Le metamorfosi dell’economia: la scomparsa della disoccupazione

Non ho fatto in tempo a leggere La terza rivoluzione industriale, pubblicato qualche tempo fa da Jeremy Rifkin, e per fortuna, mi dico, visto che nel frattempo molti dicono che è arrivata la quarta. Ne trovo traccia in epigrafe in un tomo pubblicato a gennaio scorso dal World Economic Forum (WEF) intitolato The future of jobs, che sembra faccia il verso a un altro libro di Rifkin scritto una ventina di anni fa che si intitolava La fine del lavoro. Sarà mica che la fine del lavoro preconizzata dalla terza rivoluzione industriale di Rifkin coincide col futuro ipotizzato nella quarta dal WEF?

Queste fantasiose titolazioni mi mostrano con grande chiarezza che molti percepiscano che l’economia è agli albori di un profonda metamorfosi, che il veloce procedere delle informazioni rende difficile osservare e comprendere. Ma forse ciò dipende anche dal fatto che osserviamo gli eventi anziché provare a incorniciarli in un nuovo contratto sociale, per usare una vecchia espressione.

Perciò mi aspetto che l’anno prossimo qualcuno annuncerà la quinta o la sesta rivoluzione industriale. Che però rischia di rimanere puro esercizio retorico, come in fondo è la quarta, se non ci sarà un profondo ripensamento delle fondamenta del nostro agire socio-economico. A un cambio di paradigma, come auspicano in tanti, a cominciare dal solito Rifkin.

Senonché, l’esperienza insegna che tali cambiamenti avvengono solo una volta che le società siano pronti a digerirli. A un certo momento – quello più vicino a noi è stato l’affermarsi delle idee keynesiane negli anni ’30 – qualcuno dice o scrive qualcosa che, magicamente, convince chi si trova nella posizione di decidere. Il libro giusto, scritto dall’uomo giusto, letto dalle persone giuste, diventa improvvisamente un meccanismo sociale giusto. La storia è piena di esempi del genere ed è inutile riproporli qui.

Un cambio di paradigma usualmente risponde a un preciso bisogno sociale, come fu per il sistema keynesiano l’uscita dalla depressione degli anni ’30. In quel tempo i decisori stabilirono che lo scopo della politica economica fosse la piena occupazione, perché le società avevano mostrato di non essere in grado di reggere, pena profondi scompensi, una lunga e ampia disoccupazione. Tale cambio di visuale è stata raccontata in molti scritti.

Il fatto che oltre 80 anni dopo siamo ancora a questo presupposto, vuol dire che le nostre società assegnano alla sicurezza sociale, che deriva dall’essere le persone occupate, un valore ancora rilevante. E ciò spiega il proliferare di tomi come quello del WEF, che è solo l’ultimo della lunga serie prodotta in questi decenni da parte di ricercatori e osservatori internazionali.

La questione di come risolvere il problema della disoccupazione, stando così le cose, può essere affrontata seguendo due percorsi: o si trovano nuove strategie per aumentare l’occupazione all’intero del paradigma esistente, che definisce il lavoro in un certo modo, o si cambia l’idea stessa di lavoro. Nel primo caso ci si muove all’interno di un sistema consolidato – la famosa mentalità tradizionale -, nel secondo si innova il paradigma.

Solo la storia potrà dirci se siamo maturi per un cambio di paradigma oppure no. Può essere però interessante provare a figurarsi come, tale cambio, potrebbe articolarsi. Questo sforzo di immaginazione è il sale dell’evoluzione e va esercitato con giudizio e senza deliri di onnipotenza: non si dovrebbe pretendere di cambiare il mondo, ma solo ricordare al mondo che può (e deve) cambiare.

La premessa serve a motivare una prima semplice conclusione: il futuro del lavoro cui dovremmo tendere, per citare il tomo del WEF, non può che essere un cambiamento del concetto di lavoro che conduca alla definitiva scomparsa della disoccupazione dalle nostre società. La disoccupazione, come categoria sociale prima ancora che statistica (le due cose non sono uguali), è una diretta conseguenza dell’idea di lavoro che abbiamo istituzionalizzato negli ultimi trecento anni. Un’idea figlia quindi di un paradigma economico che adesso intravede la quarta (finora) rivoluzione industriale ma che ancora non sa guardare oltre le sue stesse colonne d’Ercole.

Nel caso della disoccupazione, le colonne d’Ercole, sono la mancanza di reddito, che la disoccupazione provoca, e la mancanza di motivazione sociale di una persona senza lavoro. Superare queste colonne d’Ercole significa individuare un modello sociale – tutte le costruzioni economiche lo sono – in cui sia estremamente difficile essere privi di un reddito, che sarebbe più giusto definire potere d’acquisto, e di una motivazione sociale. Ciò implica far corrispondere al diritto a una retribuzione il dovere a una partecipazione.

Prima di andare avanti, tuttavia, dobbiamo conoscere meglio cosa ci prospettano gli osservatori per capire se nel futuro che immaginano siano già evidenti i lineamenti di un tempo capace di essere diverso. L’analisi della realtà è un ottimo spunto per immaginarne un’altra.

Leggo perciò il tomo del WEF e scopro alcune cose. A parte che siamo nella quarta rivoluzione industriale, osservo che i driver di questa rivoluzione vengono individuati nella genetica, l’intelligenza artificiale, la robotica, le nanotecnologie, le stampanti 3D “solo per dirne alcune” che insieme coopereranno per l’evoluzione di “smart system -case intelligenti, fabbriche, aziende agricole, reti o città- che contribuiranno a risolvere i problemi che vanno dalla gestione della supply chain al cambiamento climatico. La crescita dell’economia della condivisione permetterà alle persone di monetizzare tutto, dalla loro casa vuota alla propria auto”.

Questa visione vagamente new age, che ricorda sempre Rifkin nel suo ultimo libro La società a costo marginale zero, cozza con l’organizzazione economica esistente: “I modelli di consumo, produzione e occupazione rappresentano anche le principali sfide che richiedono un adattamento proattivo da parte di aziende, governi e singoli individui”. Ed è proprio sule modalità di tale cambiamento che si gioca la partita del nostro futuro.

Nella visione del WEF i cambiamenti che investiranno la società riguarderanno sostanzialmente natura e scopi del lavoro. “Mentre alcuni posti di lavoro sono minacciati dalla ridondanza e altri crescono rapidamente, i posti di lavoro esistenti sono soggetti a una modifica del set di competenze necessarie per svolgersi”. Ciò lascia immaginare che, sempre seguendo questa visione, i cambiamenti investiranno la categoria del lavoratore più che il lavoro stesso. Non a caso il dibattito si è polarizzato fra coloro che vedono un’infinità di nuove opportunità e chi invece teme una distruzione massiccia di posti di lavoro.

Tutto ciò serve a inquadrare il punto di vista degli autori. Non è l’idea di lavoro ciò di cui si discute, ma di come il lavoratore debba attrezzarsi per affrontare la sfida del lavoro del futuro. Come l’offerta di lavoro debba corrisponde all’evoluzione della domanda. Si tratta perciò di una visione puramente datoriale. “Il reskilling e l’upskilling dei lavoratori esistenti sarà critico per prevenire lo scenario peggiore”, scrivono ancora. Non siamo poi così lontani dalle questioni sollevate dal luddismo d’inizio XIX secolo.

Il dataset sul quale è stato costruito il rapporto, infatti, è stato elaborato sulla base di una survey condotta sui responsabili delle risorse umane e altri manager di numerose grandi aziende che danno lavoro a circa 13 milioni di persone, articolate lungo nove diversi settori industriali e in quindici economie avanzate. Quindi parliamo di opinioni dell’industria. O meglio, di cosa l’industria pensa di aver bisogno per continuare a garantire occupazione. Sottolineo che fare affidamento sui produttori per avere occupazione è uno dei capisaldi teorici del nostro modello economico da almeno tre secoli. Questo non vuol dire che debba essere l’unico, né che non possa cambiare.

E tuttavia alcune osservazioni sono assai utili. Capire l’identikit del lavoratore del futuro, come almeno la immaginano questi scienziati, aggiunge alcune informazioni alla nostra conoscenza.

La prima informazione, che sarebbe più corretto definire percezione di chi risponde, è che in cima alle tendenze che si ritiene guideranno il cambiamento del lavoro ci stanno proprio il cambiamento della natura del lavoro e la sua flessibilizzazione, mentre. Dal lato tecnologico, si prevede lo sviluppo dell’internet mobile e del cloud, che sta poco sopra lo sviluppo dell’utilizzo dei Big Data. Gli intervistati immaginano un mondo dove il lavoro si sposterà sempre più dall’ufficio a casa, con forme contrattuali che andranno sempre più ad allentare il rapporto fra datore e lavoratore. Quindi già in questo si osserva un’evoluzione della forma tradizionale.

Un’altra informazione interessante è quella relativa agli effetti del cambiamenti sull’impiego del futuro, orizzonte 2015-2020, suddivisi per famiglie professionali. L’outlook più positivo lo spunta il settore computer&matematica, il peggiore il settore office&amministrazione. Il manifatturiero&produzione è il secondo peggior classificato. Il settore arte, design, intrattenimento, sport e media, il terzo. Notevole che il settore business&finance si preveda sostanzialmente piatto. Il risultato migliore, al suo interno, lo raggiunge il sotto settore sharing economy&crowdsourcing.

Prima di andare avanti facciamoci una semplice domanda: il fatto che ci sono (come ci sono sempre stati) settori più o meno attrattivi, significa che dobbiamo rassegnarci a essere come ci vogliono, o possiamo sperare in un società che favorisce lo sviluppo delle persone, oltre che delle fabbriche? Detto in soldoni, se ho la passione per lo sport, devo mettermi a studiare matematica per avere la possibilità di lavorare o posso coltivare la mia passione senza morire di fame visto che impensabile che lo sport dia lavoro a chiunque? Molti risponderebbero di no. Ma, vedete, è proprio questo il punto. Per parafrasare un celebre detto, forse è il momento di non chiedersi più (o almeno non solo) cosa voglia il sistema da noi, ma di chiedersi cosa vogliamo noi dal sistema.

E così arriviamo alla terza informazione interessante. Nell’insieme dei paesi considerati si prevede una perdita di posti di lavoro, fino al 2020, di oltre sette milioni, il grosso dei quali nell’office&administrative (4,7 milioni) e nel manufatturiero e produzione (1,6 milioni). A fronte di questo sterminio, ci sono i 492 mila posti che dovrebbe creare il business&financial, i 416 mila del management, i 405 mila del computer&math. Insomma: i settori col migliore outlook, non sono poi così inclusivi, visto che non coprono, tutti insieme, neanche un settimo dei lavori che andranno persi.

Il combinato disposto di queste informazioni dice una cosa molto semplice: se vorrai avere un lavoro non solo dovrai specializzarti in quello che serve ai decisori, ma dovrai anche essere estremamente bravo per riuscire a farti assumere. Ma ricordate: questo è quello che immaginano i datori di lavoro (Il tomo del Wef, peraltro, è orientato sul settore privato) che al momento sono di due tipi: i privati e il pubblico. Entrambi condividono uno schema organizzativo simile articolato sul binomio prestazione/retribuzione, pure con le differenze che abbiamo già esaminato.

E’ evidente che questo scenario è del tutto incompatibile col desiderio di sicurezza che, abbiamo detto, promana dalla società. Il binomio pubblico/privato basato sullo schema prestazione/retribuzione è naturalmente destinato a entrare in crisi, e non solo perché le macchine rubano il lavoro, come dicono i neoluddisti, ma perché le previsioni demografiche intravedono una costante diminuzione delle persone in età di lavoro a fronte di un aumento dei pensionati.

Delle due l’una perciò: o le società evolvono nel senso di accettare un pletora di disoccupati, più o meno sussidiati con quello che Bertrand Russel chiamava “il salario del vagabondo”. O le società evolvono verso un nuovo modo di concepire il lavoro, dove i due binomi tradizionali vengano ampliati fino coesistere con una nuova organizzazione sociale, che non potrà che influenzare anche la previdenza.

Invece della scomparsa dell’occupazione, che tutti paventano, si andrebbe verso quella della disoccupazione, che tutti dicono di volere.

E volere è potere, dicevano gli antichi.

(11/segue)

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  1. renzo

    A mio modo di vedere il cambio di paradigma più recente non è stato Keynes negli anni 30 ma Volcker che sposa strumentalmente il monetarismo a cavallo degli anni anni 80 ( bisogno sociale esposto : lotta all’inflazione ) .Dico così perche lessi che Volcker era convinto che i principi del monetarismo fossero una minchiata ma finse di crederci perchè gli servivano per applicare la politica voluta .Come anche lei poi accenna nel prosieguo ,resto tuttora legato alla mia arcaica visione che della disoccupazione non frega niente a nessuno fino a quando essa non pone problemi di tenuta alle strutture del potere politico. Concludo rivendendo un commento che lessi sul blog di Frances Coppola :Democracy without purchasing power in the modern Industrial system is a sham.

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    • Maurizio Sgroi

      Salve,
      La scelta degli anni ’80 fu politica più che paradigmatica secondo me. una decisione tecnica coerente con i modelli teorici, pure se motivata dalla ragione politica. Ma non ha segnato alcuna evoluzione nel paradigma.al contrario, negli anni ’30 la temperie keynesiana generò innovazione paradigmatica: pensi soltanto all’invenzione del pil di kuznet che incluse per la prima volta la spesa del governo nel calcolo del prodotto. ciò fece il paio con l’innovazione di usare sistematicamente la spese pubblica – asseverata teoricamente da un modello economico – per bilanciare i deficit di domanda, ossia ciò che nel passato non era neanche contemplato dal sistema teorico.
      quanto alla sua convinzione che i governi si disinteressano della disoccupazione finché non li mette a rischio, forse ha ragione, ma io la guardo in positivo: visto l’andamento del mercato del lavoro il disinteresse dei governi gioca a favore dell’evoluzione verso il mondo che mi piace immaginare: quello di un luogo dove il lavoro ha un altro significato e un diverso rapporto con la retribuzione.
      La frase finale la condivido, ma forse la finzione, o meglio rappresentazione, è lo stesso sistema democratico 🙂
      Grazie per il commento

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