né che non possa cambiare.
E tuttavia alcune osservazioni sono assai utili. Capire l’identikit del lavoratore del futuro, come almeno la immaginano questi scienziati, aggiunge alcune informazioni alla nostra conoscenza.
La prima informazione, che sarebbe più corretto definire percezione di chi risponde, è che in cima alle tendenze che si ritiene guideranno il cambiamento del lavoro ci stanno proprio il cambiamento della natura del lavoro e la sua flessibilizzazione, mentre. Dal lato tecnologico, si prevede lo sviluppo dell’internet mobile e del cloud, che sta poco sopra lo sviluppo dell’utilizzo dei Big Data. Gli intervistati immaginano un mondo dove il lavoro si sposterà sempre più dall’ufficio a casa, con forme contrattuali che andranno sempre più ad allentare il rapporto fra datore e lavoratore. Quindi già in questo si osserva un’evoluzione della forma tradizionale.
Un’altra informazione interessante è quella relativa agli effetti del cambiamenti sull’impiego del futuro, orizzonte 2015-2020, suddivisi per famiglie professionali. L’outlook più positivo lo spunta il settore computer&matematica, il peggiore il settore office&amministrazione. Il manifatturiero&produzione è il secondo peggior classificato. Il settore arte, design, intrattenimento, sport e media, il terzo. Notevole che il settore business&finance si preveda sostanzialmente piatto. Il risultato migliore, al suo interno, lo raggiunge il sotto settore sharing economy&crowdsourcing.
Prima di andare avanti facciamoci una semplice domanda: il fatto che ci sono (come ci sono sempre stati) settori più o meno attrattivi, significa che dobbiamo rassegnarci a essere come ci vogliono, o possiamo sperare in un società che favorisce lo sviluppo delle persone, oltre che delle fabbriche? Detto in soldoni, se ho la passione per lo sport, devo mettermi a studiare matematica per avere la possibilità di lavorare o posso coltivare la mia passione senza morire di fame visto che impensabile che lo sport dia lavoro a chiunque? Molti risponderebbero di no. Ma, vedete, è proprio questo il punto. Per parafrasare un celebre detto, forse è il momento di non chiedersi più (o almeno non solo) cosa voglia il sistema da noi, ma di chiedersi cosa vogliamo noi dal sistema.
E così arriviamo alla terza informazione interessante. Nell’insieme dei paesi considerati si prevede una perdita di posti di lavoro, fino al 2020, di oltre sette milioni, il grosso dei quali nell’office&administrative (4,7 milioni) e nel manufatturiero e produzione (1,6 milioni). A fronte di questo sterminio, ci sono i 492 mila posti che dovrebbe creare il business&financial, i 416 mila del management, i 405 mila del computer&math. Insomma: i settori col migliore outlook, non sono poi così inclusivi, visto che non coprono, tutti insieme, neanche un settimo dei lavori che andranno persi.
Il combinato disposto di queste informazioni dice una cosa molto semplice: se vorrai avere un lavoro non solo dovrai specializzarti in quello che serve ai decisori, ma dovrai anche essere estremamente bravo per riuscire a farti assumere. Ma ricordate: questo è quello che immaginano i datori di lavoro (Il tomo del Wef, peraltro, è orientato sul settore privato) che al momento sono di due tipi: i privati e il pubblico. Entrambi condividono uno schema organizzativo simile articolato sul binomio prestazione/retribuzione, pure con le differenze che abbiamo già esaminato.
E’ evidente che questo scenario è del tutto incompatibile col desiderio di sicurezza che, abbiamo detto, promana dalla società. Il binomio pubblico/privato basato sullo schema prestazione/retribuzione è naturalmente destinato a entrare in crisi, e non solo perché le macchine rubano il lavoro, come dicono i neoluddisti, ma perché le previsioni demografiche intravedono una costante diminuzione delle persone in età di lavoro a fronte di un aumento dei pensionati.
Delle due l’una perciò: o le società evolvono nel senso di accettare un pletora di disoccupati, più o meno sussidiati con quello che Bertrand Russel chiamava “il salario del vagabondo”. O le società evolvono verso un nuovo modo di concepire il lavoro, dove i due binomi tradizionali vengano ampliati fino coesistere con una nuova organizzazione sociale, che non potrà che influenzare anche la previdenza.
Invece della scomparsa dell’occupazione, che tutti paventano, si andrebbe verso quella della disoccupazione, che tutti dicono di volere.
E volere è potere, dicevano gli antichi.
(11/segue)
Il capitalismo morirà di vecchiaia
Se chiamiamo capitalismo il modo in cui si è organizzata nel tempo la nostra vicenda socioeconomica, allora mi convinco sempre più che non serviranno rivoluzioni per cambiare le nostre società. Il capitalismo, che si evolve come un qualunque organismo socioeconomico, morirà di morte naturale, quindi di vecchiaia, come un qualunque organismo biologico, rimanendo ironicamente vittima del suo successo.
Chi guarda all’economia come a un processo di evoluzione istituzionale non rimarrà sorpreso. Chi ancora legge Sombart e la straordinaria epopea del suo Il capitalismo moderno, sa bene che tale organizzazione socioeconomica per la quale proprio lo studioso tedesco inaugurò per l’accademia il nome di capitalismo, ha conosciuto una lunga evoluzione nel corso dei secoli che al tempo in cui scriveva, siamo nei primi venti anni del XX secolo, culminava nel tardo capitalismo, dopo aver attraversato il primo capitalismo e il capitalismo maturo. Dai tempi di Sombart, l’evoluzione ovviamente ha proseguito il suo cammino e ormai siamo entrati in quello che potremmo definire il capitalismo senescente.
Non serve essere sociologi, per capirlo. Basta osservare un po’ di statistiche demografiche e qualche tavola attuariale. Il segno del nostro tempo, ad esse riferito, mostra un crescente innalzamento dell’età delle popolazioni, in parte provocato dalla diminuita mortalità infantile, in parte dai miglioramenti sociali di cui godono i più anziani, indubitabili successo del capitalismo, che ha generato però nel tempo un vero e proprio rischio di longevità, come lo ha definito qualche giorno fa il governatore di Bankitalia Ignazio Visco in una Lectio Magistralis tenuta all’università di Trieste (Il rischio di longevità e i cambiamenti dell’economia) che gli ha conferito la laurea ad honorem in scienza statistiche ed attuariali.
Parrà strano a molti che non coltivano l’amore per il paradosso che il culmine del successo segni il prologo della rovina. Però è così che va il mondo: più in alto si sale, più aumenta il rischio di farsi male quando si cade. E il rischio di longevità, che potremmo intendere come il fatto che non sappiamo quanto siano attendibili gli strumenti di previsione demografici, rappresenta proprio il rischio di caduta di fronte al quale le nostre società si trovano di fronte dovendo fare i conti con coorti di popolazioni senza più anziane.
Per capirlo meglio servono un po’ di noiosi numeri, che per fortuna abbondano nella lezione di Visco. Citando Angus Maddison, storico dell’economia mondiale, Visco ci ricorda che “tra l’anno 1000 e l’anno 1820 l’aspettativa di vita alla nascita sarebbe aumentata da 24 a 36 anni, ovvero di soli 12 anni, per poi salire a 46 anni nel 1900, 66 nel 1950, 78 alla fine del Novecento”.
Nei paesi avanzati l’aspettativa di vita dalla nascita è aumentata di altri tre anni nell’ultimo decennio, il che ci porta alle stime più recenti delle Nazioni Unite, secondo le quali l’età di morte arriverà a 90 entro il 2100, col picco di 95 per l’Italia. Nei paesi meno avanzati il processo procede altresì, ma più lentamente. Negli ultimi 15 anni è arrivata a 70 anni e dovrebbe salire di altri 11 entro la fine del XXI secolo. Si osserva inoltre che “il miglioramento della speranza di vita tra il 1950 e il 2015 è stato ancora maggiore per le età fino ai 90 anni; per quelle comprese tra i 70 e gli 80, è stato persino superiore all’incremento registrato dalla speranza di vita alla nascita”.
Fra i driver del processo di invecchiamento c’è anche la diminuzione della natalità, che l’Onu vede in calo da 2,5 a 2 bambini per donna. Ma questa previsione, come tutte quelle che accompagnano le proiezioni demografiche, nasconde grande incertezza. E questo, lo vedremo poi, è uno dei problemi.
Nel complesso la popolazione mondiale dovrebbe crescere dagli attuali 7,3 miliardi a 9,7, per superare gli 11 miliardi entro la fine del secolo. Nei paesi più sviluppati dovrebbe rimanere stabile, a 1,3 miliardi calando percentualmente dal 17% del totale della popolazione mondiale di oggi all’11% del 2100. Il grosso della crescita, quindi, si registrerà nei paesi meno sviluppati.
Il combinato di queste tendenze determinerà un aumento sensibile del peso assoluto degli anziani rispetto ai giovani e l’immigrazione servirà poco a invertire questa tendenza. Gli ultra65enni, che oggi sono circa 600 milioni, supereranno il miliardo e mezzo nel 2050 e i due miliardi e mezzo a fine secolo. Anche qui, l’incremento più corposo sarà nei paesi meno avanzati che passeranno da 390 milioni a 2,2 miliardi. In Italia si passerà dagli attuali 13 milioni a 20 milioni nel 2050 per poi scendere a 17 milioni a fine secolo.
Ora il problema non risiede tanto nei valori assoluti, ma nel loro valore relativo rispetto alla popolazione in età lavorativa. Gli ultra65enni sono oggi il 14% di chi lavora, arriveranno al 30% nel 2050 e supereranno il 40% nel 2100. Nei paesi sviluppati tale incremento passerà dal 29% attuale, al 50% nel 2050 e al 58% a fine secolo. Nei paesi meno sviluppati le percentuali corrispondenti sono l’11%, il 26% e il 41%. In Italia “tra oggi e la metà del secolo l’incremento del rapporto tra persone di 65 anni o più e persone in età lavorativa sarà eccezionale, quasi raddoppiando, dal 38 per cento al 74, per poi rimanere pressoché invariato”.
Ciò vuol dire che “per ogni persona di 65 anni o più ci sono oggi nel mondo quattro
“giovani” di età inferiore a 20 anni; nel 2050 ce ne saranno meno di due, a fine secolo uno solo. Nei paesi più sviluppati, il rapporto, già oggi di poco superiore all’unità, scenderà già a metà secolo a solo 0,8”. In sostanza saranno più gli anziani, presumibilmente pensionati, che i lavoratori che dovrebbero sostenerli.
Queste previsioni, che già sollevano inquientanti sfide organizzative per le società capitalistiche, devono fare i conti con un rischio che non è possibile quantificare: ossia che siano sbagliate. E poiché è “particolarmente sorprendente il progressivo e ampio miglioramento della mortalità alle età più avanzate”, ciò vuol dire che il rischio è che siano sottostimate. “Ciò ci porta a discutere le difficoltà che si incontrano nel prevedere la longevità”, spiega Visco, ed è facile capire perché.
Variazioni inattese delle tendenze di mortalità provocano, ad esempio, problemi assicurativi: “Nel caso in cui gli anni effettivi di vita degli individui appartenenti a una stessa coorte superino quelli attesi in media, avremo un rischio di longevità che non può essere diversificato tra questi individui, poiché colpisce allo stesso modo l’intero gruppo dei potenziali assicurati”.
Tale rischio si aggrava considerando che “le agenzie nazionali di statistica dei paesi avanzati sembrano avere sistematicamente sotto-previsto i miglioramenti nella speranza di vita, comportando significative sottovalutazioni del numero degli anziani, soprattutto dei più vecchi”.
Il problema quindi, da sociale, diventa tecnico. Visco spiega che le previsioni della mortalità vengono costruiti seguendo tre diversi tipi di approcci, dalle serie storiche ai modelli matematici. L’industria finanziaria basa gran parte delle sue previsioni sulle serie temporali, ma l’uso di modelli si è rivelato di migliore qualità predittiva, contribuendo perciò a raffinare la ricerca in questo campo. Ma ovviamente ciò non ha eliminato il rischio di errori, che hanno conseguenze anche gravi sulla stabilità finanziaria.
Uno studio recente relativo al mercato delle rendite in Slovenia ha mostrato che le tavole di mortalità a cui l’industria assicurativa deve attenersi tendono a sotto prevedere la riduzione della mortalità nel tempo, esponendosi quindi al rischio che i premi versati dagli assicurati, che corrispondono a rendite vitalizie, siano sottostimati. Uno studio Ocse del 2014 mostra che in diversi paesi avanzati ha mostrato come “l’uso di tavole di mortalità che non tengano adeguatamente conto dei miglioramenti
prevedibili possono comportare il rischio di consistenti squilibri nei bilanci delle istituzioni finanziarie che erogano rendite”.
Scopriamo così che il rischio di longevità, inteso come possibilità che l’età media cresca più di quanto oggi possiamo prevedere, è una componente inedita del rischio finanziario. Ma non solo. “La longevità è essa stessa fonte di notevoli effetti, che spaziano dagli impatti sull’offerta di lavoro e sul suo tasso di utilizzo a quelli relativi a conti pubblici e risparmio”. Ed ecco l’ironia: siamo felici perché viviamo di più, ma scopriamo che ciò potrebbe renderci infelici. Tanto più in un contesto ove “l’aumento della longevità si sovrappone e interagisce non solo con la tendenza calante della natalità ma anche con altre due grandi forze strutturali che stanno cambiando l’economia come la globalizzazione dei mercati e le tecnologie dell’informazione e della comunicazione”. Tutto ciò si aggrava perché “quando si verifica una netta discontinuità rispetto al passato, le dinamiche passate possono non essere più in grado di fornire un valido riferimento per prevedere il futuro”.
E che tale discontinuità si sia già verificata sembra fuor di dubbio.
Così il capitalismo senescente ci sta lentamente transitando verso una terra incognita, dove le vecchie categoria economiche hanno perso senso. In tal senso dovremmo attrezzarci per mettere in piedi tutti i cambiamenti istituzionali necessari, che richiedono tempo, e prepararci a un’evoluzione del nostro pensiero.
Il primo banco di prova è davanti ai nostri occhi: i sistemi pensionistici. Visco ci ricorda che “nel corso dell’ultimo decennio diversi interventi di politica economica hanno mirato al rafforzamento dei sistemi pensionistici pubblici e allo sviluppo di forme di previdenza complementari a contribuzione definita”. Ma, ciò malgrado, “la strada verso sistemi che assicurino pensioni adeguate e sicure è ancora molto lunga”.
In futuro sembra ineludibile lavorare sulla sostenibilità finanziaria delle pensioni pubbliche, ma al tempo stesso occorre “assicurare le condizioni affinché le forme pensionistiche complementari siano in grado di generare per i lavoratori redditi da pensione adeguati”. Il primo esito osservabile è la graduale sostituzione dei sistemi a prestazione definita a quelli a contribuzione definita. La differenza è molto semplice: i primi assicurano una rendita fissa al sottoscrittore, i secondi di sicuro hanno solo la somma che l’iscritto versa, mentre la rendita è aleatoria. In pratica, il pensionato “è esposto sia al rischio di longevità sia ai rischi finanziari connessi con l’investimento dei contributi previdenziali in attività finanziarie; inoltre, al momento del pensionamento deve provvedere alla conversione di almeno parte del capitale accumulato in rendita vitalizia”.
A fronte di questa aumentata incertezza, il futuro pensionato dovrà fare i conti con le crescenti fragilità dei sistemi pensionistici pubblici “soggetti a margini di incertezza significativi” in economie dove “gli spazi di manovra per il finanziamento della spesa pensionistica si è ridotto a causa del sensibile aumento del debito pubblico”. Economie, peraltro, soggette a un rallentamento economico che qualcuno paventa come secolare e dove i giovani, ossia i pensionati del futuro, “tendono sempre più ad avere carriere discontinue”. Il che ha ricadute evidente sui flussi di contribuzione alle pensioni pubbliche.
Tutto ciò spiega perché ormai in tutte le sedi si afferma che sarà necessario “lavorare di più, in più e più a lungo”. Il che, in un modo che ancora non conosciamo, cambierà il senso economico stesso dell’istituto pensionistico, che come ogni cosa ha un inizio, che risale a poco più di un secolo fa, e potrebbe avere una fine, almeno come lo conosciamo.
Dovremmo preoccuparci? Sarebbe più saggio occuparcene. “Un recente rapporto dell’Ocse sui sistemi pensionistici dei paesi avanzati – ricorda Visco – mette in luce
l’importanza di misure volte a riconoscere contributi previdenziali a lavoratori che
interrompono l’attività di lavoro per vari motivi (maternità, disoccupazione, formazione o altro), così da evitare un calo del futuro reddito da pensione”. Ma, in generale, dovremmo adottare un atteggiamento pragmatico e non ideologico. Essere pronti all’inconsueto coltivando un ragionevole ottimismo, ricordando che l’invecchiamento della popolazione, ossia ciò che abbiamo più o meno consciamente perseguito nel tempo, “ha un impatto profondo sulla struttura dell’economia e del sistema finanziario”. E’ capace addirittura di provocare un cambio di paradigma.
La storia testimonia che è già successo. Come ci ricorda Sombart, la transizione dall’economia medievale a quella del primo capitalismo fu una fioritura per l’umanità, generando, come ogni fioritura, piante benigne e piante maligne, ma che ci ha condotto fino a qui, in un mondo con molte ombre, ma anche con molte luci, che dovrebbe incoraggiarci al miglioramento al quale dovremmo ambire e possiamo aspirare, senza che ciò sia capace, purtroppo, di provocare il contrario.
Parafrasando Sismondi, economista purtroppo poco ricordato del XIX secolo, non dovremmo desiderare ciò che è stato, ma volere qualcosa di meglio di ciò che è. Come ha fatto di recente Jeremy Rifkin nel suo libro La società a costo marginale zero, dove immagina che il tramonto del capitalismo condurrà allo sviluppo dell’economia del commons collaborativo.
Insomma, il capitalismo sembra morirà di vecchiaia, o meglio, a causa della vecchiaia delle sue popolazioni. Evviva il capitalismo.
