I rischi crescenti del debito delle imprese

Basta il buon senso per capire perché un debito elevato possa essere molto problematico per un’azienda. Primo perché bisogna ripagarlo, insieme con gli interessi. Secondo perché, di conseguenza, ciò diminuisce le risorse per gli investimenti o per le assunzioni. E poi per gli effetti che può generare sul circuito bancario – scoraggiando l’attività di prestito – in caso di default. Non a caso il Fmi, nel suo ultimo GFSR, osserva che “il debito corporate ha aggravato gli effetti economici della crisi del debito nell’area dell’euro”. E basta ricordare l’annosa vicenda dei crediti bancari in sofferenza per chiudere il discorso.

Senonché il buon senso non basta quando si è immersi in un gioco economico che ne sembra sprovvisto. Il debito corporate, infatti, non solo è cresciuto, dopo la crisi, ma ha anche peggiorato la sua qualità, minacciando di diventare la peste prossima ventura del sistema finanziario. “Il debito è aumentato – scrive in Fmi – ed è sempre più utilizzato per assunzione di rischi a scopo finanziario”. Ad esempio “per finanziare i dividendi aziendali agli investitori”, oppure “per fusioni e acquisizioni (M&A), in particolare negli Stati Uniti”. Peraltro questi flussi, coccolati dai bassi tassi di interesse, stanno “sempre più fluendo verso i mutuatari più rischiosi”.

Questo spiega perché il Fmi se ne occupi, concludendo che i “debiti a rischio (debiti dovuti da società i cui guadagni non sono sufficienti a coprire i pagamenti di interessi) e i debiti di tipo speculativo sono già elevati in molte grandi economie”. E tutto ciò mentre il rallentamento della crescita ha condotto a una decelerazione delle vendite da parte delle aziende, che certo non giova alla loro solvibilità. Negli Usa, ad esempio, i profitti “per quanto solidi” sono diminuiti quest’anno a fronte di retribuzioni crescenti e aumento del costo degli input, che probabilmente scontano l’inasprimento tariffario.

Da un punto di vista sistemico, tuttavia, è interessante osservare anche da dove le imprese attingano le risorse per i loro prestiti. Perché oltre al normale credito bancario, ciò che si osserva è un altro singolare effetto del costante allentamento monetario. La caduta dei tassi di interesse, che quest’ultimo ha contribuito a determinare, ha indotto altre entità finanziarie, come ad esempio i fondi, in cerca di rendimenti, a rivolgersi al mercato dei bond aziendali. Ciò ha conferito una insolita robustezza alle emissioni, sia di corporate bond che di syndacated loans.

Quindi, in sostanza, il rischio di questi bond si è esteso “contagiando” anche intermediari che sono pressati dalla fame di rendimento, dovendo sostanzialmente soddisfare quella dei sottoscrittori dei loro prodotti finanziari. Tramite loro, perciò, il rischio si è esteso anche ai risparmiatori, che magari non ne hanno alcuna consapevolezza.

A fronte di ciò, alcuni comportamenti delle aziende sono poco rassicuranti. La quota di dividendi pagati a debito, come abbiamo detto, è in crescita come anche l’utilizzo di prestiti per i buyback. E gli Usa guidano questa classifica.

E sempre negli Usa si registra una maggiore espansione dei prestiti alle imprese da parte di entità non bancarie.

Questo scenario, nutrito anche dai tassi bassi, spiega bene perché questi ultimi siano necessari per tenere tutto in piedi. E non è detto che basti. Negli scenari avversi ipotizzati dal Fmi, una crescita più lenta del previsto è capace di mettere in tensione i bilanci aziendali malgrado il livello contenuti dei tassi. Molto dipende dai livello di debito a rischio annidato nel settore.

“In Francia e Spagna – sottolinea il Fmi – il debito a rischio si sta avvicinando ai livelli osservati durante le crisi precedenti; mentre in Cina, nel Regno Unito e negli Stati Uniti, supera questi livelli”. Con l’aggravante che “in Cina e in UK il deterioramento della qualità del credito è guidato principalmente dalle grandi aziende, mentre in Francia e Spagna sia dalle grandi che medie”. In aggregato nelle economie osservate dal Fmi, uno scenario avverso potrebbe far schizzare il debito a rischio a 19 trilioni, ossia il 40% del debito totale del settore corporate.

Ed è in questo frangente che diventa sistemico sapere che questa carta è finita in pancia a chi dovrebbe assicurare alcune prestazioni ai propri sottoscrittori. Si pensi ad esempio a un fondo pensione. In caso di scenario avverso questi soggetti, che hanno un profilo di rischio molto diverso rispetto a una banca che presta di mestiere, potrebbero generare vendite disordinate di asset che contribuirebbero ulteriormente a peggiorare il clima.

Il condizionale è d’obbligo, visto che parliamo di comportamenti ipotetici. Ma è un fatto, come illustra bene il grafico sopra, che l’appetito (al rischio) vien mangiando. C’è da augurarsi di fare una buona digestione.

 

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