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I conti di Bankitalia sui crediti deteriorati
Questione finemente politica, la gestione dei crediti deteriorati e delle sofferenze bancarie è finita in testa alle preoccupazioni dei regolatori e, a seguire, del governo, che ha varato la disciplina che ha dato origine al fondo denominato Atlante che dovrà farsi carico non solo di acquistare eventuali pacchetti di crediti deteriorati, ma anche di acquistare pacchetti azionari di banche in difficoltà.
Lavoro improbo, senza dubbio. Soprattutto perché lo stato dei crediti e delle sofferenze bancarie è parecchio complesso, causa soprattutto gli otto e passa anni di crisi. Perciò può risultare utile fare un po’ di conti approfittando di una ricognizione effettuata da Bankitalia a inizio mese, in occasione del rilascio dell’ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria.
Per rispondere alla domanda che titola lo studio (“Quanto valgono i crediti deteriorati?”) bisogna prioritariamente intendersi su alcuni concetti base, la mancata comprensione dei quali rischi di generosi notevoli equivoci. Il problema di fondo è molto semplice: esiste un gap, che può essere assai notevole, fra la valutazione che fa una banca di questi asset deteriorati e ciò che gli investitori sono disposti a pagare per rilevarli. Tale differenza si motiva per una serie di ragioni, che vanno dal modo diverso col quale le due entità prezzano questi attivi, ai rendimenti che gli acquirenti vogliono garantirsi, fino al tempo che si stima necessario per incassarli. E proprio il tempo si rivela essere una variabile strategica. “Nostre simulazioni – scrivono gli autori – mostrano che una diminuzione di due anni dei tempi di recupero comporterebbe un aumento del prezzo di mercato delle sofferenze di circa 10 punti percentuali e, a parità di altre condizioni, una riduzione significativa delle consistenze di lungo periodo degli NPLs”.
La prima domanda che dobbiamo porci è come le banche valutino questi attivi. I principi contabili internazionali (IAS-IFRS) usano valutare questi crediti secondo il criterio del costo ammortizzato, ossia attualizzando i flussi di cassa futuri originati da tali crediti nell’arco di tempo previsto dal finanziamento al tasso di interesse originario del finanziamento. L’operazione, una semplice sommatoria di flussi di cassa attualizzati, ci consente di conoscere il gross book value (GBN) di quel prestito.
Se il credito si deteriora, la banca deve valutare lo stato del debitore e decidere come considerare questi attivi nel suo bilancio. Al termine di questa valutazione, la banca stimerà dei nuovi flussi di cassa, evidentemente inferiori a quelli originari, e ripeterà la stessa operazione per conoscere quale sia il valore attuale previsto di questo credito. Così facendo avrà effettuato una rettifica di valore sull’ammontare del prestito, diminuendolo, che dovrà essere riportata nel conto economico dell’anno in cui si verifica, sul lato dei costi. Il valore del credito rettificato prende il nome di net book value (NBV). La rettifiche, R, quindi, non sono altro che la differenza fra il GBV e il NBV.
Tale operazione si inserisce lungo una linea temporale, durante la quale il credito può tornare in bonis perché magari il debitore ha trovato di che pagare, o può deteriorarsi ancora, nel qual caso il NBV è destinato a diminuire ancora. Ciò implica che la valutazione degli NPLs vari al variare dei tempo di rilevazione.
Tutto ciò ci serve a leggere con cognizione di causa la tabella che Bankitalia pubblica nello studio, che riepiloga la situazione dei crediti deteriorati alla fine del 2015. “L’elevato ammontare degli NPLs delle banche italiane – spiega la ricerca – è principalmente il risultato dell’eccezionale fase recessiva che ha colpito l’economia italiana negli ultimi anni e dei lunghi tempi delle procedure di recupero crediti. Vi ha contribuito il limitatissimo sviluppo del mercato secondario di tali crediti”. In ogni caso, il risultato è stato che le banche italiane hanno cumulato un’esposizione lorda di crediti deteriorati pari a 360 miliardi che hanno già originato rettifiche per 163. Il NBV, perciò, vale 197.
Le sofferenze vere e proprie sono un sottoinsieme dei crediti deteriorati e a dicembre 2015 valevano 210 miliardi, valore lordo, già rettificato per 123 miliardi. Il valore netto delle sofferenza, di conseguenza, quota 87 miliardi. Il tasso di copertura (coverage ratio) che trovate in tabella misura il rapporto fra le rettifiche effettuate a il GBV, quindi tanto più è elevato quanto più le banche hanno già patito perdite in bilancio sui crediti. E’ utile rilevare che le sofferenze hanno un coverage ratio di quasi il 59%.
Accanto a queste posizioni, più o meno deteriorate, e dei loro valori lordi e netti, ci sono ovviamente anche delle garanzie, che possono essere reali – ad esempio il mattone che sta sotto un mutuo – o personali. La cifra che vedete in tabella, però, va interpretata con giudizio. Il fatto che ci siano garanzie reali per 85 miliardi a fronte di 87 miliardi di crediti in sofferenza netti, non vuol dire che le sofferenze siano tutte coperte, ma solo che a fronte di quelle sofferenze ci sono valori di garanzie accordate dalle banche per 85 miliardi.
A fronte di questa situazione ci stanno quelli che tali crediti potrebbero essere interessati a rilevarli. Ma la prima difficoltà che incontrano è che il tasso di interesse al quale la banca attualizza l’esposizione non combacia con quello che questi investitori pensano di voler ricavare dall’investimento. Ciò significa che a fronte di un NBG sulle sofferenze di 87 miliardi, che si può definire come il 41% del GBV (la differenza fra 100 e il coverage ratio) c’è un prezzo di mercato X che è molto difficile conoscere. “Si sono registrati casi in cui il valore di cessione ha superato il 45% del GBV, per posizioni assistite da garanzie di elevato valore (ad esempio immobili residenziali di pregio), altri in cui è risultato pari appena al 3% del GBV (per posizioni non garantite)”.
Di conseguenza “Non è possibile, per il momento, individuare un valore medio, rappresentativo dei prezzi di mercato”. Giusto per la cronaca, è utile sapere che le sofferenze delle quattro banche entrate in crisi di recente, che quotavano un GBV di 8,5 miliardi, sono stati valutati per la cessione al 22,3% di tale valore: meno di un quarto. Ed ecco perché i titoli bancari sono sull’ottovolante e perché si spera che Atlante mitighi la volatilità.
La simulazione svolta da Bankitalia ipotizza scenari ancora più foschi. A seconda dei parametri fissati, e principalmente del tasso di interesse, un GBV di 100 potrebbe arrivare ad avere un valore contabile fino a un minimo di 16,4, che vorrebbe dire che la banca dovrebbe farsi carico di una perdita di 83,6. Questo nella peggiore delle ipotesi. Ma in ogni caso anche le stime più prudenti non sono incoraggianti: si parla di un valore di mercato che non dovrebbe superare il 24,1%.
A far dimagrire gli incassi delle banche venditrici contribuiscono anche i costi indiretti di gestione, che si stima possano arrivare fino al 6% dei flussi di cassa nominali attesi. E poi, dulcis in fundo, il tempo. Tanti più anni devo scontare tanto più basso sarà il valore attuale, come è logico che sia. Per questo la riforma dei tempi giudiziali può essere la sola variabile strategica che si può mettere in campo per mitigare l’urto sul conto economico delle banche. Senonché, come diceva Sismondi, si può obbligare un creditore a perdere i suoi crediti, ma non un debitore a pagare.
E questo, a ben vedere, è l’autentico problema.
Ultime dal Fmi: ora il problema dell’Italia è il debito privato, non quello pubblico
Arrivo alla fine del lungo racconto straordinario che il Fmi fa del nostro Paese e scopro un’evidenza che mi lascia di stucco: il problema dell’Italia versione 2015 non è più il debito pubblico, che pur essendo “esposto a diversi rischi rimane sostenibile”, ma il debito privato. Non tanto delle famiglie, che appaiono comunque fra le meno indebitate d’Europa, ma delle imprese.
Ne ho contezza grazie a un semplice procedimento artimetico: il numero di pagine dedicate alla questione del debito pubblico è assai inferiore rispetto a quelle scritte sui crediti dubbi che ancora campeggiano nelle pance delle banche e ai quali il Fmi dedica uno dei suoi selected issue, dove si prendono in esame alcune soluzioni di sistema per riparare i bilanci degli intermediari creditizi, visto che i non performing loans (NPLs) “al 17 per cento hanno raggiunto un livello sistemico, impedendo l’offerta di credito e limitano potenzialmente gli investimenti”.
Se infatti guardiamo al grafico che analizza l’offerta e la domanda di credito notiamo due cose: la prima è la scomparsa della domanda di credito, che segnala della scarsa propensione ad investire delle aziende italiane, ma anche l’inabissarsi dell’offerta. Comprensibile quando ballano circa 330 miliardi di crediti incerti. “infatti – nota il Fmi – gli investimenti privati reali sono caduti a un livello mai visto in 15 anni, rallentando drammaticamente il passo della ripresa e proiettando ombre sull’output potenziale”.
A ciò che si aggiunga che le sofferenze (in italiano nel testo) ammontano a più della metà di questi 330 miliardi. “La combinazione fra aziende sovra-indebitate, banche con bassi buffer di capitale e alti rischi, e un sistema legale che complica la ristrutturazione delle aziende e la lunghezza giudiziaria dei procedimenti e il sistema fiscale scoraggiano la svalutazione di questi Npls”, aggiunge il Fmi.
Questo ha avuto anche un pesante impatto sulle banche, che hanno visto diminuire la loro profittabilità proprio mentre la crisi ha fatto aumentare drammaticamente i crediti difficili. La conseguenza è che “malgrado la disponibilità di denaro a basso costo, le banche sono diventate molto più caute nel concedere crediti, specie per le piccole e media imprese”, ossia la grandissima maggioranza del nostro tessuto industriale.
Insomma: la diagnosi è chiara: l’abbuffata di debiti privati nel periodo pre crisi, unita al loro lievitare a causa della crisi, ha determinato che i “NPLs in Italia abbiamo raggiunto un livello sistemico”. Ciò malgrado il grosso di queste esposizioni dubbie sia concentrati su piccoli importi, oltre il 75%, infatti sono inferiori a 250mila euro, e tre quarti sono concentrati nel settore corporate, con un particolare concentrazione nel settore dei servizi e quello a bassa intensità tecnologica.
Questa riscrittura delle nostre emergenze nazionali mi sorprende non tanto perché non fosse nota, ma a cagione del fatto che sia ancora poco compresa. E soprattutto mi sorprende leggere che il Fmi giudichi come assolutamente necessario che il governo faccia “tutto ciò che è necessario” per arrivare a una soluzione. Come sempre i poteri pubblici, usualmente negletti, vengono invocati quando si tratta di riparare i danni fatti da quelli privati.
E le autorità, infatti, se ne sono fatte carico. Il Fmi si aspetta che entro la fine dell’anno arrivino dal governo proposte per la riforma del sistema delle insolvenze, mentre la Banca d’Italia sta lavorando a uno schema di supervisione per definire come e quando si debba arrivare a una svalutazione dei crediti dubbi. Il governo, inoltre, sta lavorando all’ipotesi di una asset management company (AMC), quella che la vulgata chiama bad bank, della quale però, nota il Fmi, “i dettagli non sono ancora noti”.
A tal fine, immagino, il Fmi elargisce alcuni suggerimenti, ricordando che “una soluzione potenziale bisogna sia onnicomprensiva dei diversi aspetti del problema”, che sono finanziari, economici e legali.
I problemi, infatti sono diversi e complessi. A cominciare dalla circostanza che “i potenziali e sostanziali gap sui prezzi (di questi crediti, ndr) conducono a disincentivi per le banche a svalutarli e venderli”. In quanto evidentemente, subirebbero perdite che non vogliono accollarsi. Anche perché “il trattamento fiscale penalizza le banche italiane che volessero svalutare più aggressivamente i crediti dubbi”.
Che fare dunque? Il Fmi nota che “ogni incertezza sulla qualità dei asset bancari italiani deve essere risolta”, magari coinvolgendo i regolatori che devono aiutare le banche a vedersela con questi crediti dubbi. E in tal senso sarebbe utile varare “forti disincentivi verso le banche che tengono questi crediti in bilancio”, accoppiandoli perciò a incentivi fiscali a liberarsene. Insomma, strategia “carota e bastone”, per usare le parole del Fmi.
Dulcis un fundo, una “AMC può altresì giocare un ruolo utile per sviluppare un mercato del debito incerto”. Meglio ancora, “una AMC centralizzata con alle spalle lo Stato può anche aiutare a far partire questo mercato”.
Sarà pure inefficiente l’amministrazione pubblica italiana. Ma quanno ce vo’, ce vo’.
(2/fine)
