La globalizzazione che non va in crisi: quella finanziaria

Se le rotte commerciali attraverso le quali viaggiano beni e servizi rappresentano il sistema circolatorio del nostro organismo economico, il centro del sistema – il cuore potremmo dire – è rappresentato da un’infrastruttura altrettanto complessa dove il valore economico di queste transazioni viene processato e redistribuito, premiando innanzitutto chi a tale infrastruttura partecipa.

La globalizzazione degli scambi genera per pura partenogenesi anche quella finanziaria che si articola secondo una logica multinazione, com’è logico che sia in una internazionalizzazione, e al tempo stesso fa leva su alcuni stati che offrono vantaggi fiscali competitivi.

Ed ecco che si delinea la coppia multinazionali&centri finanziari che così tanta letteratura ha generato in questi anni e che una recente ricognizione contenuta nell’ultimo bollettino economico della Bce ci aiuta a mettere meglio a fuoco.

Detto semplicemente, l’ultima ondata di globalizzazione, quella cresciuta lungo le coordinate dello sviluppo tecnologico e quindi delle attività immateriali, ha notevolmente potenziato il valore economico di molte imprese multinazionali, specie quelle quotate nei principali paesi avanzati, che ormai hanno attivi per centinaia di miliardi di dollari e una dimensione di prodotto simile a quella di molti piccoli stati. Sono le nuove patrie della globalizzazione, potremmo dire.

Questi soggetti adottano in maniera spregiudicata pratiche di arbitraggio fiscale che consentono loro, in maniera perfettamente legale, di eludere le tasse spostando gli utili in stati a bassa aliquota, o spostando le partite debitorie all’interno del gruppo stesso. L’Ocse stima che in questo modo sfuggano alla tassazione 240 miliardi di entrate fiscali.

Non è l’unica singolarità che queste entità generano all’interno del sistema. Assai più insidiosa, perché poco visibile, è la distorsione che questi movimenti generano all’interno delle contabilità nazionali, che vengono in qualche modo “ingannate” da una rappresentazione artificiale delle grandezze economiche che magari attribuiscono a un paese un saldo corrente positivo – si pensi al caso dell’Irlanda – che dipende proprio dal fatto che ospita una multinazionale. Una questione particolarmente rilevante in Europa.

L’area euro in particolare ospita diversi centri finanziari, vere calamite per le multinazionali, che proprio dalla globalizzazione traggono grandi benefici. Per classificarli la Bce utilizza una definizione operativa standard sulla base della dimensione del loro stock di passività estere – ché questo sono gli asset ospitati da un paese – sul pil.

“Si tratta quindi di economie – sottolinea la Bce – in cui le attività finanziarie tendono a dominare l’attività economica nazionale”. La qualcosa alimenta da decenni parecchi svariati moralismi e molti equivoci, destinati sicuramente ad aumentare d’intensità una volta che si dovrà affrontare il costo della ricostruzione post-pandemica.

La Bce identifica dieci centri finanziari, individuati fra altrettante economie avanzate, con il rapporto più elevato fra passività esteri e pil in un campione di 60 paesi. Sei di questi dieci centri sono nell’eurozona: Belgio, Cipro, Irlanda, Lussemburgo, Malta e Olanda. Altri due sono europei, pure se non nella zona euro o nell’Ue, ossia Svizzera e Regno Unito. Le altre due sono Hong Kong e Singapore.

E’ interessante osservare che “la crisi finanziaria mondiale del 2008 non sembra aver intaccato la crescita dell’integrazione finanziaria internazionale dei centri finanziari”, come scrive la Bce. Nei centri finanziari, infatti, il valore mediano delle passività sull’estero è aumentato da circa sette volte il PIL, prima della crisi finanziaria mondiale, a quasi undici volte il PIL alla fine del 2018.

La globalizzazione (per ora) non conosce crisi. Almeno quella finanziaria.

(1/segue)

Seguito e fine: Nel cuore della globalizzazione: anatomia dei centri finanziari

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